Il post di oggi ha come tema l’importanza di dire no ai bambini. Abbiamo già affrontato questa tematica nel post I no che aiutano (i genitori) a crescere (1) e (2), dove affrontavo la questione da un punto di vista leggermente diverso dal momento che concentravo l’attenzione sulla difficoltà del genitore di assumere la responsabilità del proprio ruolo di adulto. Il senso del post odierno vuole invece concentrarsi sulla possibilità che la difficoltà nel dire no ai propri figli sia dovuta ad una ‘confusione emotiva’ tra i bisogni dei genitori e quella dei figli. Ma andiamo con ordine. Sembra una semplice questione di educazione, in realtà credo sia una questione estremamente complessa con diversi piani intrecciati (genitoriale, filiale, relazionale, ecc ) ed è il modo attraverso cui i bambini iniziano a rapportarsi e confrontarsi con il mondo circostante. Vi riporto i passi di un libro (riferimenti bibliografici alla fine della pagina) che illustrano bene il nodo centrale della questione:
(…) dire no, rifiutarsi di essere sempre presenti può rivelarsi molto utile per il bambino. Il nostro compito non è sempre quello di riempire i vuoti, ma dobbiamo anche tollerare questa posizione scomoda. Lo psicoterapeuta infantile Adam Phillips scrive: non è rivelatore quello che la noia di un bambino evoca negli adulti? Viene interpretata come una richiesta, come un’accusa di fallimento, come delusione; raramente viene accettata semplicemente per quello che è. E aggiunge: gli adulti sono tirannici quando pretendono con bambino sia interessato, invece di dedicare del tempo a scoprire cosa gli interessa. (…) L’alternativa però è di allungare il periodo della dipendenza è limitare le risorse del bambino, dipingendoli fra l’altro il mondo come un posto pericoloso. Dobbiamo soppesare attentamente i pro e i contro di una simile presa di posizione. [1]
Il punto importante di questo primo passaggio è capire cosa significhi il no per il bambino e cosa invece significhi per l’adulto che quel no si trova costretto a sancire. Per il bambino un no è lo spazio che non siamo disposti a travalicare, è il modo simbolico con cui lo proteggiamo da se stesso nel momento in cui gli stiamo dicendo che deve imparare ad uscire dal suo egocentrismo infantile (devo avere tutto ciò che desidero) e iniziare a fare i conti con quelle che sono le esigenze delle persone che gli stanno attorno. Naturalmente sta al genitore calibrare i no che i bambini sono in grado di recepire e fare propri. Il fatto è che dire no pone il genitore in una posizione scomoda e può risvegliare sentimenti che fanno riferimento alla sua infanzia e, in base alla sua personale esperienza spingerlo ad agire a seconda di quello che lui stesso (o lei, naturalmente) ha vissuto. Un genitore che ha avuto genitori molto severi e rigidi potrebbe, per esempio essere molto più permissivo con i figli, memore di quanto l’atteggiamento dei genitori l’abbia fatto soffrire. Agisce, però, quello che avrebbe voluto per se stesso da piccolo, non quello che è adeguato per il rapporto che ha con suo figlio. È come se agisse ‘il suo bambino’ identificandosi appunto nell’essere piccoli. Ma ad un adulto è richiesto un ruolo di guida: se questo ruolo risulta appannato, c’è il rischio di non svolgere questo ruolo per il proprio figlio.
Altro punto che ritengo rilevante riguarda il ruolo del genitore nel momento in cui accontenta il figlio. Spesso dire no equivale a porre dei limiti, dei paletti. È come se dicessimo che quella cosa non si può ottenere. Costringiamo in questo modo il bambino a farsi un’idea di che cosa voglia, se valga la pena insistere rispetto all’ottenimento di quella cosa oppure a mollare la presa. Prendendo una posizione riguardo ad una richiesta, costringiamo anche l’altro a posizionarsi, a pensare, coscientemente oppure no, alla propria posizione rispetto a quello che chiede. Questo consente in ultima analisi di scoprire cosa ci interessa e cosa no, per cosa siamo disposti ad impegnarci e a lottare e per cosa invece no, ed è parte integrante del processo di crescita che avviene nel bambino nel momento in cui riesce a fare proprio il no ricevuto. Se, invece, questo movimento non avviene e non sembra esistere nessun paletto circa cosa sia o meno accettabile chiedere (e sperare di ottenere), il bambino si trova immerso pienamente nel suo mondo egoistico dal quale non riesce a discernere cosa sia fondamentale e cosa no in un appiattimento che tutto include ma nello stesso tempo tutto vanifica. Se nella mia ‘classifica’ di valori imperdibili si trovano il trenino elettrico e l’amore dei miei genitori, tutto è assolutamente importante ma nello stesso tempo niente lo è. Perdere un oggetto (il trenino si guasta) significherà temere il crollo di qualunque cosa entri a far parte di questa scala di valori proprio per il livellamento che questa classifica contempla. Un genitore potrebbe ovviare al problema, come spesso accade, sostituendo il bene perduto, ma non rendendosi conto di quanto questo alimenterà ulteriormente la spirale egocentrica e livellatoria innescata dalla sua difficoltà di porre dei paletti. Oltretutto l’incapacità di porre freno alle continue richieste del bambino, alimenteranno in quest’ultimo la dipendenza, dapprima fisica ed affettiva man mano che cresce sempre meno fisica ma molto stretta dal punto di vista affettivo, dai genitori aumentando se non del tutto compromettendo la possibilità di svincolo che credo sia, in un’ultima analisi, una delle funzioni più alte della funzione genitoriale.
– Continua –
[1] Phillips, A. (2009), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano,
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