CASI CLINICI

Fin dall’inizio di questo lavoro, mi sono accorto del seguito che avevano i casi clinici che mi trovavo a condividere con voi. Dato il continuo cambio di argomenti, questi articoli finiscono velocemente in quella sorta di ‘dimenticatoio’ che un blog, data la sua stessa natura dinamica, necessariamente comporta.

Ho pensato, quindi di raccogliere i casi clinici all’interno di un’unica pagina di modo che la loro consultazione, lettura, condivisione, risulti più semplice. 

Storia di Sara

Eccovi un caso clinico che tenevo a raccontare per sapere quali possono essere le vostre impressioni.

Sara, ragazzina di 12 anni. Sveglia, intelligente, perfettamente ‘normale’. Il problema? Timida. Immaginate qualcosa di peggio per la nostra società? La vedo da qualche tempo e credo che tra noi si sia instaurato un ottimo rapporto. Noto anch’io che può non avere facilità di rapporti, ma non è qualcosa che considero problematico. Ci ha messo del tempo ma ora si fida di me ed io credo che non abbia alcun problema nonostante i genitori credano vadano inquadrate meglio alcune sue tendenze come questa all’isolamento. Più volte parlo con lei sulla sua volontà di stare con gli altri ma mi risponde sempre con un buon senso al quale non posso obiettare nulla: non le piace parlare con gli sconosciuti, prima di dare confidenza ha bisogno di tempo, le persone grandi spesso le chiedono cose di cui non le piace parlare e così via. Se fosse una persona adulta non staremmo neanche qui a parlarne. Ma, purtroppo per lei, ha 12 anni. Quindi qualcuno deve dirle cosa va bene/ non va bene fare.

Un giorno il padre mi chiede se posso essere contattato dalla sua insegnante, perché vuole sapere come si devono comportare con lei quando tende ad isolarsi. L’episodio più recente avviene durante una gita nel quale Sara tende a stare in disparte. La richiesta del padre avviene davanti alla bambina stessa e mi parla di lei come se non ci fosse. La prima cosa che penso di fare è coinvolgerla nella discussione. Le chiedo se si sia divertita durante la gita e mi risponde si. Le chiedo se per lei è un problema che io venga contattato da una sua insegnante per questa faccenda. Mi risponde che non c’ è problema. Le chiedo infine che cosa pensa che potrò dire alla sua insegnante nel caso mi contatti. E mi risponde di dire che lei è stata bene.

Provo a questo punto a far riflettere il padre facendo delle considerazioni a voce alta: per quale motivo tutti danno per scontato che sia stata male se lei stessa dice che è stata bene? Per quale motivo dobbiamo cercare di prendere delle decisioni sulla sua testa come se lei non fosse in grado di esprimere un parere? Non fraintendetemi: so benissimo che stiamo parlando di una persona minorenne, per legge non in grado di avere responsabilità. Ma neanche di avere la responsabilità di gestire come meglio crede la sua gita?

Ho pensato che al massimo potevo parlare con lei del perché non le piacesse stare con gli altri in gita, del perché avesse preferito stare da sola, del perché non volesse condividere le sue impressioni, le sue emozioni con gli altri.

Capisco l’intento del genitori, come credo di capire l’intento delle insegnanti. Penso però che questo intento di migliorare la situazione di una persona, per quanto minorenne, non possa farci prescindere dalle ragioni della persona stessa. Non sto dicendo che ci siano stati errori, o comportamenti sbagliati, anzi. L’attenzione dimostra come Sara sia all’interno di relazioni protettive e accorte. Vorrei solo che questa attenzione non offuscasse le volontà e i desideri di Sara.

Credo sia meglio cercare di capire che correggere. E, vi assicuro, non fa differenza se la persona da capire ha 12 anni. 

A presto…

Fabrizio

Storia di Enzo (1)


Volevo condividere con voi un caso clinico. Inutile vi dica che i dettagli di queste storie sono modificati per preservare l’identità delle persone. Chiameremo questo ragazzo Enzo. Enzo ha sedici anni, va bene a scuola, è molto educato e sveglio. E’ un piacere lavorare con lui, riesce a seguire ragionamenti anche abbastanza complessi, è curioso. Insomma, una splendida persona. Se non fosse che ha un problema che lo assilla: la tricotillomania. Per chi di voi non sapesse cos’è, vi posso dire che la tricotillomania è un atto di autolesionismo che consiste nello strapparsi i capelli. Inutile vi dica che questo sintomo segnala un disagio abbastanza pronunciato. Io vedo Enzo una volta alla settimana da circa due mesi. Aveva cercato di iniziare altri percorsi terapeutici ma senza riuscire a trovare un suo senso, tanto che più volte ha sospeso la terapia. Quando arriva da me, uno degli aspetti che reputo più interessante riguarda il fatto che io sono un uomo mentre gran parte delle altre persone con cui ha lavorato in precedenza erano donne. Non è, naturalmente, una questione di sesso, quanto una questione di possibile identificazione con una figura maschile. Enzo non ha, infatti, un buon rapporto con il padre. Tende a non volerlo coinvolgere nella sua vita e a non farlo partecipe di quello che gli accade. Ne parla in tono accusatorio e svalutante mentre tutt’altro discorso fa sulla madre che sarebbe attenta e vicina alle sue esigenze. Parlandone con il mio supervisore, notiamo come questo elemento potrebbe far si che il rapporto tra noi possa essere costruttivo e che lui possa trovare in me una figura maschile positiva con la quale stabilire una buona relazione. Pensiamo, infatti, come uno dei limiti che possono aver sabotato le altre terapie potrebbe essere la coincidenza tra la figura terapeutica e la figura materna. Dobbiamo tenere presente che parliamo di un adolescente che, da bravo adolescente, sta mettendo in discussione le figure genitoriali. Perché le dovrebbe riaccettarle sotto forma di terapeuta? Da questo punto di vista io costituisco una rottura: sono più giovane e non identificabile con una figura genitoriale.

Il rapporto tra noi, dopo una normale diffidenza, inizia ad essere buono.  Il tema principale, la tricotillomania, sembra rimanere sullo sfondo e non viene mai portato direttamente. Il rispetto per i suoi tempi, mi suggerisce di non affrontare subito, forzandolo, questo tema. Il mio pensiero ricorrente riguarda il fatto che Enzo sia stato sempre visto come quello-che-si-strappa-i-capelli. Non ho nessuna intenzione di etichettarlo nello stesso modo e lascio che inizi a mostrarmi quello che preferisce della sua vita. Naturalmente, scopro come ci sia moltissimo altro. E iniziamo a lavorare su quello che mi porta. Innanzitutto, la prima cosa che faccio è quella di cercare di far si che venga fuori la motivazione per cui viene da me. Non voglio che possa rifugiarsi dietro un “mi obbligano” ma che si veda come una persona che può scegliere cosa fare.

– Continua –

Storia di Enzo (2)


Uno degli aspetti che noto da subito è una forte dipendenza dal giudizio degli altri. Enzo ha paura di muoversi autonomamente, non si sente in grado di far nulla che non preveda il considerare l’opinione degli altri. Teniamo conto che stiamo parlando di una persona di 16 anni. E’ naturale che, nel momento della vita in cui una persona sta costruendo la propria immagine, l’opinione, le impressioni, i rimandi degli altri giochino un ruolo fondamentale. Questa è la premessa che dovremmo tenere presente nell’approcciare con adolescenti. In questa situazione particolare però, noto come gli altri possano plasmare i movimenti di Enzo dal momento che lui è in grado di rinunciare ad un suo interesse solo perché qualcuno ha idea che quell’interesse sia futile.

Credo che questa dipendenza eccessiva dalle opinioni e dalle idee altrui possa segnalare una carente autostima di Enzo. Se l’idea che lui ha di se stesso fosse più positiva, credo che, pur ascoltando  e prendendo in considerazione le idee degli altri, sarebbe in grado di poter scegliere da solo e capire cosa sia giusto per se stesso. Se sceglie sempre e solo le idee degli altri come se fossero migliori cosa si sta dicendo? Che le sue valgono meno? Si tratta, ora, di cercare di capire a cosa possa essere dovuta la bassa autostima. Credo che gli ideali che Enzo ha delle persone gli impediscano di vedere le cose per come sono. All’interno di una necessità semplificativa di un mondo in evoluzione, un mondo che lo vede come bambino e come adulto, come maturo e come immaturo, che fornisce, cioè una serie di segnali discordanti per cui la confusione aumenta, gli adolescenti sono spesso presi nel gioco dell’Assoluto, dei Posizionamenti, per cui le cose sono o tutte belle o tutte brutte, o tutte giuste o tutte sbagliate, impedendo loro di cogliere quelle sfumature, quell’ambivalenza semantica che, giocoforza, fa parte delle umane cose. Questo è il motivo per cui spesso si trovano a tenere in piedi posizioni intransigenti delle quali anche loro avvertono le costrizioni ma che, in qualche misura,  li difendono dal caos. In un momento di transizione ognuno di noi non si aggrappa ad alcune certezze? Nell’idea di Enzo la dicotomia, la separazione, avviene tra l’interno e l’esterno. Il buono sembra essere esterno mentre il negativo sembra essere interno. E’ovvio che questa separatezza sia più ideale che reale ma riesce in qualche maniera a compenetrare tutto il suo mondo. Come si può relativizzare una posizione del genere? Nel mio lavoro utilizzo due chiavi per me fondamentali: l’ironia e la metafora. Uso molto spesso metafore, immagini attraverso le quali riesco a condensare delle realtà spesso incomunicabili e incomprensibili. Tramite la metafora avviene questa sorta di magia per cui l’altro capisce cosa voglio dire e l’immagine che gli rimando può essere più facilmente assimilata e ricordata per cui il lavoro alla fine può risultare più facile. Anche l’ironia, termine con il quale, nel rispetto della storia che mi si porta, intendo quella capacità di saper sorridere in certi frangenti, è un mio grande alleato: fa parte del mio modo di essere e riesce in qualche maniera ad abbassare il tono tensivo in alcuni momenti. Tramite questi due ‘strumenti’ riesco a relativizzare la posizione assolutista assunta su alcuni punti da Enzo e introduco una possibilità di dubbio in realtà che, prima, venivano date come assodate, certe, indiscutibili.

– Continua –

Storia di Enzo (3)


Questa apertura introduce la possibilità di concentrarci su un’altra questione: perché le idee di noi stessi anche quelle svalutanti sono coltivate con tanta attenzione? Perché sono realtà conosciute? Una delle cose che mi colpisce spesso della mia professione, riguarda il fatto che le persone si costruisco una vera e propria mitologia e, per quanto questa possa essere difficile da mantenere, o strana, o impattante con la propria realtà quotidiana, si trovano a difenderla con le unghie e con i denti non appena questa mitologia viene messa in discussione. Col termine mitologia intendo tutta quella serie di credenze, di idee, di modelli, di archetipi che ognuno di noi si costruisce e che considera fondativi della propria esperienza di vita, che ci guida e ci permette di conoscere il mondo. Talvolta, sembra difficile capire cosa faccia di buono questa visione del mondo, ma ho appreso che una funzione che svolge spesso è quella protettiva.  “Protettivo per chi?” vi chiederete. Può essere protettivo per diversi attori: lo può essere per la persona stessa,  che vi si trincera dietro e che, tramite questa visione, conosce il mondo. Oppure può essere protettiva nei confronti delle persone significative che, con questa persona, hanno dei rapporti. In altre parole è come se noi avessimo degli occhiali tramite i quali guardiamo il mondo. Questi occhiali non ci consentono di vedere la realtà per quello che è ma per quello che noi crediamo che sia. E ci abituiamo talmente tanto alla visione che questi occhiali ci consentono, da non riuscire ad immaginare nessuna realtà diversa da come l’abbiamo vista e da come pensiamo sia naturale che sia.

Come possiamo muoverci, allora, per provare ad immaginare questo mondo, e il mondo di Enzo in particolare, senza questi occhiali? Innanzitutto credo che il primo passo sia capire che si hanno questi occhiali. Se Enzo non ha la consapevolezza di guardare il mondo tramite una sua visione, ed è invece convinto, come spesso noi facciamo, di vedere una realtà “oggettiva”, non potremmo introdurre dei nuovi occhiali, che permettano di vedere le cose da un altro punto di vista. Oppure non potremmo permetterci di aggiungere dettagli cui prima non prestavamo attenzione. O, ancora, non potremmo permetterci di raccontarci le cose in maniera diversa. Il secondo passo può essere quello di capire se questi occhiali sono adeguati alla nostra vista. Come detto, alcune volte ci adagiamo su delle prospettive, su dei racconti, su delle mitologie, non perché ci facciano star bene quanto perché ormai sono assodate e conosciute. Talmente assodate e conosciute che non ci prendiamo più la briga di metterle in discussione perché le riteniamo più facili, più semplici, più comodi, rispetto alla difficoltà di considerare delle prospettive nuove e non familiari. Prima di abbandonarle forse è necessario capire l’inadeguatezza che queste visioni hanno nella nostra vita attuale. Voglio dire se da piccoli avevamo l’impressione che tutto fosse enorme e irraggiungibile, questa visione è cambiata (spero!) nel momento in cui siamo cresciuti. Quello che ritenevamo fosse assodato da piccoli viene messo in discussione nel momento in cui cresciamo. Ci rendiamo conto come non rappresenti più il nostro mondo. Nel momento in cui percepiamo questa insufficienza nella nostra mitologia magari siamo pronti per sostituirla. E il passaggio può essere compiuto nel momento in cui una prospettiva nuova è stata costruita e permette di mandare in pensione la vecchia.

– Continua –

Storia di Enzo (4)


Nel caso di Enzo c’era un’immagine che tornava spesso: quella per la quale Enzo si senta meno degli altri, già accennata prima. Per meno intendo che si senta fisicamente e intellettualmente meno degli altri e, nella sua visione questo è mitologico, è un dato acquisito con cui lui si relaziona agli altri (e con se stesso!) e gli permette di vedersi solo come quello che non può stare al passo con gli altri in nessun campo. Non riesce a vedere le varie cose per cui non solo sta al passo con gli altri ma, magari, anche un passo avanti, come per esempio nella scuola, perché questo aspetto non si addice con la visione che lui ha di se stesso. Cerca sempre gli elementi che confermino questa visione non quelli che li disconfermino.

Quale senso può avere per lui questo? Lavorandoci su noto come questa visione sia in parte sua ma anche un rimando dell’ambiente circostante che gli ha reso sempre un’immagine di se stesso come gracile, mingherlino, poco adatto agli sport, poco adatto alle attività in cui fosse necessaria la forza fisica, esaltando invece le sue doti intellettuali. Il risultato è stato che Enzo è molto sveglio dal punto di vista intellettuale (ovviamente non ricoscendoselo perché comunque, è la persona che non sa far nulla), ma crede di non poter far nulla sul piano fisico. Crede non sia il suo campo. Quanto di questa idea è sua e quanto è introiettata dal modo circostante? Ormai, possiamo dirlo, è anche sua. Ma lo rappresenta ancora? Mentre lavoriamo cerco di farlo riflettere su questo, su come questa idea sia ormai di tutti ma che non riesco a capire quanto rappresenti ognuno di loro e soprattutto lui.  Ma, come dicevamo, questa immagine non può essere abbandonata se non ci si può vedere in un altro modo. Voi potreste traslocare senza avere ancora una casa dove andare? Così per Enzo. Innanzitutto riflettiamo su quanto questo lo rappresenti. Molto, mi dice. Quanto lo stimola a cambiare? Per nulla, mi dice. Questa ormai è la sua realtà. E, in questo punto, cerco di introdurre la nuova prospettiva di cui parlavamo prima. L’idea nuova è che lui abbia dato retta a quest’immagine per proteggere altre persone. In altre parole, gli rendo l’impressione che questa immagine sembra appartenere più a coloro che da bambino vedevano Enzo piccolo e gracile (soprattutto, vengo a sapere, in famiglia) e che Enzo si sia sentito così più per proteggere la visione degli altri oltreché la sua. Sarebbe un cambio di prospettiva enorme, non solo per lui ma anche per tutti che si troverebbero a dover fare i conti con elementi del tutto nuovi. Questa sua incapacità fisica non sarebbe allora REALE, sarebbe frutto di quella mitologia condivisa per cui lui non sarà in grado di fare bene attività pratiche.

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Storia di Enzo (5)


Ma, tornando a noi che senso avrebbe questo? Perché uno dovrebbe auto svalutarsi per far piacere agli altri? Ovviamente i termini non sono così semplicistici. E se aggiungessi agli elementi che abbiamo in mano il fatto che Enzo è il più piccolo di tre fratelli molto più grandi di lui, è l’ultimogenito di una coppia di genitori molto anziani? Se aggiungessi che la madre, che non va più molto d’accordo con il marito ha in Enzo la sua unica speranza di non rimanere sola? Se aggiungessi che se Enzo fosse una persona convinta di poter essere indipendente, autonomo, forte, sarebbe una persona che andrebbe via di casa appena iscritto all’università? Se aggiungessi che la madre resterebbe sola con un marito che non sopporta e di cui Enzo è ovviamente al corrente. Se vi dicessi che tutto il suo mondo sembra essere legato al problema di non lasciare la madre sola non vi sembra che il comportamento di Enzo acquisti all’improvviso un enorme senso?

Abbiamo una versione alternativa del mito di Enzo. Lui non è intrinsecamente incapace di far qualsiasi attività pratica: fare attività pratica, essere autonomo, essere indipendente, vanno contro tutta una serie di altre ragioni, più profonde e non esplicitabili, che rendono Enzo legato a questo. Il fatto di disvelare questa altra lettura permette ad Enzo non solo di calibrare meglio la sua posizione, ma di rendersi conto come sia  legato a schemi da lui controllati solo in parte. Gli permette di capire se quello che sta succedendo sia sostenibile  oppure no. Una cosa importante del mio lavoro infatti è quella di fornire dei passaggi mancanti, delle chiavi alternative che permettano alla persona di avere più letture e di non sentirsi prigioniero di quello che accade. Il fatto che vengano fornite più versioni infatti non significa necessariamente che questo provochi un cambiamento: semplicemente permette alla persona di poter scegliere, di poter vedere quale delle alternative possa rappresentarlo meglio. Possono iniziare così piccoli movimenti, piccoli passaggi che, forse, segnalano un cambiamento rispetto ad alcune posizioni. Enzo inizia ad essere più litigioso con i suoi amici, a voler ribadire e rimarcare la sua posizione. E credo sia un segnale di come lui inizi a chiedersi dove sia rispetto a quello che fanno/pensano gli altri.

Nel momento in cui inizia questo processo definitore, Enzo può permettersi di sperimentare degli aspetti di se stesso che sono sempre passati in secondo piano: tutta una serie di emozioni che potevano essere nascoste o comunque non essere prese in considerazione. Primo fra tutte forse la rabbia. Essere “incastrati” in una situazione del genere, sentirsi come unici responsabili delle sorti del genitore oltre ad essere un compito molto pesante, potrebbe essere sentito come un compito ingiusto. Ma quando questa rabbia è rivolta alla persona per cui sentiamo amore, quando la rabbia è rivolta alla persona che ci ha messo al mondo non può essere esplicitata senza provocare un conflitto interno molto pericoloso. Verso chi poteva rivolgere la sua rabbia Enzo? Chi gli rimaneva sotto mano per poter scaricare la sua rabbia, la sua aggressività tutte emozioni non tollerate per una persona non autonoma? Se stesso. La persona con cui Enzo se la poteva prendere era soltanto lui. Non si sabotava solo a livello razionale (valgo meno degli altri, gli altri sono meglio di me) ma anche a livello fisico strappandosi i capelli, facendosi male fisicamente. Se ci pensiamo poi i capelli per noi hanno sempre avuto una fortissima valenza simbolica: sono segno di personalità, li coloriamo, li tagliamo, se li perdiamo ci sentiamo vecchi. Come non pensare poi al mito di Sansone che senza quei capelli perdeva addirittura la forza? Senza contare che tramite questo forse, permetteva di dar voce ad un dolore altrimenti inesprimibile, difficilmente verbalizzabile. Ecco allora che un atto apparentemente incomprensibile, apparentemente senza senso, apparentemente stupido, acquista un valore di senso fondamentale. Un valore. Potrebbero esserci altri sensi, validi altrettanto. Credo che l’obiettivo, quello di fornire un’ alternativa, sia il primo passo per la messa in discussione di un mitologia così radicata come quella di Enzo.

– Continua –

Storia di Enzo (6)


Avrei voluto finire con un happy ending degno della migliore tradizione disneyana. In realtà non credo ci sia un happy ending semplicemente perché il lavoro è ancora in corso. Enzo ha diminuito i suoi atti ma non li ha del tutto lasciati. Ha una strada da compiere e l’accettazione di alcune cose non è facile. So che ha una volontà molto forte, si sta impegnando nel proseguire e credo che già questo sia un ottimo segnale. Tra l’altro succede spesso che ad una ristrutturazione personale non si accompagna, ovviamente, il cambiamento in tutte le persone che sono vicine e che quindi stentano e non riescono ad adeguarsi all’immagine della persona che cambia. Questo può provocare delle resistenze al cambiamento del paziente che può però essere messo in guardia sul fatto che questa evoluzione potrebbe essere accettata con difficoltà dalle persone che gli stanno intorno. E’ necessario allora supportare la persona di modo che possa sentirsi appoggiata nonostante, in una prima fase, percepisca come questo suo cambiamento stia provocando dei movimenti non graditi all’interno del sistema familiare e/o relazionale.

Un ultimo punto: perché vi ho raccontato tutto questo? Se rimanessi fedele alle mie premesse, potreste dire che questa storia non è insegnamento di nulla visto che, come dico spesso, ogni storia è una storia a se stante. Ribadendo il fatto che non voglia insegnare nulla, vi ho raccontato questo caso, con l’autorizzazione di Enzo, con l’intento di permettere una riflessione circa il lavoro che si può fare. Anche se la vostra storia può sembrarvi stupida, folle, priva di senso, MALATA, può invece, ne sono sempre più convinto, avere un significato per voi molto forte e questo significato può essere condiviso e ricostruito. Questa condivisione può far si che possiate avere un cambio di prospettiva su voi stessi e questo cambio di prospettiva, facendovi vedere le cose da un altro punto di vista, può portarvi ad accettare aspetti che prima consideravate dei punti deboli o lati fragili di voi .

Se, sorprendentemente, si rivelassero punti di forza?

A presto…

Fabrizio

Storia di Elisa (1)


Sempre col consenso degli interessati, pubblico il “carteggio” tra me e la madre di una ragazza di 12 anni che chiameremo Elisa. La madre mi ha contattato dopo aver letto il post Storia di Sara, pubblicato sul blog il 26.04.11. Abbiamo concordato di renderlo pubblico, sperando possa servire a genitori che si trovano ad affrontare le stesse paure. È diviso in due parti per non rendere eccessivamente lunga la lettura.

(Emanuela) Gentile Dottore, stavo leggendo la storia di Sara e ritrovo molto nella bambina il carattere della mia Elisa. Anche lei ha 12 anni e nessuna amica, quando viene invitata alle feste di compleanno delle compagne di scuola o delle sue ex compagne della quinta elementare rifiuta sempre di andare (non me lo dice neanche),  passa i pomeriggi con la nonna e sempre in casa. Io e mio marito lavoriamo, torniamo a casa alle sette. Sono molto preoccupata anche perché il rendimento scolastico di Elisa quest’anno è sceso notevolmente, dovuto al fatto, a sentire i professori, che non riesce a esprimere a parole quello che studia. Volevo chiederle  se è il caso di portare Elisa da qualche bravo dottore per farla parlare un po’ oppure cosa mi consiglia di fare. Quest’anno, frequenta la prima media, non ha voluto fare nessuno sport pomeridiano, ma l’anno prossimo vorrei farle frequentare un corso, organizzato dalla scuola, di atletica leggera (dovrò impormi per mandarla). Sembra che non abbia interesse a fare niente, non ha passioni, ma penso che sia per non dover uscire dal suo guscio caldo  e affrontare il mondo. Mi dia qualche consiglio, La prego, sono un po’ angosciata, mi sembra di non fare abbastanza per lei. Noi abitiamo a Roma, se riterrà opportuno consigliarmi di farla vedere mi potrebbe fornire anche qualche nominativo ?

Grazie infinite se mi potra’ rispondere.

(Fabrizio) Salve Emanuela grazie per l’attenzione. La cosa che mi veniva in mente leggendo la sua email, era se qualcuno avesse  provato a parlare con Elisa e, nel caso l’avesse fatto, cosa ne pensava lei circa questa sua preoccupazione. Anche suo marito condivide il suo punto di vista su Elisa? Credo di comprendere quella che lei chiama angoscia e non ho ricette magiche da darle dato che, purtroppo, non ho la fortuna di conoscere sua figlia. Se posso suggerirle qualcosa è coinvolgerla attivamente in ogni decisione che la riguardi facendole comprendere cosa vi stia muovendo a farlo. Potrebbe non capirne le ragioni, potrebbe opporsi ma sicuramente apprezzerà il fatto che le decisioni non siano passate sopra la sua testa come se lei non ci fosse. Per quanto riguarda un possibile intervento di supporto non credo di avere dettagli tali da consigliarlo o da escluderlo.. Potrei dirle di farle fare un colloquio ma non saprei se fosse una misura eccessiva o viceversa se le dicessi di non farlo potrei sottovalutare una situazione di possibile forte disagio. Mi dia altri dettagli e mi faccia sapere gli sviluppi! A presto Fabrizio

(E.) Dottore, che gioia ricevere la Sua risposta.

Mia figlia riguardo la nostra preoccupazione circa la sua timidezza se ne disinteressa completamente, quando le faccio notare (ma non spesso perché non voglio che si senta oggetto di un problema) che potrebbe essere più socievole dice che sta bene così. Ha anche tanti strani atteggiamenti che da mamma so che sono dovuti alla timidezza ma visti da una persona esterna sembrano maleducazione. Ad esempio la mattina davanti a scuola non guarda mai negli occhi le compagne che le parlano, tante volte non risponde nemmeno, fa sempre la faccia da annoiata come se non potesse interessarsi alle cose perché ha sonno.

Quando e’ in mezzo alla gente sta tutta ingobbita e si mangia continuamente le unghie. Ieri siamo andati a un battesimo lei ed io e poi c’e’ stato il rinfresco all’aperto con diversi bambini con i quali non ha voluto assolutamente giocare, stando sempre attaccata a me. A scuola purtroppo non va meglio, ha falsificato vari voti sul libretto sia nel primo che secondo quadrimestre tanto da rischiare una sospensione (per questo ha preso 7 in condotta). Lei sostiene che ha paura della nostra reazione ma anche se non siamo dei genitori perfetti cerchiamo sempre, magari dopo una sfuriata specialmente da parte mia, di parlarle, di cercare di capire. Anche i professori e in particolare quello di italiano è severo ma non orribile, scoperte le contraffazioni le ha spiegato che era una cosa contro la legge scolastica e le ha (spero) fatto capire che se lo rifaceva avrebbe rischiato tanto, ma sempre con maniere pacate. Lei ascoltando questo discorso non ha detto una parola, annuiva solamente.

Sono molto combattuta tra la voglia di lasciarla in pace, magari le sto troppo addosso, e quella di fare qualcosa, di portarla da qualche persona competente che mi possa dire se il suo comportamento è normale o no. Ho tanta paura che rimanga sola, non ha amiche con cui trovarsi, e anche qualche bambina volenterosa poi si stufa della sua mancanza di iniziativa e di entusiasmo. Sembra che niente le interessi. Adesso è a casa con i nonni, lì si sente bene è contenta, può secondo me essere se stessa. Già con noi è meno tranquilla. Non so se sono stata esauriente, forse si chiederà, siccome ho parlato sempre di noi due che ruolo abbia il papa’ in questa situazione. Se ne sta un po’ in disparte, cerca di seguirla nei compiti ma purtroppo non vanno molto d’accordo litigano sempre, lui vorrebbe una figlia che capisse tutto al volo e Elisa in questo momento non è proprio cosi’. Dobbiamo avere più pazienza o come dobbiamo comportarci ? La ringrazio tantissimo dell’attenzione, spero di leggere la sua risposta.

Emanuela

– Continua –

Storia di Elisa (2)


(F.) Salve Emanuela mi scuso ancora per la lentezza con la quale riesco a risponderle. Grazie dei molti dettagli in più, che mi hanno permesso di capire un pò meglio la situazione. Quello che non capisco è cosa pensi Elisa della sua situazione. E’ preoccupata perchè si sente sola o sarebbe più contenta se la si lasciasse stare? un’altra cosa: vostra figlia è sempre stata timida o è solo ultimamente che sta mostrando questo tipo di atteggiamento? Sulla scuola nulla quaestio: ha commesso una scorrettezza e credo sia giusto che glielo si segnali così come mi sembra abbiate fatto. Circa il suo comportamento non so: se fosse una fase vi direi di provare a vedere come evolve, se fosse una cosa che Elisa ha sempre avuto vi direi che sarebbe il caso che voi consideraste questo tratto come tratto fondamentale della personalità di vostra figlia.
Capisco che la cosa le crei ansia e infatti ho pensato ad un suggerimento più per lei che per sua figlia. Ha pensato di rivolgersi lei ad uno psicologo? La mia idea è che potreste fare un lavoro su come lei, Emanuela, stia vivendo la situazione e potrebbe riuscire ad avere un bagaglio in più di conoscenze che potrebbe usare nel momento in cui vostra figlia richiedesse la vostra attenzione in maniera diversa rispetto a come fa ora. Che ne dice?  Se pensa che potrebbe essere un’idea posso informarmi con miei colleghi verso chi indirizzarla.
Mi faccia sapere se il suggerimento le è stato utile.
A presto

(E.) Grazie della sua gradita risposta.

E rispondo ai suoi quesiti. Elisa è tranquilla, non si sente sola, ha la nonna, e sarebbe molto contenta se io non le rompessi le scatole. Elisa è sempre stata una bambina riservata, a scuola elementare ha avuto una o due bambine con cui legava e che aiutava (bambine straniere quindi un po’ indietro con il programma e la lingua) ma non ha mai chiesto di andare da loro il pomeriggio ne’ che venissero a casa.

Caro Dottore io non aspetto altro che qualcuno mi dica che la devo lasciare stare, che e’ il suo carattere, questo creerebbe molta meno ansia a me e meno rotture da parte mia a lei. Come mamma e mamma lavoratrice mi sembra di non seguirla mai abbastanza e ho molti sensi di colpa ho paura di non  riuscire a darle l’affetto necessario per farla crescere armoniosamente. Ma con tutte queste paure penso di fare ancora peggio.Prenderò in considerazione la sua proposta di uno psicologo per me magari un po’ più avanti adesso siamo proprio ridotti all’osso e Elisa abbisogna dell’apparecchio per i denti.

La ringrazio veramente tanto. La seguiro’ sul sito con interesse. Ogni sua dritta sara’ ben accetta.

(F.) Salve Emanuela…

Come mi diceva mi sembra proprio che le caratteristiche delle quali mi parla siano connaturate in Elisa. Provi a considerare questa caratteristica di sua figlia come una sorta di riflessività accentuata magari dalla particolare fase evolutiva nella quale si trova, fase nella quale si sta costruendo una personalità. Forse segnala il bisogno di stare in disparte per capire meglio ciò che pensa e ciò che può essere. Non voglio assolutamente dirle di lasciarla stare, anzi credo che il compito di una madre sia quello di prestare attenzione, tutte le attenzioni possibili, ai propri figli. Quindi si dedichi pure a sua figlia, coi tempi e modi che riterrà opportuni, magari provi a parlarle delle sue paure, dei suoi sensi di colpa, contando sul fatto che Elisa possa capire meglio se coinvolta in quello che sta succedendo piuttosto che, come dire, ne rimanga ai margini.

Detto questo credo che le cose verranno più spontanee. Se posso, poi, un altro suggerimento: tenga presente che anche i servizi pubblici offrono il sostegno psicologico a prezzi più che contenuti. E, per esperienza diretta le posso dire che validissimi colleghi lavorano nelle ASL. Veda lei poi quando sarà possibile conciliare questo con la sua vita privata e lavorativa. Io la ringrazio per avermi contattato e non esiti a farlo qualora dovessero sorgere altri sensi di colpa! L’intento con cui è nato il blog è proprio quello di creare una rete che permetta alle persone di condividere i propri vissuti e e le proprie paure e che possa aiutare, nella condivisione, a trovare una forma valida di supporto.

P.S. potrei usare (naturalmente cambiando nomi e riferimenti geografici) la nostra “chiacchierata” come post nel blog? Credo potrebbe essere utile ad altre persone. Mi faccia sapere che ne pensa!

A presto!

(E.) Assolutamente sì, non mettendo il nome della bambina può fare quello che ritiene faccia bene a tutte le mamme un po’ mattonellose come me. Prenderò lo prometto in seria considerazione l’aiuto di uno psicologo, se Lei può indicarmi qualche persona quando potrò andrò (nelle ASL). Grazie infinite, anche con Elisa cercherò di seguire di più la sua natura e i suoi voleri, amandola sempre tantissimo e standole vicino. Un abbraccio.

(F.) Non si preoccupi la privacy sarà gelosamente custodita! Un ultimo suggerimento per lei: vorrei che si riconoscesse l’attenzione con la quale sta attenta a quello che fa, a come si muove, per il bene della sua famiglia e di sua figlia. Non è da tutti farsi delle domande e cercare delle soluzioni con tanta cura. La prossima volta che un senso di colpa dovesse romperle le scatole, gli faccia presente questa sua amorevole attenzione. Tutti noi potremo anche sbagliare, ma credo che gli errori fatti per attenzione, e non per mancata attenzione, dovrebbero essere giudicati  più benevolmente.

Sono sempre più convinto che poter condividere i nostri timori, poter dire ad alta voce le nostre paure, soprattutto quella di sbagliare, possa servire a disinnescarle e possa portare ad affrontarle con più fiducia riguardo alle nostre risorse senza essere concentrati sempre e solo sulle nostre mancanze.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

Disturbo post-traumatico da stress (1)


Il caso clinico che voglio sottoporvi oggi riguarda il cosiddetto disturbo post-traumatico da stress. È un disturbo che colpisce persone che siano state esposte ad episodi particolarmente acuti o pesanti di fattori stancanti. Secondo il DSM-IV (DSM-IV-TR, Criteri Diagnostici, ed. Elsevier Masson, Milano 2009) il manuale che contiene i criteri diagnostici in base al quale vengono, appunto, effettuate le diagnosi, il disturbo è caratterizzato da diversi aspetti. Vediamoli brevemente:

A) La persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri; 2)la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore.

B) l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno (o più dei seguenti modi):

1) Ricordi spiacevoli ricorrenti (…);

2) Sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento;

3) Agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (…);

4) Disagio psicologico intenso a fattori scatenanti interni o esterni (…);

5) Reattività fisiologica ad esposizione.

C) evitamento persistente dello stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale (…) con tre o più dei seguenti elementi:

1) Sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate col trauma;

2) Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma;

3) Incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma;

4) Riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative;

5) Sentimenti di distacco e di estraneità rispetto agli altri;

6) Affettività ridotta (…);

7) Sentimenti di diminuzione delle prospettive future (per es. aspettarsi di non poter avere una carriera, un matrimonio o dei figli o una normale durata della vita).

D) Sintomi persistenti di aumentato arousal [col termine arousal si intende lo stato di attivazione psicofisiologica dell’organismo] (non presenti prima del trauma), come indicato da almeno due dei seguenti elementi:

1) Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno;

2) Irritabilità o scoppi di collera;

3) Difficoltà a concentrarsi;

4) Ipervigilanza;

5) Esagerata risposte di allarme.

E) la durata del disturbo ( sintomi ai criteri B, C, e D) è superiore a 1 mese.

F) il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. [1]

Dopo questa breve introduzione il caso clinico. Questa esperienza è la storia di un paziente che chiameremo Marco. Marco, 32 anni, si reca a lavoro in sella al suo scooter. Un malaugurato (o no?) giorno, la sua vita si scontra con quella di un’altra persona che toccandolo, lo fa cadere dallo scooter. Nella caduta Marco non riporta gravi danni fisici (ha una lussazione al piede destro) ma sbatte forte la testa. Indossa il casco e, questo, evita danni ben peggiori. Dopo l’incidente Marco si rialza apparentemente illeso e riesce addirittura a recarsi al pronto soccorso più vicino. Da questo momento in poi il suo racconto si fa sempre più confuso. Entra, infatti, in uno stato molto forte di agitazione e di confusione. Non ricorda quello che gli è successo, non riesce ad orientarsi su dove si trovi e continua ripetere domande di cui, poco dopo, sembra dimenticare la risposta. Questo suo atteggiamento disorienta moltissimo i suoi familiari e amici che, nel frattempo, hanno raggiunto l’ospedale. Intanto Marco entra sempre di più in confusione, continua a fare le stesse domande e ad allarmare sempre di più le persone che si trovano con lui, che non capiscono quanto possa stare male. All’interno del nosocomio, intanto Marco viene sottoposto ad una serie di esami di accertamento che escludono danni al cervello. Questo non tranquillizza parenti e amici che vedono come invece Marco sembri avvitarsi sempre di più su stesso e sulle sue ridondanti domande. I parenti, preoccupati, rinforzano questo disorientamento alternandosi intorno a lui con il pretesto di cercare di farlo rinsavire ma alimentando in lui la confusione. I sanitari, nel frattempo, decidono che Marco si possa calmare solo evitando che venga assillato da loro e dalla loro presenza e lo tengono in un corridoi isolato dagli altri di modo che possa in qualche modo calmarsi. Questo stratagemma ottiene esattamente l’effetto opposto. Non vedendo nessuno di conosciuto che possa in qualche modo rassicurarlo, Marco si agita ulteriormente e lo stato di confusione prende il soppravvento facendolo entrare in uno stato di angoscia. Inizia a piangere sconsolato. Non sa dove si trovi, non sa che cosa gli sia successo, non vede nessuno di conosciuto, si guarda e vede come è ridotto non capendone il motivo. In breve non capisce minimamente la situazione e anche quel poco che pensava fosse chiaro, inizia a sfumare in una confusione ancora più grande. Non riesce neanche a comprendere in quale città si trovi. Racconta come, guardando fuori dalla finestra, si chieda dove sia capitato. Continua a chiedere a chiunque si trovi a tiro cosa sia successo. Dapprima lo rassicurano, ma il fatto di non ricordare quello che gli è stato detto lo rende tabula rasa dopo pochi secondi. Il disorientamento non passa neanche quando, finiti tutti gli esami, alla fine viene dimesso con prognosi di riposo assoluto. Il giorno dopo si sente stordito, indolenzito, e confuso, ma qualcosa sembra essere passata: la confusione continua. Ora, sembra in grado di trattenere le cose che gli dicono.

– Continua –

Disturbo post-traumatico da stress (2)


Subentrano, nel giro di pochi giorni, alcune cose che iniziano a non piacergli: non dorme bene, ha un sonno agitato e non riposante, sebbene non ricordi nessun sogno in particolare. Inizia ad insinuarsi in ogni cosa che preveda un minimo di pianificazione un sottile senso di ansia che pervade tutta la sua giornate anche nelle cose più piccole. Inizia ad avere paura ogni volta che sale in macchina, anche se i tratti di strada da fare sono brevi e non troppo trafficati. Inizia a manifestare veri e propri scoppi di ira che lui stesso giudica del tutto inadeguati a quello che li ha provocati. In uno di questi episodi, mi racconta, la causa dell’ira è legato al fatto di non trovare la sua penna preferita. Mi racconta che si sentiva assolutamente ‘fuori di testa’, sapeva benissimo che non poteva essere un motivo valido per attaccare briga con la sua fidanzata. Pur tuttavia, non era riuscito a bloccarsi in nessun modo. Sempre più spaventato da quello che gli stava succedendo, aveva deciso di forzare i tempi della guarigione rientrando a lavoro. Marco fa essenzialmente un lavoro di ufficio che gli permetteva di rientrare anche se aveva ancora il gesso. Anche a lavoro stavano succedendo cose che non lo facevano stare tranquillo e che aumentavano in lui la percezione che nulla sarebbe tornato come prima. Aveva l’impressione che gli altri lo stessero scaricando e che non godesse più della considerazione che aveva prima dell’incidente. Insomma, tutto quello che gli stava succedendo era dovuto a quel maledetto incidente. Se ci pensava razionalmente, però, si rendeva conto di quanto sembrasse sproporzionata la reazione rispetto a quello che era successo. Quando ci conoscemmo, Marco aveva deciso che non voleva più andare avanti così. Voleva cercare di far qualcosa che gli facesse capire cosa gli stava succedendo. Lavorammo, inizialmente, su quello che gli procurava più ansia. Dapprima il suo racconto si concentrò su quello che lo infastidiva maggiormente (
principalmente i disturbi del ciclo sonno-veglia e l’ansia). Man mano che il lavoro procedeva sembravamo focalizzarci sempre più su una paura che sembrava sovrastare le altre. La paura che potesse succedere nuovamente qualcosa di così grave. Ma grave da che punto di vista? Marco stesso diceva che, in fin dei conti, sarebbe potuto andare molto peggio. E allora cosa era successo di cosìgrave?  Continuammo a lavorarci su fino a che non si palesò ad entrambi il fatto che la cosa più grave che fosse successa riguardava il fatto che Marco avesse fatto i conti, per la prima volta nella sua vita, con l’idea che potesse morire. Per la prima volta in vita sua, aveva sentito che aveva rischiato la vita. “Se fosse passata una macchina dietro di me mi avrebbe potuto mettere sotto” ripeteva. Questa idea non lo aveva mai sfiorato prima. Tendiamo a pensare sempre che la morte riguarderà  altri, non noi. Il fatto che fosse giovane, in buona salute, non gli ha mai fatto prendere in considerazione il fatto che la morte potesse riguardare anche lui. Che fosse un destino condiviso. No. Gli altri muoiono. Io no. È l’idea stessa di mortalità che fa entrare in crisi tutti i nostri valori, tutti i nostri metri, tutte le nostre idee. Tutto viene ribaltato, tutto messo in discussione. Questo può alla lunga provocare quell’ansia, quella paura di cui Marco si lamentava. Che fare? Come si fa i conti con l’idea della nostra morte? Forse uno dei primi passi può essere quella di metterlo nel novero delle cose di cui possiamo parlarci. Se lasciassimo quest’area inesplorata è come se avessimo una zona grigia che non vogliamo prendere in considerazione per paura di quello che potrebbe succedere.

Com’è andata a finire? Non è andata a finire perché il lavoro è ancora in corso. Stiamo lavorando su quest’idea, sulla necessaria ristrutturazione che questo ha comportato nella vita di Marco. Paradossalmente solo ricomprendendo la morte  all’interno della nostra vita possiamo provare a sconfiggere quel senso di instabilità che stava mandando Marco nel panico. Mi piace pensare ad una frase che descrive perfettamente quanto descritto. Contenuta nello splendido libro Danzando con la famiglia, del terapeuta Carl Whitaker, dice: lidea che solo affrontando la nostra morte siamo liberi di vivere veramente è spaventosamente esatta (Carl Whitaker, Danzando con la famiglia, Astrolabio, pag. 65). Credo riassuma perfettamente ciò che intendevo comunicarvi!

A presto…

Fabrizio

 

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