Condannati a rimanere svegli (2)

Naturalmente quello di cui sto parlando è un fenomeno particolarmente appariscente durante l’adolescenza, ma che in realtà interessa fasce di età sempre più ampie, spingendosi ben sopra la soglia dell’adolescenza. Non è infrequente venire a conoscenza di cinquantenni/sessantenni affetti dalla stessa smania digitale, persone per le quali il confine tra giorno e notte si è andato sempre più assottigliando in un presente continuo fatto di avvisi, notifiche e status. E noi stessi, se non siamo tra gli insonni, contribuiamo a questa continua massa di vampiri digitali, spedendo messaggi per i quali aspettiamo una rapida risposta, chiamando qualcuno pensando che non possa non rispondere, dando per scontato che l’altro sia li, immobile, disponibile e pronto a soddisfare qualunque nostro desiderio di contatto. Virtuale, si intende, che gli altri poi sono complicati.

Il risultato di tutto questo è che non si procrastina più ciò che potremmo fare dopo. Devo rispondere ad una mail? lo faccio subito, così non ci penso. ‘Fammi vedere chi ha messo mi piace/ha commentato quello che ho pubblicato oggi’. Ormai è pressoché impossibile separarsi dal proprio telefono, soddisfa mille desideri e lo fa istantaneamente. In cambio in fondo chiede poco, solo di essere ricaricato. Il costo che non riusciamo a cogliere è l’invadenza continua di campo nel nostro spazio, nel nostro tempo, nella nostra attenzione. Invadenza che ci portiamo sempre appresso e che, quando finalmente sentiamo di non dovere più correre, generalmente la notte, ci attira ancora e forse più inesorabilmente.

La soluzione? Non credo che ne esista una univoca. Il primo passo sarebbe quello di pensare ad una educazione digitale, fin da piccoli. Internet non è un grande gioco con poche o nessuna conseguenza sulla nostra vita reale. Fa parte di essa e, come tale, è necessario che venga insegnato ad usarlo. Non penseremmo mai di lasciare un bambino solo per ore con un coltello in mano mentre non ci poniamo gli stessi interrogativi nel lasciarlo per ore con un iPad. Così come abbiamo investito (tempo, attenzione, cura, ecc ) per insegnargli ad utilizzare un coltello, sarebbe auspicabile facessimo per la realtà virtuale. Non lasciarli soli fin da piccoli di fronte a questi strumenti equivale a prendersi cura di come si relazioneranno da adulti con quello strumento, vuol dire dedicare loro l’attenzione perché apprendano come muoversi. Così, come abbiamo fatto insegnando loro come usare un coltello: non glielo abbiamo lasciato in mano lamentandoci, in seguito, se si fossero feriti.

Altro accorgimento potrebbe essere semplice da dire e molto impegnativo da fare: ricavare spazi salvi durante la giornata, momenti nei quali consapevolmente rinunciamo ad avere accanto e ad utilizzare il telefono, momenti da realizzare soprattutto all’avvicinarsi della notte, nei quali questi strumenti andrebbero zittiti e messi via. Per assicurarci la possibilità di staccare la spina (da loro) ed, eventualmente, dedicarci anche ad altro. Volete capire se siete affetti da questa malattia anche non facendo le 4 di mattina ogni notte? Domani mattina, quando aprite gli occhi, fate caso se la prima cosa che vi viene in mente di fare è quella di accendere il telefono e controllare le notifiche. Accendere: sempre che lo spegniate di notte (non sia mai che qualcuno ci cerchi!). Se la risposta è affermativa non credo abbiate bisogno del certificato di un professionista! Sarebbe poi interessante capire dove queste dipendenze traggano nutrimento in tutti noi. Ma questo sarebbe decisamente un altro, lungo, discorso. E non vorrei faceste tardi leggendo questo post!

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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BAMBINI E INTERNET: CHE FARE (1) 

BAMBINI E INTERNET: CHE FARE (2)

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Condannati a rimanere svegli (1)

ragazzi non dormonoCinque. Con l’ultima persona che è venuta questa settimana, sono cinque le persone, tra quelle che vedo, per lo più ragazzi, che fanno le ore piccolissime di fronte ad uno schermo, sempre meno televisivo e sempre più connesso ad internet. Hanno ‘problemi nel prender sonno’, stanno svegli fino a tardissimo. Parlo delle 3, 4 o anche 5 del mattino, mentre il giorno dopo (in realtà il giorno stesso!) hanno incombenze da svolgere come, per esempio, andare a scuola. Immagino i loro volti illuminati di azzurro nel buio delle loro camere, mentre i genitori spesso non si accorgono che sono ancora svegli alle 4 di mattino, oppure se ne accorgono a posteriori, dai segni che notti insonni lasciano sulle loro giovani facce, segni che si estendono ad altri aspetti della loro vita: attenzione, relazione, ecc. Sembra una epidemia, una strana malattia esplosa con l’avvento di internet tascabile, con smartphone e dispositivi che si sono fatti sempre più portabili e indossabili, dispositivi che se, da un lato, ci hanno garantito un accesso enorme alle informazioni, dall’altro mietono le loro vittime tra i più giovani, ragazzi che, effettuato l’accesso, non riescono più a trovare l’uscita, restando eternamente dentro ad un mondo virtuale, dal quale hanno sempre più difficoltà a staccarsi. I dati continuano a confermare questa tendenza, questa inclinazione a spingersi sempre più a fondo nel mondo della notte, alla conquista di quel ‘tempo perso’ che, nella mente di molti, ormai rappresenta la notte. 

Quali sono le cause di questa ‘mancanza’ di sonno? Da una lato, dovremmo considerare l’iperstimolazione, sia mentale che fisica, che i ragazzi subiscono durante tutto il giorno con i loro mille impegni quotidiani, le mille attività nelle quali sono impegnati, attività che li obbligano a stare attivi, non lasciando loro nessuno spazio per la noia, per il non fare nulla, per stare anziché dover fare. Se è possibile che questi fattori abbiano influenzato la conquista della notte, non credo ne costituiscano, però, la causa. Ho provato allora ad allargare lo sguardo, indagare la multicausalità di un problema complesso. La notte è l’ultima frontiera di una società che va sempre più veloce, cerca di essere sempre più connessa, sempre più rapida, sempre più impegnata, sempre più indaffarata, sempre più sommersa di informazioni, sempre più collegata, sempre più relazionata. Una società che chiede continuamente di più, chiede più competenze, più attenzione, più prestazioni. Questo ha coinvolto anche il mondo virtuale che da svago, si è ben presto trasformato in un cappio che stringe sempre più colli a sé. 

Molti ragazzi, così occupati nella loro giornata, sentono di non riuscire a dedicare abbastanza tempo alla coltivazione della loro vita sociale, che nel frattempo si è moltiplicata e frammentata rendendo il seguirla un vero e proprio impegno. Aggiornare il proprio status su Facebook, pubblicare qualcosa su Twitter, condividere le proprie foto su Instagram (senza considerare l’impegno di guardare lo status degli altri su Facebook, seguire i propri contatti su Twitter, guardare cosa pubblicano gli amici su Instagram), diventa una sorta di lavoro, uno dei principali modi tramite il quale, sopratutto adolescenti, si trovano ad interagire con l’altro. Un mondo che non osano tralasciare proprio perché è tramite questo che riescono a rimarcare la loro presenza, arrivando, in parecchi casi, ad una vera e propria ossessione per la quale solo la partecipazione sancisce l’esistenza. Per molti di loro, poi, è più facile intraprendere relazioni in un mondo virtuale, mediato dalla tecnologia, piuttosto che nel mondo reale percepito spesso come difficile, complicato e duro.

Vi sarete forse accorti che non ho ancora citato il massimo dell’invadenza della comunicazione attuale: WhatsApp, con le sue chat, i suoi contatti, i suoi gruppi, le sue notifiche che, se lasciate attive, obbligano continuamente ad interagire. Le due spunte blu rendono perentoria la risposta, la presenza dello status ‘online’ rende impossibile esimersi dal rispondere. ‘Ma come, ti ho mandato un messaggio, l’hai visto e non mi hai risposto?’, ‘Eri online ieri notte e mi hai mollato’. È impensabile non esserci, non fornire una risposta nel momento in cui viene fatta una domanda, è impossibile (o meglio molto difficile) estraniarsi da un processo che ti vuole connesso e disponibile 24 ore su 24. Questo ci viene reclamato ogni giorno, tutti i giorni: come può essere messo in discussione la notte? Contando che molto spesso è la notte il momento nel quale molti di noi si sentono più a loro agio, non subissati da richieste ‘diurne’. Il fenomeno dei ragazzi che non riescono a dormire è così diffuso che è stato coniato un termine per definirlo: vamping, termine assonante a vampiro creatura che, nell’immaginario, è condannata a vivere solamente di notte.

– CONTINUA –

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BAMBINI E INTERNET: CHE FARE (1) 

BAMBINI E INTERNET: CHE FARE (2)

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Come rispondere alle domande dei bambini?

005SLN+bambini sono citta copiaCome ormai saprete, lavoro spesso con i bambini e, necessariamente, anche con i loro genitori. Questi ultimi mi fanno spesso delle domande chiedendomi consigli su cosa fare…, su come dire…, su quale mossa sarebbe meglio effettuare…

Tra le cose che mi vengono domandate più di frequente, posso sicuramente annoverare quella su come rispondere ad un bambino per una domanda specifica. I bambini sono molto curiosi e la voglia di fare domande è una cosa che li caratterizza nei primi anni di vita. Molte di queste domande spesso non sono facili per i genitori che possono riscontrare difficoltà nel trovare un modo di rispondere.

Esistono sostanzialmente due strategie per rispondere alle domande dei bambini ma l’aspetto che fa la differenza è, sostanzialmente, uno: conosciamo la risposta? Nel caso in cui conoscessimo la riposta alla domanda che ci è stata rivolta nulla quæstio, e non ci rimane altro che fare l’unica cosa possibile: rispondere! Ovviamente la risposta deve essere calibrata rispetto alla capacità di comprensione del bambino. È necessario tenere conto di questo aspetto per evitare che la risposta possa mettere ancora più in difficoltà il bambino. Sta all’adulto capire cosa il bambino sia in grado di comprendere e riconoscere con quali termini può essere aiutato ad avere una comprensione di quello che ha chiesto. 

Data l’interattività della loro vita, i bambini, sopratutto i bambini di oggi, si ritrovano spesso a fare domande anche abbastanza complesse, su cose slegate magari dalla vita quotidiana, che possono mettere in difficoltà il genitore al quale queste domande sono poste. Per esempio, grazie ad internet, apprendono e vedono immagini o video che solleticano la loro curiosità, cose delle quali vorrebbero sapere di più. Può anche capitare che vedano cose inadatte per la loro età, come scene di sesso. Anche in questo caso la loro curiosità potrebbe essere solleticata e sta al genitore trovare un modo per dare un significato a quello che il bambino sta domandando.

Fino a questo punto abbiamo visto il caso nel quale conosciamo la risposta alla domanda che ci è stata posta. Ma esiste una seconda possibilità: non sappiamo rispondere a quello che ci chiedono. In questo caso gli esiti possono essere due: rispondiamo inventandoci qualcosa oppure ammettiamo la verità. Vediamo il primo caso. La bimba sta guardando la televisione ed è attratta da un programma nel quale costruiscono oggetti. Chiede al padre come vengano assemblate le automobili e il padre è consapevole che l’unica cosa che conosce della sua auto è come si metta in moto. Non vuole però che sua figlia immagini che lui non sappia niente di auto e allora inizia a pescare nel serbatoio confuso e disordinato nel quale sono stipate tutte le sue conoscenze di motori. La bimba sarà momentaneamente soddisfatta della risposta e suo padre potrà rilassarsi credendo che il pericolo sia stato scampato e che la sua immagine (quella con sua figlia e quella che lui ha di se stesso) sia stata preservata.

Facendo questo, però, si è creato un precedente. Innanzitutto non è stato sincero: se la bimba dovesse avere informazioni migliori rispetto a quello che le ha detto il padre, penserebbe che il papà possa non saperne poi tanto o, peggio, possa averle mentito. Il padre pagherebbe la piccola bugia con la perdita di fiducia. Bisognerebbe chiedere al papà cosa prova nell’ammettere di fronte a sua figlia che non conosce una cosa. Non si tratta di ammettere una colpa quanto di riconoscere un limite. La bimba saprebbe che il padre non sa tutto ma, di contro, avrebbe la conferma che sia una persona sincera. Quale potrebbe essere la soluzione? Ho una possibilità: se il padre rispondesse che non sa nulla di auto e proponesse alla figlia di fare una ricerca assieme per saperne di più si avrebbero diversi vantaggi: come detto la bambina intuirebbe di non avere un padre onnisciente (cosa comunque reale) ma sincero, e in più un padre propositivo, curioso e desideroso di passare del tempo con lei, rinforzando il legame che padre e figlia hanno in un modo che potrebbe essere proficuo per entrambi: il padre potrebbe finalmente sapere com’è fatto l’oggetto che mette in moto tutti i giorni, la bambina potrebbe finalmente passare più tempo con il padre facendo una cosa che la incuriosisce.

Insomma, tornando al quesito iniziale, come si risponde alle domande di un bambino? Dipende da voi. Come avete letto, avete diverse possibilità e le possibilità sono date da quanto consideriate disdicevole non sapere le cose che un bimbo vi chiede. Se riusciste a non prendere in considerazione solo questo aspetto, avrete davanti un mondo di opportunità da condividere con loro. Mentre loro sapranno di poter contare su di voi sia per le domande che vi faranno sia, nel caso non conosciate la risposta, per passare più tempo in vostra compagnia, cercando le possibili risposte e facendo, in più, qualcosa che li/vi incuriosisce. 

Che ne pensate?

A presto,

Fabrizio Boninu

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Il lutto per i bambini (1)

White balloon flying in the skyLa morte di una persona alla quale siamo legati e il successivo lutto costituiscono da sempre un momento di passaggio nella vita dell’individuo che spesso è difficile gestire, soprattutto per la nostra sempre più manifesta incapacità di maneggiare, verbalizzare e interiorizzare il concetto di morte. Se questo meccanismo riguarda tutti noi, una attenzione maggiore andrebbe prestata nel caso in cui il lutto coinvolga un bambino: la sua elaborazione potrebbe essere ancora più complessa, soprattuto in relazione alla capacità che hanno (o non hanno) gli adulti intorno a lui di significare quello che è successo nella vita del bambino. Vale dunque la pena soffermarci su quelli che possono essere i meccanismi di elaborazione del lutto nei bambini e le fasi che contraddistinguono questo passaggio.

Punto di partenza può essere la definizione dell’elaborazione del lutto. Con questa espressione intendiamo il: complesso meccanismo che permette, col tempo, il superamento della tristezza, dell’ambivalenza per ciò che si è perduto e che porta alla riorganizzazione dell’attività mentale (idee, sentimenti e fantasie) e degli aspetti esterni della propria vita dopo lo sconvolgimento creato dal dolore.

L’esperienza della perdita spesso induce profonde trasformazioni che portano a riflettere su se stessi e sui propri errori, facendo trovare il coraggio di apportare cambiamenti significativi alla propria vita. (M.G. Sforza, J. L. Tizòn, 2009, p. 16). [1] 

ll lutto, e questo vale sia per i bambini che per gli adulti, costituisce un momento di grande cambiamento nella vita dell’individuo. La morte generalmente costituisce una fase di passaggio da un equilibrio relazionale ad un altro. La scomparsa di una persona significativa comporta sempre la riorganizzazione funzionale e relazionale del gruppo familiare che viene colpito dalla perdita, e questo evidenzia una diversa organizzazione dei ruoli e delle funzioni all’interno del gruppo relazionale nel quale questo cambiamento avviene. Nella definizione data poc’anzi viene utilizzato il termine ambivalenza: la morte è ambivalente nella sua accezione più ampia. Il termine ambivalenza rimanda alla compresenza di emozioni diverse nello stesso istante o per lo stesso fatto, momenti nei quali l’individuo può provare un’emozione e, in contemporanea, l’emozione contraria.

L’ambivalenza può essere naturalmente presente nell’individuo, ma può arrivare ad intensificarsi nel caso di un forte cambiamento come nella fase di lutto. Se per un adulto questa ambivalenza può essere facilmente comprensibile e significabile (anche se questo aspetto non è scontato), può assumere invece contorni diversi per un bambino che, con difficoltà, può rendersi conto della peculiarità di picchi emotivi completamente altalenanti che un lutto può provocargli. Poniamo, per esempio, il caso che muoia, dopo lunga malattia, il nonno paterno. La conoscenza che il bambino aveva del nonno non era molto approfondita: lo vedeva solo una volta all’anno o solo in occasione di grandi feste come Natale o Pasqua. Pensandoci bene, al bambino suo nonno non piaceva molto: era spesso di malumore, era spesso sofferente, stava sempre a borbottare riguardo ai giochi che gli piaceva fare. Non era una presenza simpatica e capitava che non vedesse l’ora di andare via. Alla morte del nonno il bambino vive sentimenti contrastanti, ambivalenti: può essere triste, comprendendo la perdita subita o percependo quello che gli adulti intorno a lui provano (soprattutto del papà per la perdita del suo papà). D’altro canto potrebbe insinuarsi in lui un sentimento opposto, liberatorio, dal momento che è venuta a mancare una persona alla quale non si sentiva legato da particolare affetto e che non gli piaceva molto. Il risultato può essere una serie di emozioni contrastanti, tra le quali si alternano dolore e indifferenza, pena e distacco.  

In occasioni del genere, però, sussiste la considerazione che siano ammissibili solo alcune emozioni mentre altre emozioni non lo sono, insinuando l’idea che siano fuori luogo. Infatti la manifestazione del dolore è facilmente comprensibile da parte degli adulti che lo circondano, l’indifferenza potrebbe non essere accolta allo stesso modo, nè significata in maniera altrettanto accogliente. Questo potrebbe indurre il bambino a credere di vivere sentimenti inaccettabili, da nascondere o da censurare. Solo sentendosi supportato da adulti competenti che possano comprendere e aiutarlo a manifestare anche emozioni non prevedibili o normalmente attese, riuscirà a validare ed accogliere in sé,  oltre che condividere, queste emozioni con gli altri non sentendosi sbagliato o inaccettabile.

– CONTINUA –

Fabrizio Boninu

Sul tema leggi anche:

Come parlare della morte ai bambini (1)

Come parlare della morte ai bambini (2)

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Torino, pp. 19-20

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I compiti per le vacanze

Ci siamo. Le tanto sospirate vacanze sono arrivate. Escludendo i ragazzi impegnati negli esami di maturità, per tutti gli altri è arrivato finalmente il momento in cui, essendo liberi dalle tante incombenze che caratterizzano la loro routine quotidiana, pensano di potersi dedicare a ciò che più piace loro. Questo sarebbe possibile se non avessero quello che per molti è un vero e proprio incubo da vacanza: i compiti delle vacanze appunto. Esistono due tipi di scuole al riguardo: coloro che reputano i compiti necessari per tenere in allenamento i ragazzi e coloro che li ritengono l’ennesimo modo per tenerli sotto scacco anche nei momenti in cui dovrebbero essere più liberi. In supporto alla seconda tesi ho trovato un interessante articolo che fa un elenco dei motivi per cui sarebbe preferibile che i ragazzi non avessero compiti durante le vacanze. L’elenco è stato stilato da Miriam Clifford, insegnante e blogger che si occupa del tema scuola attraverso InformEd, sorta di laboratorio di idee sulla scuola. Trovate il link in fondo al post.

Intanto i punti:

  1. Gli studenti  imparano tutto il tempo nel 21° secolo. In una società come la nostra, costantemente connessa e nella quale circolano una miniera di informazioni ovunque, non si può pensare che i ragazzi apprendano solamente all’interno del contesto scolastico. Questo rende in parte superflua l’idea di compiti da fare a casa, legati alla visione di tenere vive e fresche le conoscenze acquisite a scuola durante l’anno;
  2. Non necessariamente molti compiti equivalgono ad una maggiore realizzazione: non è detto cioè che assegnare compiti a casa faccia studenti più diligenti o più bravi a scuola;
  3. I paesi che assegnano più compiti a casa non sono i migliori. Spesso invece è vero il contrario. Per esempio il Giappone ha abolito l’utilizzo di compiti a casa per favorire il tempo in famiglia mentre paesi del nord Europa, come per esempio la Finlandia, hanno limitato i compiti a casa ad un impegno massimo di mezz’ora al giorno;
  4. Invece di assegnare compiti, suggerire che leggano per divertimento: invece di assegnare un compito si può cercare di far interessare ad una lettura libera, per divertimento, che consenta di superare la logica di imposizione dei compiti a casa;
  5. Non assegnare troppo lavoro durante le vacanze: è controproducente anche al momento del ritorno a scuola; 
  6. Invitare gli studenti a partecipare a un evento culturale locale: questo tipo di attività, oltre ad essere percepita come più attiva rispetto allo svolgimento dei soli compiti, può portare il ragazzo a conoscere aspetti della sua realtà che non avrebbe mai preso in considerazione altrimenti;
  7. Il tempo in famiglia è più importante nelle vacanze: spesso infatti è una delle poche occasioni nella quale tutti  i membri, essendo anche gli altri in vacanza, possono passare del tempo insieme, non distratti dalla mille incombenze quotidiane che portano spesso ad incontrarsi tutti assieme solamente a cena; 
  8. Per gli studenti che viaggiano durante le vacanze, i compiti possono ostacolare l’apprendimento sul loro viaggio: dovendosi portare i compiti appresso hanno meno tempo di dedicarsi all’esperienza che stanno vivendo; 
  9. I bambini hanno bisogno di tempo per essere bambini: il fatto di avere spesso doveri non aiuta molto questo aspetto; 
  10. Alcuni esperti consigliano una fine a tutti i compiti: il rischio è, come detto, quello del sovraccarico; 
  11. Inviare una lettera ai genitori per spiegare perché non si stia assegnando lavoro: questo punto è dedicato agli insegnanti che possono spiegare con una lettera ai genitori dei propri alunni per quale motivo non reputano necessario assegnare loro compiti;
  12. È possibile rendere le vacanze un momento per un “progetto aperto” per crediti supplementari: si può, cioè, affidare alla fantasia e alla creatività del ragazzo l’esecuzione di un compito che sia dal ragazzo pensato, progettato ed eseguito. Il progetto sarà poi valutato a seconda delle qualità che il ragazzo ha deciso di mettere in gioco; 
  13. Suggerire la visita di un museo: se a scuola si studia il Medioevo, una visita ad un museo che ha questo tipo di reperti può essere più interessante che l’ennesima scheda su un brano letto nel libro di storia; 
  14. Esortare gli studenti a fare volontariato durante il periodo di vacanza: questo genere di attività, come nel punto 6, può essere percepita come più attivante rispetto al fare semplicemente dei compiti, e può spronare il ragazzo ad impegnarsi in attività che lo portino ad interessarsi all’altro e ai suoi bisogni;
  15. Sviluppare un gioco di classe: prima delle vacanze è possibile costruire un’attività scolastica la cui fine può essere poi assegnata a casa, coinvolgendo anche altri membri della famiglia. Questo favorirà un maggior tempo che i membri passano tra loro; 
  16. Gli studenti possono imparare di più osservando il mondo reale, piuttosto che fargli fare compiti su quello stesso mondo;
  17. Fare escursioni a piedi: e utilizzare le impressioni registrate. Come per altri punti precedenti, un’esperienza diretta è spesso più formativa dello studio della stessa esperienza; 
  18. Invogliare gli studenti di visitare un parco divertimenti: concetti spesso astratti come le forze fisiche possono essere sperimentate direttamente con molti giochi presenti in questi parchi!
  19. I bambini hanno bisogno di riposo: come tutti noi, anzi forse sopratutto loro, hanno bisogno di un momento di stacco dalle attività quotidiane;
  20. Molti genitori e studenti non amano compiti delle vacanze: sulla veridicità di questo punto non sono molto d’accordo, perché da per scontato che i genitori vogliano passare più tempo coi figli durante le vacanze e non sempre le cose stanno così.

Come avrete notato, uno dei punti principali di questo elenco è quello di preferire delle attività pratiche piuttosto che mere attività scolastico/mentali. Il tempo che rimane libero può essere utilizzato per far vivere delle realtà (musei, volontariato…) che normalmente vengono solamente insegnate. Come accennavo nell’ultimo punto, questo comporterebbe passare e dedicare maggior tempo ai propri figli e per molti genitori, in vacanza a loro volta, potrebbe essere un impegno non da poco che eviterebbero volentieri per riposarsi. Sarebbe interessante allora chiedersi a chi giovi che i figli abbiano compiti da svolgere anche durante le vacanze.

Che ne pensate? A che scuola di pensiero appartenete? I compiti sono per voi una cosa utile oppure una vessazione cui cercare di porre al più presto rimedio?

Se voleste leggere l’articolo per intero, in inglese, cliccate qui

A presto…

Fabrizio Boninu

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Come migliorare la comunicazione con i bambini? (2)

imageMa veniamo specificamente alle frasi utilizzate: smettila di fare i capricci: non é una frase molto utile perché il capriccio é una modalità comunicativa che potrebbe essere utilizzato per dirvi qualcosa. Sarebbe più utile prendervi qualche minuto, sedervi con loro e chiedere che succede. Questo aiuterà il bambino a sentirsi compreso ed accolto, qualunque sia il motivo del suo comportamento. Una volta accolto il comportamento, potreste ribadire il fatto che non é necessario attuare questo comportamento per essere ascoltati, stabilendo che si possa avere una modalità comunicativa tra voi e loro da decidere. E, naturalmente, che qualunque sia l’emozione sottostante, non sarà accettato un certo tipo di comportamento, cercando di educare il bambino a differenziare tra quello che è il suo sentire e quello che è il suo agito. Picchiare, insultare, rompere delle cose non può essere accettato e il bambino deve comprendere questa differenza fondamentale. Per compiere questo percorso è necessario che il bambino venga accompagnato con amore, attenzione e rispetto all’interno di un viaggio alla scoperta delle sue emozioni.

Un’altra modalità che può consentirvi di accompagnare il bambino nelle sue attività quotidiane è quella di offrirgli delle alternative su quello che deve fare. Ritorniamo agli esempi precedenti. Gabriele potrebbe intimare, nel dopocena, che Francesca si lavi i denti prima di andare a letto. Normalmente, Francesca si lava i denti insieme al suo pupazzo preferito. E lava anche i denti al suo pupazzo. Un rito che si ripete ogni sera. Ecco, Gabriele, anziché alzare la voce all’ennesimo invito ad andare a lavarsi i denti caduto nel vuoto, potrebbe chiedere a Francesca se preferisce lavare i denti del suo pupazzo prima o dopo essersi lavata i suoi. Questo permette a Francesca di sentirsi chiamata in causa nel decidere quello che può fare, ma nel contempo Gabriele la sta spingendo a lavare i suoi anche senza il bisogno di urlarle contro.

Ancora, i bambini, quando non hanno voglia di fare qualcosa assieme a noi, iniziano a fare storie su tutto e i genitori mi raccontano di quanto spesso li debbano trascinare, a volte anche fisicamente, per fare insieme a loro delle cose che non vogliono fare. Andare a scegliere vestiti, andare ad un matrimonio, sono spesso occasioni nelle quali il bambino è poco coinvolto e non vuole partecipare. Le reazioni possono essere le più diverse: magari iniziano a piagnucolare e ripetere che non vogliono fare quella cosa, oppure si rinchiudono in una stanza o in posto per non essere coinvolti/trovati. Se coinvolti con la forza, attuano la ‘strategia’ di opporsi, e se non lo fanno, si vede chiaramente le loro insofferenza e il loro disagio. Anche in questo caso, la cosa migliore da fare sarebbe fermarsi un attimo e cercare di capire meglio cosa succede. Una volta chiarito che vi siete accorti del loro disagio e della loro poca volontà di fare quello che dovete fare, potete anche chiarire che siete in difficoltà, perché, pur sapendo la loro ritrosia, non avete alternative.

Questa ‘ammissione’, creerà una vicinanza tra voi e loro, e passerete  da un rapporto basto su devi-fare-quello-che-dico-io-perchè-lo-dico-io ad un rapporto nel quale il bambino interiorizza che vi importa come si sente ma che, per vari motivi, dovete arrivare ad un compromesso tra quello che vorrebbe e quello che chiedete voi. Altra possibilità è chiedere loro di immaginare una soluzione che possa rendere la cosa più accettabile e gestibile anche per loro. Questo li farà sentire coinvolti in quello che sta succedendo e consentirà loro di sentirsi parte in causa dell’organizzazione della loro famiglia.

Queste sono solo alcune idee rispetto ad un cambiamento di relazione tra voi e loro. Tenete a mente che i massimi esperti di vostri figli siete voi. Siete sempre voi a poter trovare soluzioni originali ed adatte a vostro figlio, trovare metodi che aiutino voi e loro a costruire un rapporto che abbia sempre meno bisogno di urla, costrizioni e punizioni. Nel caso succedesse, come detto, non colpevolizzatevi ulteriormente. Chiedere scusa quando ci si accorge di aver sbagliato o esagerato è un’altra ottima occasione nella creazione di un buon rapporto tra voi e i vostri figli.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Sul tema comunicazione coi bambini puoi anche leggere:

Come parlare di morte ai bambini (1) 

Come parlare di morte ai bambini (2) 

Bambini e internet: che fare (1) 

Bambini e internet: che fare (2) 

Legittimare le emozioni (1) 

Legittimare le emozioni (2)

 

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Come migliorare la comunicazione con i bambini? (1)

imageHo già provato ad affrontare in altri post questo tema: come comunicare con i bambini? L’argomento è sempre complesso ed è abbastanza difficile cercare di capire come riuscire a trovare un canale comunicativo con i bambini soprattutto nel momento in cui si trovano in una fase di opposizione o di diniego, ‘fasi no’, nelle quali sembra difficile, se non impossibile, riuscire a trovare una modalità comunicativa che consenta di comprendere e superare il momento. Credo che trovare un modo per comunicare con loro sia fondamentale per riuscire a stabilire un ponte relazionale e cercare quindi di comprendere, di contenere e accogliere i loro comportamenti facendo sì che sappiano di avere un referente valido e competente tra gli adulti che lo circondano. Un valido aiuto può essere costituito dall’uso dell’intelligenza emotiva.

Per chi non conoscesse questo approccio, il concetto di intelligenza emotiva è stato teorizzato da Daniel Goleman, ed è un costrutto nato in contrasto con la filosofia che sta alla base del concetto di quoziente intellettivo: a differenza dell’accento posto solo sulle competenze ‘oggettive’ e ‘ misurabili dell’intelligenza umana, Goleman cercava di prestare attenzione e mettere in risalto tutta una serie di caratteristiche dell’intelligenza umana (sensibilità, empatia, consapevolezza di sé e della propria realtà emotiva,…) concetti ignorati all’interno della ideologia della misurazione dell’intelligenza secondo canoni quantitativi.

La teorizzazione di Goleman ha dato il via ad una serie di studi che hanno cercato di far luce su cosa significhi intelligenza in senso lato, nelle diverse aree di vita di una persona: all’interno delle relazioni personali, della vita quotidiana delle persone e di come possa influenzare la comunicazione empatica tra genitori e figli. Senza entrare troppo nello specifico della teoria, sarebbe forse più interessante occuparci della pratica, utilizzando piccoli esempi che possano aiutare a capire come migliorare la comunicazione tra adulti e bambini, principi applicabili anche più in generale nella comunicazione tra adulti. Per i nostri esempi, abbiamo bisogno di un genitore, poniamo un papà, Gabriele, e una bambina che chiameremo Francesca. Faremo fare i capricci a Francesca e vedremo come il papà affronterà, o potrebbe affrontare, la situazione con la figlia. 

Prima di continuare, sarebbe necessario aggiungere altre due premesse molto importanti, delle quali tenere conto: la prima: un rapporto e un’autorevolezza nei confronti dei figli non si costruisce dall’oggi al domani. Se il rapporto con vostro figlio è deficitario (per le più svariate cause che possono stare alla base di questo deficit), il capriccio di vostro figlio non sarà un buon momento per cercare di rimarcare la vostra autorevolezza. Il secondo punto importante riguarda invece questa lista stessa: é un suggerimento e vorrebbe essere un modo per aiutarvi a gestire meglio il rapporto con vostri figli. Non colpevolizzatevi se avete difficoltà a rispettarla: non costituisce l’unico modo con il quale è possibile approcciare ai vostri figli.
Fatte queste doverose premesse, possiamo partire con i nostri esempi. Prendiamo in considerazione una scena tipica: Francesca é nella sua cameretta e sta giocando contemporaneamente con diversi giochi. Arriva il momento nel quale dovrebbe rimettere tutto quanto a posto, ma in quel momento, inizia a fare storie, a lamentarsi, a dire che lei non vuole mettere a posto e così via. Papà Gabriele potrebbe iniziare ad usare tutte le armi per cercare di convincerla a farlo. Frasi più o meno tipiche possono essere: ‘smettila di fare i capricci’, oppure ‘se non rimetti a posto tutto, domani non giochi’, oppure ‘fai sempre così’, o anche ‘non sei mai brava a rimettere in ordine tutto quello che tiri fuori’, oppure ‘non penserai che sia io a rimettere a posto tutta questa roba’. Chi di noi non ha mai utilizzato questo genere di frasi con un bambino?

Pur essendo tra loro molto diverse, facendo leva su minacce, senso di colpa ecc, qual è l’aspetto che accomuna tutte queste frasi? Pensateci un attimo, perché è quello che tutti noi facciamo, spesso automaticamente, quando parliamo ad un bambino. Avete notato cosa può essere ? Nessuno ha chiesto al bambino perché si stia comportando in questa maniera. Tutte queste frasi hanno come punto comune il fatto che non si preoccupino di cosa possa avere scatenato la ribellione di Francesca. Presupponendo che non sia impazzita mentre giocava in camera sua, possiamo immaginare che qualcosa l’abbia disturbata e turbata e che il non mettere a posto i suoi giochi sia il modo di manifestare questo disagio. Prevengo le critiche: ‘Si, vabbè, ma io non posso mica stare dietro a tutti i capricci di mio figlio’, starà sicuramente pensando ognuno di voi. ‘Se facessi così ogni volta non mi rimarrebbe tempo neanche per bere un bicchiere d’acqua’. Sicuramente è vero che questa strategia può essere più impegnativa in un primo momento, quando questo momento di incontro e di accoglienza deve essere costruito. Ma piano piano, quando questo diverrà la norma nel rapporto tra voi e vostro figlio, questo modus operandi diventerà sempre più facile ed automatico e sempre più semplice da attuare. Col tempo e con il vostro impegno (ricordatevi che la guida siete voi!) si sarà stabilita una buona intesa emotiva tra voi e vostro figlio e questo aiuterà voi ad interagire a cogliere quello che lui sta manifestando e a lui di riconoscere un ruolo di aiuto e supporto ogni qual volta sentirà di non stare bene.

 

– CONTINUA –

 

Adolescenti & videogiochi

adolescenti e videogiochiUno dei risvolti della pubblicazione di un blog, credo soprattutto di un blog che ha come tema la psicologia, è quello di ricevere mail di persone che chiedono soluzioni o consigli su situazioni che si trovano a dover affrontare. Recentemente, una delle mail più interessanti ha come oggetto un tema affrontato anche in studio: l’eccessiva passione (ossessione per i genitori!) dell’interesse dei ragazzi e dei bambini per i videogiochi. I racconti su questa sorta di ‘epidemia’ sono sempre più terribili: bambini di 7 o 8 anni che senza le loro due ore quotidiane di videogiochi non sono disposti a fare nulla, adolescenti che passano l’intero pomeriggio in trance davanti ad un televisore oppure collegati online con un gruppo di amici.

Questa la mail ricevuta da Angela, mamma di Marco (pubblicata, naturalmente, con il consenso della persona che me l’ha inviata, e preservando l’identità degli interessati). Indicherò con ‘A‘ le mail di Angela e con ‘F‘ le mie:

A: Buon giorno Dott. Boninu, scusi se la disturbo, ho letto il suo blog e vorrei un consiglio se me lo puo’ dare. Ho un figlio adolescente di 14 anni, è attratto dai giochi di internet in un modo spropositato, da quando il padre gli ha comprato un computer potente rispetto a quello che aveva la nostra vita è cambiata in peggio. Prima riuscivo a marginare questa sua tendenza perché il pc era quello di casa e io lo gestivo con la password. Bestemmie parolacce e tutta la notte, o quasi, attaccato a giocare e chattare. Inoltre il giorno dopo dobbiamo lavorare, io mattina e sera quindi la stanchezza si fa sentire. Gli ho tolto il cavo per la connessione, almeno temporaneamente, non so però come reagirà. A parole ho provato già innumerevoli volte. Grazie per qualsiasi consiglio possa darmi.

Questa la mia risposta:

F: Salve Angela, (…). La situazione che mi descrive è conosciuta perché molti genitori lamentano questa attrazione. L’uso compulsivo dei videogiochi è un comportamento che molti ragazzi manifestano. Il punto è che sono la spia indicativa di varie difficoltà che possono avere. Per esempio se diventa la loro unica attività può essere che abbiano difficoltà in attività diverse come per esempio lo sport o i rapporti coi coetanei. So troppo poco di vostro figlio per consigliarvi qualcosa, e il consiglio non è nelle mie corde professionali. Sarebbe più interessante capire cosa comunichi vostro figlio con il suo comportamento e se questa comunicazione possa essere recepita da tutti gli adulti che si trovano intorno a lui. E sarebbe interessante anche capire cosa provochi il suo comportamento in famiglia. Insomma avrei bisogno di molti più dettagli per capire come aiutarvi. 

A: Grazie a Lei che ha trovato il tempo di rispondermi. Marco non ha difficoltà ad avere amicizie, anzi. Ora ha anche una “fidanzatina” di 14 anni come lui. Và be mi sembra un po presto ma accompagnamo i ragazzini  a metà strada entrambi i genitori perché si vedono circa 2 volte alla settimana (città diverse di residenza).  Io penso che comunque di base sia insicuro e timido, anche se lo nasconde con una maschera di ironia a volte anche offensiva/irritante soprattutto verso il padre.  Con internet però gli capita anche di isolarsi, ma fortunatamente dura pochi giorni, anche grazie agli amici che lo cercano ininterrottamente per una pedalata o una partita a calcetto.  Lui cerca di fare entrambe le cose a volte,  spessissimo a scapito dello studio.

Io l’ho lasciato al padre che aveva solo tre mesi per lavorare a tempo pieno. Necessità. Non sono riuscita a dargli quella sicurezza di avere un genitore che lo ama e lo aspetta a casa. Il padre non ha mai nascosto di rimanere la sera con lui controvoglia, neanche al bambino. Oltretutto mio marito ha un grave handicap (poliomielite) una scelta incauta che la madre ha fatto in buona fede di non fargli fare i vaccini. Lo dico perché il modo di vedere il mondo in modo negativo del padre credo che abbia influito nel comportamento del bambino che sempre ha preferito gli amici, giocare fuori oppure play station/computer.  Per giunta a 12 anni la scoliosi non gli ha reso le cose semplici, il bustino lo ha accettato per 2 anni ma ora lo rifiuta categoricamente. Riesco a malapena a fargli fare 3 volte alla settimana la  ginnastica correttiva. E’ una scoliosi lieve ma con la costanza, che non ha, l’avrebbe potuta risolvere completamente. Marco mi parla poco di cosa farà da grande nonostante sin da piccolo cercavo di capirne le tendenze. Comunque ieri gli ho tolto internet ma di sera glielo ho concesso un paio d’ore, di notte gli imposto un orario  che poi ha rispettato, almeno ieri!  Sono contenta quando riesco a farmi vedere decisa ma serena.   La mia preoccupazione è avere di fronte una dipendenza da giochi di internet perché essendo molto bravo  (2° in una graduatoria europea) il fatto di levarglielo del tutto non vorrei causare danni maggiori, internet  secondo me gli dice “sei capace” “vedi che vali a qualcosa” un complimento che probabile bisognava fargli da piccolo quando faceva bene un disegno, un lavoro a scuola.  

Internet in ogni caso può essere dannoso ed è una fatica regolamentarne l’uso quando i figli sono il doppio della tua altezza!

F: Salve Angela, (…) Sarebbe interessante capire quanto la sua storia sanitaria e quella che ha respirato in casa fin dalla nascita, abbiano contribuito alla sua ‘visione della vita’. Il punto è che i videogiochi sono spesso additati come causa dei mali di molti ragazzi ma, credo, la maggior parte delle volte siano solo la ciliegina su una enorme torta che è difficile vedere. O è difficile capire chi l’abbia creata.  

Spesso ho trattato sul mio sito temi inerenti l’importanza per un adolescente di poter contare sulla figura di un adulto competente che possa fungere da ‘coadiuvante’ nell’attraversare una età così complessa. Non deve essere necessariamente un professionista, basta un amico di famiglia, una persona che abbia la vostra fiducia e la sua fiducia e che possa fungere da tramite autorevole tra il mondo dell’infanzia (che vostro figlio si accinge ad abbandonare) e quello degli adulti verso il quale è proteso. Se non esiste una figura del genere, consiglio in questi casi un breve percorso di supporto, per lui o per aiutare voi a gestire con lui la situazione. (…)

Il punto importante è che la concentrare la propria attenzione solo sui videogiochi spesso impedisce di vedere la complessità del mondo che si muove attorno ai ragazzi ed è facile puntare il dito contro un colpevole, i videogiochi in questo caso, senza chiedersi quanto altri fattori giochino un ruolo importante e decisivo nell’influenzare il ragazzo. Come si può vedere anche in questo caso la storia di Marco era ben più articolata rispetto a quanto si percepisse da una prima visione. Bisognerebbe prestare attenzione a non perdere questa complessità di insieme, non focalizzandosi esclusivamente su un unico fattore. I videogiochi sono un grande attrattore per i ragazzi, ma è anche vero che costituiscono una via di fuga privilegiata da una realtà percepita come spaventosa, discorso che vale per qualunque altra dipendenza. Se ci si focalizza su di essa, qualunque essa sia, si perde di vista la domanda principale: perché si sia arrivati a questo. Ogni storia ha, naturalmente la sua risposta e non voglio generalizzare in nessun modo. Il rischio è quello di rovesciare i ruoli trasformando un’effetto (l’uso dei videogiochi) in una causa. I videogiochi non causano uno straniamento dei ragazzi, lo straniamento dei ragazzi viene agito (anche) tramite i videogiochi.

L’obiettivo, dunque, può passare dalla demonizzazione dei videogiochi alla costruzione di un’interazione ‘sana’ con loro, un modo di utilizzarli che possa in qualche modo soddisfare i ragazzi evitando che diventino la loro unica fonte di interesse. Per fare questo, però, è necessario tanto altro: gli adulti che li circondano dovrebbero interessarsi a quello che interessa loro, lasciarsi coinvolgere nelle loro vite, proporre un modello educativo coerente e responsabile. Tutte scelte decisamente più complicate e intricate rispetto al parcheggiarli davanti ad uno schermo, pensando che almeno non romperanno le scatole.

Quale scelta siete disposti ad intraprendere?

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

Sullo stesso tema puoi leggere anche: 

Bambini e internet: che fare? (1) 

Bambini e internet: che fare? (2)

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L’importanza del no per i bambini (e per i genitori!) (1)

bambiniIl post di oggi ha come tema l’importanza di dire no ai bambini. Abbiamo già affrontato questa tematica nel post I no che aiutano (i genitori) a crescere (1) e (2), dove affrontavo la questione da un punto di vista leggermente diverso dal momento che concentravo l’attenzione sulla difficoltà del genitore di assumere la responsabilità del proprio ruolo di adulto. Il senso del post odierno vuole invece concentrarsi sulla possibilità che la difficoltà nel dire no ai propri figli sia dovuta ad una ‘confusione emotiva’ tra i bisogni dei genitori e quella dei figli. Ma andiamo con ordine. Sembra una semplice questione di educazione, in realtà credo sia una questione estremamente complessa con diversi piani intrecciati (genitoriale, filiale, relazionale, ecc ) ed è il modo attraverso cui i bambini iniziano a rapportarsi e confrontarsi con il mondo circostante. Vi riporto i passi di un libro (riferimenti bibliografici alla fine della pagina) che illustrano bene il nodo centrale della questione:

(…) dire no, rifiutarsi di essere sempre presenti può rivelarsi molto utile per il bambino. Il nostro compito non è sempre quello di riempire i vuoti, ma dobbiamo anche tollerare questa posizione scomoda. Lo psicoterapeuta infantile Adam Phillips scrive: non è rivelatore quello che la noia di un bambino evoca negli adulti? Viene interpretata come una richiesta, come un’accusa di fallimento, come delusione; raramente viene accettata semplicemente per quello che è. E aggiunge: gli adulti sono tirannici quando pretendono con bambino sia interessato, invece di dedicare del tempo a scoprire cosa gli interessa. (…) L’alternativa però è di allungare il periodo della dipendenza è limitare le risorse del bambino, dipingendoli fra l’altro il mondo come un posto pericoloso. Dobbiamo soppesare attentamente i pro e i contro di una simile presa di posizione. [1]

Il punto importante di questo primo passaggio è capire cosa significhi il no per il bambino e cosa invece significhi per l’adulto che quel no si trova costretto a sancire. Per il bambino un no è lo spazio che non siamo disposti a travalicare, è il modo simbolico con cui lo proteggiamo da se stesso nel momento in cui gli stiamo dicendo che deve imparare ad uscire dal suo egocentrismo infantile (devo avere tutto ciò che desidero) e iniziare a fare i conti con quelle che sono le esigenze delle persone che gli stanno attorno. Naturalmente sta al genitore calibrare i no che i bambini sono in grado di recepire e fare propri. Il fatto è che dire no pone il genitore in una posizione scomoda e può risvegliare sentimenti che fanno riferimento alla sua infanzia e, in base alla sua personale esperienza spingerlo ad agire a seconda di quello che lui stesso (o lei, naturalmente) ha vissuto. Un genitore che ha avuto genitori molto severi e rigidi potrebbe, per esempio essere molto più permissivo con i figli, memore di quanto l’atteggiamento dei genitori l’abbia fatto soffrire. Agisce, però, quello che avrebbe voluto per se stesso da piccolo, non quello che è adeguato per il rapporto che ha con suo figlio. È come se agisse ‘il suo bambino’ identificandosi appunto nell’essere piccoli. Ma ad un adulto è richiesto un ruolo di guida: se questo ruolo risulta appannato, c’è il rischio di non svolgere questo ruolo per il proprio figlio.

Altro punto che ritengo rilevante riguarda il ruolo del genitore nel momento in cui accontenta il figlio. Spesso dire no equivale a porre dei limiti, dei paletti. È come se dicessimo che quella cosa non si può ottenere. Costringiamo in questo modo il bambino a farsi un’idea di che cosa voglia, se valga la pena insistere rispetto all’ottenimento di quella cosa oppure a mollare la presa. Prendendo una posizione riguardo ad una richiesta, costringiamo anche l’altro a posizionarsi, a pensare, coscientemente oppure no, alla propria posizione rispetto a quello che chiede. Questo consente in ultima analisi di scoprire cosa ci interessa e cosa no, per cosa siamo disposti ad impegnarci e a lottare e per cosa invece no, ed è parte integrante del processo di crescita che avviene nel bambino nel momento in cui riesce a fare proprio il no ricevuto. Se, invece, questo movimento non avviene e non sembra esistere nessun paletto circa cosa sia o meno accettabile chiedere (e sperare di ottenere), il bambino si trova immerso pienamente nel suo mondo egoistico dal quale non riesce a discernere cosa sia fondamentale e cosa no in un appiattimento che tutto include ma nello stesso tempo tutto vanifica. Se nella mia ‘classifica’ di valori imperdibili si trovano il trenino elettrico e l’amore dei miei genitori, tutto è assolutamente importante ma nello stesso tempo niente lo è. Perdere un oggetto (il trenino si guasta) significherà temere il crollo di qualunque cosa entri a far parte di questa scala di valori proprio per il livellamento che questa classifica contempla. Un genitore potrebbe ovviare al problema, come spesso accade, sostituendo il bene perduto, ma non rendendosi conto di quanto questo alimenterà ulteriormente la spirale egocentrica e livellatoria innescata dalla sua difficoltà di porre dei paletti. Oltretutto l’incapacità di porre freno alle continue richieste del bambino, alimenteranno in quest’ultimo la dipendenza, dapprima fisica ed affettiva man mano che cresce sempre meno fisica ma molto stretta dal punto di vista affettivo, dai genitori aumentando se non del tutto compromettendo la possibilità di svincolo che credo sia, in un’ultima analisi, una delle funzioni più alte della funzione genitoriale.

– Continua –

[1] Phillips, A. (2009), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano, 

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Il male innominato

maschereQuesta riflessione scaturisce da una frequente osservazione: la differenza che esiste tra quello che mi raccontano i genitori e quello che mi raccontano i ragazzi una volta che vengono in studio. Provo a spiegarmi meglio. Quando inizio a lavorare con persone nuove, e la richiesta riguarda un minore, ho un ‘protocollo’ abbastanza collaudato: fisso prima un appuntamento coi genitori e i successivi col ragazzo. In questo primo incontro con i genitori, può capitare che mi raccontino dei problemi del figlio ed è su questa loro percezione che si augurano venga svolto il lavoro con il ragazzo (o ragazza, naturalmente): per esempio il ragazzo può avere, a loro dire, problemi di aggressività, oppure problemi a scuola, problemi di socializzazione, problemi di autostima e così via.

Quale che sia il problema, i genitori danno la descrizione della situazione dei figli dal loro punto di vista, sostanzialmente il punto di vista di persone adulte. Può anche capitare che i punti di vista non coincidano tra i due genitori, e si apre una fonte ulteriore di complessità che non affronterò in questo post. Tornando a noi, il secondo appuntamento è riservato ai ragazzi: i ragazzi mi raccontano quello che succede dal loro punto di vista e, nella maggior parte dei casi, se non forse in tutti, questo racconto è completamente diverso da quello che mi è stato fatto dai genitori e quelli che nel racconto dei genitori sembravano i problemi più grandi, spesso non lo sono per bocca dei diretti interessati.

Questo punto è di fondamentale importanza e credo testimoni diverse cose: genitori e i figli non condividono la causa, il perché che ha determinato quella data situazione. Non solo: capita che esista una discrepanza enorme tra il racconto del genitore e ciò che raccontano i ragazzi, ma capita altrettanto spesso che i ragazzi abbiano difficoltà e non riescano a definire quale sia la loro difficoltà. Magari si rendono conto che hanno delle difficoltà: possono, per esempio, pensare di avere una difficoltà con la propria autostima o con la propria aggressività, ma spesso non riescono ad individuare il punto che reputano più importante o mancano del tutto le parole per descrivere il malessere di quel momento. Capita anche che le parole che vengono utilizzate siano vaghe, oppure che contengano un forte giudizio nei loro stessi confronti: ‘sono scemo’, ‘sono sbagliato’ o ‘non valgo nulla’ sono solo alcune delle frasi che vengono utilizzate per descriversi. Parole, come abbiamo detto, severe e svalutanti, ma in fin dei conti non adatte per descrivere quelle che sono le loro emozioni e i loro sentimenti in quella fase della loro vita.

Questo aspetto mi colpisce perché testimonia come siano loro stessi a non riuscire a trovare le parole che descrivano quello che stanno attraversando. Ritengo che questa sia una delle parti più rilevanti della loro difficoltà, perché nel momento in cui mancano le parole che descrivono lo stato, non si ha neanche la capacità di immaginare una soluzione per quel tipo di problema. Quello che faccio è invitarli a parlare, invitarli innanzitutto a fare uscire le immagini che loro possiedono sulla loro attuale situazione e, partendo da queste, cercare di far loro assomigliare e precisare l’immagine, cercando di renderla il più precisa e dettagliata possibile, di modo che si attivino nuovi pensieri, precisazioni delle/sulle loro convinzioni, riflessioni che abbiano come obiettivo quello di spronarli a tirare fuori termini migliori per descrivere l’istante nel quale si trovano. Credo sia di fondamentale importanza per far stabilire loro cosa sia vero e cosa non lo sia, cosa ci sia nella loro evoluzione, quali immagini di se stessi vadano aggiornate e quali immagini possano essere archiviate perché ormai appartengono inesorabilmente al passato.

Credo sia una delle mie grandi prerogative: aiutarli a dare un nome, a dare un ‘volto’, se vogliamo, alle emozioni che stanno attraversando, cercando di farli riflettere sul fatto che quelle che usano per descriversi non sono solamente parole, prive di senso, ma che abbiano una fortissima valenza nel caratterizzare quello che è il loro sentire, nei confronti di loro stessi prima che con gli altri

Perché sono sempre più convinto di quanto la discrepanza tra come si raccontano e come si percepiscono sia legata spesso al disorientamento e al turbamento che provano. E perché dare un nome e un ‘volto’ a quello che si prova e, in ultima istanza, alle proprie emozioni, può essere il primo passo che permetta la condivisione e la comunicazione di quello che si sta provando, condivisione che può, di fatto, avvicinare genitori e figli e rendere meno marcata la differenza tra come si raccontano loro e come li raccontano i genitori.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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I compiti per le vacanze

Prueba1669Ci siamo. Le tanto sospirate vacanze sono arrivate. Per molti bambini e ragazzi è arrivato finalmente il momento in cui, essendo liberi dalle tante incombenze che caratterizzano la loro routine quotidiana, pensano di potersi dedicare a ciò che più piace loro. Questo sarebbe possibile se non avessero quello che per molti è un vero e proprio incubo da vacanza: i compiti delle vacanze appunto. Esistono due tipi di scuole al riguardo: coloro che reputano i compiti necessari per tenere in allenamento i ragazzi e coloro che li ritengono l’ennesimo modo per tenerli sotto scacco anche nei momenti in cui dovrebbero essere più liberi. In supporto alla seconda tesi ho trovato un interessante articolo che fa un elenco dei motivi per cui sarebbe preferibile che i ragazzi non avessero compiti durante le vacanze. L’elenco è stato stilato da Miriam Clifford, insegnante e blogger che si occupa del tema scuola attraverso InformEd, sorta di laboratorio di idee sulla scuola. Trovate il link in fondo al post.

Intanto i punti:

  1. Gli studenti  imparano tutto il tempo nel 21° secolo. In una società come la nostra, costantemente connessa e nella quale circolano una miniera di informazioni ovunque, non si può pensare che i ragazzi apprendano solamente all’interno del contesto scolastico. Questo rende in parte superflua l’idea di compiti da fare a casa, legati alla visione di tenere vive e fresche le conoscenze acquisite a scuola durante l’anno;
  2. Non necessariamente molti compiti equivalgono ad una maggiore realizzazione: non è detto cioè che assegnare compiti a casa faccia studenti più diligenti o più bravi a scuola;
  3. I paesi che assegnano più compiti a casa non sono i migliori. Spesso invece è vero il contrario. Per esempio il Giappone ha abolito l’utilizzo di compiti a casa per favorire il tempo in famiglia mentre paesi del nord Europa, come per esempio la Finlandia, hanno limitato i compiti a casa ad un impegno massimo di mezz’ora al giorno;
  4. Invece di assegnare compiti, suggerire che leggano per divertimento: invece di assegnare un compito si può cercare di far interessare ad una lettura libera, per divertimento, che consenta di superare la logica di imposizione dei compiti a casa;
  5. Non assegnare troppo lavoro durante le vacanze: è controproducente anche al momento del ritorno a scuola; 
  6. Invitare gli studenti a partecipare a un evento culturale locale: questo tipo di attività, oltre ad essere percepita come più attiva rispetto allo svolgimento dei soli compiti, può portare il ragazzo a conoscere aspetti della sua realtà che non avrebbe mai preso in considerazione altrimenti;
  7. Il tempo in famiglia è più importante nelle vacanze: spesso infatti è una delle poche occasioni nella quale tutti  i membri, essendo anche gli altri in vacanza, possono passare del tempo insieme, non distratti dalla mille incombenze quotidiane che portano spesso ad incontrarsi tutti assieme solamente a cena; 
  8. Per gli studenti che viaggiano durante le vacanze, i compiti possono ostacolare l’apprendimento sul loro viaggio: dovendosi portare i compiti appresso hanno meno tempo di dedicarsi all’esperienza che stanno vivendo; 
  9. I bambini hanno bisogno di tempo per essere bambini: il fatto di avere spesso doveri non aiuta molto questo aspetto; 
  10. Alcuni esperti consigliano una fine a tutti i compiti: il rischio è, come detto, quello del sovraccarico; 
  11. Inviare una lettera ai genitori per spiegare perché non si stia assegnando lavoro: questo punto è dedicato agli insegnanti che possono spiegare con una lettera ai genitori dei propri alunni per quale motivo non reputano necessario assegnare loro compiti;
  12. È possibile rendere le vacanze un momento per un “progetto aperto” per crediti supplementari: si può, cioè, affidare alla fantasia e alla creatività del ragazzo l’esecuzione di un compito che sia dal ragazzo pensato, progettato ed eseguito. Il progetto sarà poi valutato a seconda delle qualità che il ragazzo ha deciso di mettere in gioco; 
  13. Suggerire la visita di un museo: se a scuola si studia il Medioevo, una visita ad un museo che ha questo tipo di reperti può essere più interessante che l’ennesima scheda su un brano letto nel libro di storia; 
  14. Esortare gli studenti a fare volontariato durante il periodo di vacanza: questo genere di attività, come nel punto 6, può essere percepita come più attivante rispetto al fare semplicemente dei compiti, e può spronare il ragazzo ad impegnarsi in attività che lo portino ad interessarsi all’altro e ai suoi bisogni;
  15. Sviluppare un gioco di classe: prima delle vacanze è possibile costruire un’attività scolastica la cui fine può essere poi assegnata a casa, coinvolgendo anche altri membri della famiglia. Questo favorirà un maggior tempo che i membri passano tra loro; 
  16. Gli studenti possono imparare di più osservando il mondo reale, piuttosto che fargli fare compiti su quello stesso mondo;
  17. Fare escursioni a piedi: e utilizzare le impressioni registrate. Come per altri punti precedenti, un’esperienza diretta è spesso più formativa dello studio della stessa esperienza; 
  18. Invogliare gli studenti di visitare un parco divertimenti: concetti spesso astratti come le forze fisiche possono essere sperimentate direttamente con molti giochi presenti in questi parchi!
  19. I bambini hanno bisogno di riposo: come tutti noi, anzi forse sopratutto loro, hanno bisogno di un momento di stacco dalle attività quotidiane;
  20. Molti genitori e studenti non amano compiti delle vacanze: sulla veridicità di questo punto non sono molto d’accordo, perché da per scontato che i genitori vogliano passare più tempo coi figli durante le vacanze e non sempre le cose stanno così.

Come avrete notato, uno dei punti principali di questo elenco è quello di preferire delle attività pratiche piuttosto che mere attività scolastico/mentali. Il tempo che rimane libero può essere utilizzato per far vivere delle realtà (musei, volontariato…) che normalmente vengono solamente insegnate. Come accennavo nell’ultimo punto, questo comporterebbe passare e dedicare maggior tempo ai propri figli e per molti genitori, in vacanza a loro volta, potrebbe essere un impegno non da poco che eviterebbero volentieri per riposarsi. Sarebbe interessante allora chiedersi a chi giovi che i figli abbiano compiti da svolgere anche durante le vacanze.

Che ne pensate? A che scuola di pensiero appartenete? I compiti sono per voi una cosa utile oppure una vessazione cui cercare di porre al più presto rimedio?

Se voleste leggere l’articolo per intero, in inglese, cliccate qui

A presto…

Fabrizio Boninu

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Violenza sulle donne: una testimonianza diretta

74de2-violenza-sulle-donneIl post di oggi è dedicato ad un tema sempre più dibattuto, soprattutto in questi ultimi tempi di fatti ancora più efferati e violenti, fatti nei quali insufficienti sembrano le parole delle dirette protagoniste. Sto parlando di violenza sulle donne. Il tema è presente nel dibattito dell’opinione pubblica e su molti media: ne parlano giornali, tv, internet dando la parola ad esperti, o presunti tali, che disquisiscono su cosa sia meglio o no fare, o dibattono su casi di cronaca nera dei quali, magari, non hanno nessuna conoscenza diretta. Più rare sono le parole di chi quella violenza l’ha subita sulla propria pelle riuscendo, con difficoltà, a trovare il modo per riuscire a descriverla. Angela, la protagonista di questa storia, ha generosamente deciso di condividere la sua esperienza con tutti noi, con l’augurio che possa servire alle tante persone che, come lei, si trovano o si sono trovate in una situazione analoga.

Salve Angela, innanzitutto benvenuta. Puoi dirci qualcosa di più su di lei? 

Partirei da uno stato d’animo: il senso della progressiva perdita della mia identità, come una donna che andava dissolvendo la propria essenza e che per questo alternava sensazioni di paura e di colpa.

Vuole raccontarci come vi siete conosciuti con il suo ex compagno?

Eravamo compagni di classe alle scuole superiori. Ma restammo soltanto amici durante quegli anni e poi ci perdemmo di vista. Ci incontrammo nuovamente, dopo un mio percorso di studi all’estero, quando eravamo studenti universitari.

Come è stata la vostra vita di coppia?

La nostra vita di coppia cominciò in una modalità non proprio convenzionale, nel senso che in realtà avevamo avuto la nostra prima figlia e ci sposammo senza formare in effetti una famiglia. Ho cresciuto da sola mia figlia per circa tre anni.

Quando ha iniziato ad avvertire che le cose stessero cambiando tra voi?

Eravamo ancora fidanzati, giovani ma non ragazzini. Fu quando mi resi conto che fu sconvolto al pensiero che avremmo avuto un figlio, letteralmente impreparato al ruolo di padre. Iniziò la nostra più grave divergenza inerente una decisione che mi sentii di prendere unilateralmente in assoluta libertà, come donna e come madre. Ma dopo un primo suo allontanamento, vista la mia scelta irremovibile di tenere mia figlia, tornò da me convincendomi delle sue buone intenzioni di non lasciarmi sola. Ero molto innamorata e fui felice di poter garantire a mia figlia anche la presenza di suo padre. 

Che succedeva nella vostra vita e nella vostra famiglia?

Nei mesi a seguire e durante i primi anni di vita della bambina cominciò a manifestare una certa instabilità comportamentale, e tanta, tanta insofferenza nei miei confronti. Si arrabbiava sempre più spesso e diventava via via più duro e anaffettivo, contraddittorio nelle parole e nelle azioni. Gli esternai le mie preoccupazioni circa il nostro rapporto e l’influsso dannoso del suo atteggiamento anche nei confronti della nostra bambina, ma lui mi rassicurava che la sua instabilità era dovuta al fatto che non eravamo ancora autonomi economicamente. Quando cominciammo a vivere insieme mi resi conto che mentiva spesso e, con grande preoccupazione, realizzai che quelli che avevo ritenuto potessero essere dei normali difetti caratteriali si rivelarono in realtà degli eccessi che mi incutevano sempre più paura: urlava spesso, mi insultava, non aveva gestione dei suoi impulsi quando si arrabbiava. Diventò aggressivo fino a schiaffeggiarmi, spingermi fino a farmi cadere per terra. Capitava anche che trovandomi per terra mi colpisse con dei calci insultandomi senza alcun controllo, anche in presenza della bambina.

Cosa ha fatto?

Un giorno in cui accadde che fu più aggressivo e violento del solito nei miei confronti, in presenza della bambina, mi recai alla caserma dei Carabinieri vicina alla nostra abitazione per raccontare l’accaduto. Non ebbi ancora il coraggio di denunciarlo, ma il maresciallo stilò un rapporto e mi rassicurò che lo avrebbe ammonito. Lo informai che mi sarei allontanata dalla nostra casa, dove ci eravamo trasferiti pochi mesi prima, per recarmi all’estero dalla famiglia di mia sorella dove mi sarei sentita al sicuro e avrei avuto modo di riflettere su quale direzione prendere per il mio bene e, soprattutto, per il benessere psicologico di mia figlia, nei confronti della quale sentivo una grande responsabilità educativa e di tutela.

I vostri genitori e, in genere, la famiglia allargata che ruolo ha giocato in quello che accadeva? Erano al corrente di ciò che stava succedendo tra voi?

I miei familiari avevano avuto modo di sentire alcune delle sue urla ed offese nei miei confronti e non mancarono di esternarmi inizialmente le loro perplessità circa la sua mancanza di rispetto verso di me e in seguito la loro preoccupazione circa la totale mancanza di autocontrollo quando si arrabbiava con me per futili motivi. Ma riusciva, in loro presenza, a limitarsi alle urla e alle aggressioni verbali. Le aggressioni fisiche avvenivano sempre quando si trovava da solo con me o, qualche volta, in presenza di nostra figlia. Poi si allontanò affettivamente dalla mia famiglia, fino a spezzare ogni legame con essi. Con me parlava dei miei familiari con disprezzo ed ingiurie nei loro confronti. Capii più tardi che i suoi erano al corrente del “cattivo carattere” di mio marito, soprattutto sua madre e i fratelli, i quali non sono mai intervenuti in mia difesa, nonostante sapessero e spesso avessero udito, senza mai riflettere sul fatto che il loro intervento poteva essere d’aiuto anche per il loro fratello.

Ha mai sporto denuncia nei confronti del suo compagno? Cosa è successo nel caso?

Fu dopo il nostro trasferimento in una città del nord che mi resi conto che i problemi erano dovuti a delle sue componenti caratteriali e disturbi della personalità che andavano sempre peggiorando. Sporsi denuncia dopo che fece male a me e ai nostri due figli di 11 e 4 anni. A me personalmente causò, con una violenta spinta, un politrauma cranico e una frattura all’osso sacrale. Mia figlia, la maggiore, mi vide distesa per terra priva di sensi. Fu lei a interessarsi chiamando immediatamente il 118 e la polizia. Dopo essermi un po’ ripresa dalle ferite fisiche e morali, lo denunciai. In quel periodo (sia prima che dopo la denuncia), non ci fu alcun suo interesse né per me, né verso i nostri figli. Non è facile sporgere denuncia. Costa tanta sofferenza, forza e coraggio. Credo di esserci riuscita per amore e senso di responsabilità per la tutela dei miei figli, prima che per me stessa. Ma, seppure possa apparire paradossale, ero convinta che forse avrei potuto offrire una possibilità a mio marito di riflettere sulla sua condotta, di realizzare finalmente tutto il male che aveva fatto a me e ai miei figli, di scuotere la sua coscienza. Oggi sono più che mai convinta che le donne che subiscono violenza dai loro partner, non fanno alcun dono ad essi non denunciandoli. Si tratta anche della prima urgente forma di tutela per i figli, oltre che per se stesse.

A suo avviso qual è stato il momento in cui ha realizzato che le cose dovessero cambiare?

Non c’è un momento solo in cui pensi che le cose debbano “cambiare”. E, nel contempo, non è che vedi prospettive, pensi che sarebbe un miracolo se solo riuscissi a fuggire. Ogni altra alternativa ti pare per forza migliore, qualunque essa sia. Pensi solo che devi attendere il momento buono per fuggire, scappare. E’ come un buio tunnel in cui corri, corri, tenendo per mano i figli. Qualunque spiraglio diventa una porta che tenti di aprire. Se non è quella buona corri ancora, senza perdere tempo. Lui non accettava la separazione, era impensabile. Ma, nel contempo, distruggeva tutto e tutti noi. A ogni mio tentativo di aiutarlo era come se anziché aggrapparsi a me tirandosi su, mi trascinasse nel baratro con lui. Non si metteva in discussione: Ero diventata il contenitore di tutti i suoi mali. Tutto ciò che gli accadeva di negativo lo destabilizzava terribilmente. Non accettava di dover fronteggiare dei problemi, perfino i capricci dei nostri bambini erano motivo di forte stress per lui, con reazioni aggressive abnormi. Vivevo riflettendo su questa sua condotta, prestando la massima attenzione a non provocarlo minimamente, ad evitare ogni possibile litigio per il bene dei figli. Essi non mi hanno mai sentito rivolgermi al loro padre con una parola offensiva. Ma mi resi conto che non era più possibile vivere col cuore in gola, chiamandolo alla sera al cellulare per monitorare il suo umore e sapere come aspettarsi che rientri a casa, in modo da consigliare anche ai figli come comportarsi, perché lui non si irritasse. Posso dire che i fatti più significativi, che maggiormente mi hanno consapevolizzata che dovevo reagire e rifiutare quel tipo di violenze psicologiche, fisiche ed economiche, sono stati i maltrattamenti verso i figli e il mio stato di salute psico-emotivo sempre più fragile. Dovevo riuscire a controllare la mia paura di lui, il mio terrore e la disperazione nel vedere i miei figli esposti a dei comportamenti insani del loro padre. Non avrei mai voluto che mia figlia un giorno avesse cercato una figura maschile come quella di suo padre, né mai avrei potuto essere complice di una stessa modalità di comportamento maschile verso la propria donna, da parte di mio figlio, allora un bambino. Dovevo fermare questa spirale prima che fosse troppo tardi.

Cosa è successo?

Accadevano numerosi fatti che mi persuadevano sempre di più che, accanto a dei suoi tratti caratteriali molto negativi, c’erano anche sentimenti di cattiveria, insensibilità. Dopo aver picchiato i figli, e dopo offese e ingiurie terribili, sia verso di loro che verso di me in loro presenza, non mostrava mai ripensamento, pentimento e sofferenza per quanto aveva fatto o detto. Mai un ravvedimento. Intravedevo dei sentimenti, anzi complessi, di superiorità perfino in famiglia. Aveva un altissimo concetto di sé. Mi sentivo una formica ai piedi di una montagna che mi schiacciava sempre di più con la sua sola ombra. Mi capitava di aspettare che i figli fossero a scuola per tentare di parlare con lui, di ragionare, di fargli capire che non poteva fare finta che nulla fosse accaduto. Gli chiedevo se si rendesse conto di ciò che aveva fatto, ma, nel vedere i risultati disastrosi, il ripetersi dei suoi scatti d’ira, in quanto non dovevo assolutamente fare riemergere problemi che secondo lui erano già risolti, prudenzialmente e impaurita mi allontanavo. Finiva sempre col dire che la responsabilità era tutta mia. Ho tentato di aiutarlo indirizzandolo verso uno specialista, uno psicoterapeuta. Lui stesso mi chiese aiuto due volte, impaurito da ciò che egli stesso era capace di fare. Ma la prima volta tornò dicendomi che la specialista gli disse che non aveva bisogno di alcuna terapia psicologia. La seconda fu da uno psichiatra molto bravo e noto nella nostra città. Da lui vi si recò più volte, ma si rifiutò di tornarci dopo che anch’io mi ci recai con lui, su richiesta del medico. Emerse che non aveva mai esternato di avere problemi in famiglia, ma solo al lavoro. Dovetti dire al dottore che eravamo sull’orlo della separazione. Quando dovetti rispondere con sincerità alle domande postemi, si infuriò e urlò volgarità nei miei confronti anche vicino a lui. Lo stesso medico mi disse che aveva capito, e che veramente non mi restava altro da fare che separarmi. Più tardi riferì al mio avvocato che mentre io mi mettevo in discussione, lui era rigido, con un atteggiamento molto ostile e accusatorio nei miei confronti e che non sapeva autogestirsi nelle reazioni. Mi disse che era preoccupato per l’incolumità mia e dei nostri figli.

Si è mai chiesta perché sia successo questo nella sua vita di coppia?

Si, infinite volte, ma nel passato. E, purtroppo, tendevo a colpevolizzarmi. Oggi direi che è successo perché è ciò che succede nelle stesse situazioni in cui la donna è molto innamorata, e forse anche un po’ ingenua nel credere di farcela, con l’amore, a cambiare l’uomo che ti fa del male. Ma non posso generalizzare. Forse l’unico comun denominatore in questi casi è la buona fede di noi donne, il valore della famiglia, la speranza che tutto possa, gradualmente risolversi. Ma sentirsi sempre in colpa è solo dannoso. Sono uomini che hanno una doppia personalità, che prendono possesso della donna e della sua vita, come un oggetto. Quando li vedi buoni e affettuosi sono così diversi dall’altro sé che ci credi o ci vuoi credere che stia cambiando, questa volta. Sono uomini che agli altri appaiono innamoratissimi, responsabili padri di famiglia. Poi, a casa, ti spaventi nel vedere nel cestino della spazzatura quella rosa in argento che ti aveva regalato (uno dei suoi pochi regali), piegata e danneggiata. L’avevi cercata, avevi chiesto a lui se l’avesse vista, spostata. Ti guarda e ti dice stupito che no, che senso avrebbe avuto spostarla? Vedi che quando si arrabbia toglie la fede e la lascia nella vetrina in soggiorno per mesi. Trovi fotografie dei figli coi tuoi parenti strappate. Cartoline dei parenti anche queste strappate, nascoste nei cassetti. Durante le vacanze estive, ti tiene lontana dai parenti, ti isola. Chi ti vuole bene è da lui odiato, e ha tutti i difetti di questo mondo. E tu sei una stupida, una cretina, una che non vale niente e che non avrebbe fatto niente nella vita, se non fosse per lui che t’ha “raccolta”. Sono uomini che sperano di convincerti, a furia di gridartelo, che sei uno schifo e non vali niente. 

Che rapporti ha attualmente col suo ex compagno e che rapporti ha lui con i vostri figli?

Non ho un vero “rapporto”. Ha avuto una condanna dal Tribunale di un anno e otto mesi, per maltrattamenti in famiglia e abuso dei mezzi di correzione. Serba in sé un profondo rancore nei miei confronti e della nostra figlia maggiore. Con lei non ha alcun rapporto da oltre otto anni, da quando era appena adolescente. Ha verso di lei un totale rifiuto. E lei ha dichiarato anche al giudice, in tribunale, di non avere mai avuto un padre. Faccio sforzi da equilibrista nel gestire il suo rapporto con il figlio minore. Non è facile, in quanto il loro è un rapporto altalenante, discontinuo, alternato da lunghi periodi senza frequentazione tra di loro ad altri brevi periodi in cui si vedono. Si sta perdendo, lentamente, anche il figlio minore, con atteggiamenti che rientrano ancora nel maltrattamento psicologico.

Si è sentita protetta, aiutata dalle istituzioni preposte dopo la denuncia dei maltrattamenti e delle lesioni? Come ha superato tale difficile e dolorosa esperienza?

Comincio dalla seconda domanda. E’stato importante per me capire cosa mi fosse successo. Ho ripercorso tutto il mio cammino con lui, riletto decine di volte tutte le lettere che mi aveva inviato da fidanzati. Vedevo, rileggendo, delle avvisaglie della sua personalità che non ero riuscita a intravedere allora, che avrebbero potuto farmi riflettere. Ho scritto tanto, tanti pensieri, per riuscire a convivere con il dolore che avevo nell’anima. Cercavo con disperazione e fiducia nel contempo, le modalità più consone alla ricomposizione del mio io frantumato, a partire dalla lettura del mio stato d’animo e delle mie emozioni, del mio dolore. Questo percorso è stato dolorosissimo, ma essenziale. Questo dolore interiore è molto più dilaniante di un dolore fisico. Ma ho imparato a non avere paura di osservarlo, per potermi curare non solo “da” esso, ma “con” esso. Ho imparato anche ad avere rispetto della mia storia, della quale nulla era da buttare. Nulla di essa era spazzatura. Tutto doveva essere compreso in un bagaglio umano e dignitoso. Scrivevo come se dovessi consigliare a un’amica come farsi forza, come andare avanti con coraggio. Volevo guardare in faccia il dolore senza paura, per non imprigionarlo in me. Quando non si è capaci di odiare, nonostante tutto, si ha il coraggio di toccare le proprie ferite, di accarezzarle e di ricomporre i pezzi lesi della propria personalità, della propria dignità di donna e di madre. 

Ho avuto il grande sostegno morale e materiale dei miei familiari, seppure vivono, purtroppo, lontano da noi. Mi ha aiutata tantissimo mia sorella medico. Mi ha aiutata tanto anche documentarmi sulla personalità di questi mariti, partner. E’ stata oltremodo interessante e d’aiuto la lettura dell’articolo “Violenza in famiglia e disturbi psichici”, di Dott. Domenico Chindemi (Magistrato di Cassazione) e Dott.ssa Valeria Cardile; il libro “Donne che amano troppo”, della psicologa americana Dott.ssa Robin Norwood e, più recentemente, l’articolo del Dott. Giuseppe Raspadori: “Tribunale per minorenni: una giustizia priva di confini, dedicato al silenzio delle madri a cui il dolore toglie anche la dignità della parola”. Quest’ultimo è inerente un altro percorso che sto attualmente vivendo, inteso a tutela del mio figlio minore, ma con gravi errori giudiziari che dovrebbero essere riconosciuti e colmati da regolamentazioni più consone ai casi di violenza in famiglia e modalità di affido che dovrebbero essere intraprese senza indugio alcuno, come detta fermamente la stessa Convenzione di Istanbul. 

Ho dovuto imparare ad avere cura di me stessa. Non ho avuto alcun particolare aiuto morale e psicologico dalle autorità, dalle istituzioni, né consigli su indirizzi di istituzioni preposte all’aiuto delle donne nella nostra città. Non ho incontrato in esse persone preparate nel campo di questi eventi di violenza domestica. Ho riscontrato frequenti contraddizioni e perfino considerazioni maschiliste anche in ambito giudiziario e dalle autorità istituzionali. Sulla base della mia personale esperienza, posso dire che la donna è lasciata sola dalle istituzioni nel suo percorso doloroso. Devo ammettere, però, che l’unica persona ad aver dimostrato particolare perspicacia nel capire la personalità del mio ex marito e la psicologia degli uomini maltrattanti è stato il Pubblico Ministero. Ma non è riuscito in pieno a passare la sua dettagliata analisi, introduttiva alla sua richiesta di condanna al giudice, in Tribunale. Però a me ha fatto bene, moralmente e psicologicamente. Per quanto ho potuto sperimentare, l’iter giudiziario nelle aule dei tribunali, molto burocratico e freddo, non è uno scenario idoneo alla presa di coscienza di una necessaria informazione e formazione per l’aspetto psicologico e doloroso dei maltrattamenti in famiglia. Noi donne maltrattate potremmo dire tanto, essere loro d’aiuto perché siano in grado di aiutarci effettivamente.

Com’è stato l’iter giudiziario?

Lunghissimo. E’ durato per più di sei anni. Senza alcuna regolamentazione delle frequenze tra padre e figlio (la maggiore non l’ha mai più cercata), nessuna ammonizione, nulla. 

Le udienze sono state rimandate numerose volte, per un frequente turnover dei giudici, per errori di notifica, o su richiesta dei suoi avvocati, o per assenza dell’imputato. Questo sistema giudiziario farraginoso determinava un sempre maggiore senso di ansia in me e in mia figlia, influendo negativamente sulla nostra qualità della vita, come se ci trovassimo in una strada di cui non vedevamo la fine. Tutte sensazioni ed emozioni che ho esternato ai giudici e al mio avvocato. Ha inciso molto anche il fatto che, non avendo i mezzi per pagare un avvocato, ho dovuto ricorrere al gratuito patrocinio.

Quali pensieri le vengono in mente in relazione al terribile fenomeno del femminicidio, così attuale nelle nostre cronache quotidiane?

Ogni volta che sento di una donna vittima della violenza di un uomo, spesso fino a morirne, penso che è stata solo per fortuna che anch’io non sia finita nelle cronache tra le vittime del femminicidio. Sento anche, ovviamente, un forte senso di pietà umana. Ogni donna che muore per mano di violenza del proprio uomo, è mia sorella. Nel contempo, provo un sentimento di impotenza, nella piena consapevolezza di come le esposizioni di questi fatti di cronaca sui giornali, le inadeguate e superficiali risposte delle sentenze dei tribunali e la solitudine delle donne vittime sopravvissute ma gravemente segnate anche fisicamente per la vita, non solo non costituiscano prevenzione, ma addirittura favoriscano pericolosamente la spirale della violenza di genere e quindi del femminicidio. C’è tanta letteratura sulla prevenzione del fenomeno. Ci fanno scuola le convenzioni internazionali circa la tutela dei diritti delle donne. Bisognerebbe cambiare mentalità, a cominciare dall’immagine della donna imposta dai media, dalle pubblicità offensive verso la dignità delle donna, troppo spesso rappresentata come mero oggetto erotico. Si dovrebbe sentire maggiore responsabilità verso la formazione delle nuove generazioni per un nuovo concetto di rispetto per la donna. Senza questo rispetto non c’è civiltà, non c’è democrazia, non c’è parità di genere. 

Nel giugno del 2012, nel corso della 2° Sessione del Consiglio dei Diritti Umani, l’Onu condannava così l’Italia: “La violenza sulle donne in Italia resta un problema grave, risolverlo è un obbligo internazionale è un crimine di Stato, fate di più.”. Ciò a seguito delle pesanti osservazioni all’Italia di Rashida Manjoo, Special Rapporteur delle Nazioni Unite, in un Rapporto tematico annuale del 2012 sugli omicidi basati sul genere, ed il Rapporto sulla violenza sulle donne in Italia. Il Rapporto contiene dati, osservazioni e raccomandazioni alle istituzioni italiane in materia di violenza sulle donne. 

L’ONU denuncia: “Femminicidio e violenza sulle donne sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita – ha detto Manjoo a Ginevra -. In Italia, sono stati fatti sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di leggi e politiche, incluso il Piano di Azione Nazionale contro la violenza”, riconosce, “questi risultati non hanno però portato a una diminuzione di femminicidi o tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine (…) In Italia c’è l’incapacità di riconoscere alle donne posizioni e ruoli pari agli uomini e l’incapacità a rispondere con strumenti adeguati a proteggere le vittime. In un contesto sociale patriarcale, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine e le risposte dello Stato non sono appropriate e sufficienti”.

Nell’appena trascorso 2015, dopo due anni e mezzo dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, l’Onu ha ammonito ancora una volta l’Italia per non avere fatto abbastanza per ridurre la violenza di genere.

Noi donne non dobbiamo mollare, sono certa che riusciremo a scuotere le coscienze.

So che è difficile generalizzare, e ne sono consapevole ancora di più in situazioni di questo tipo, ma ripensando a quello che è successo cosa suggerirebbe alle persone che si trovano in una situazione simile?

Suggerirei di pensare guardando in avanti. Di fronte a voi c’è l’altra sponda. Dietro l’abisso. Ci fosse anche un oceano che vi separa da quella sponda di salvezza, credete in voi. Se avete dei figli, teneteveli stretti, abbracciati, trattenete il respiro, tenete bene gli occhi aperti e fate il salto più lungo che potete. Vi meraviglierete di scoprire di avere le ali. Quelle dell’amore, per il quale le distanze non hanno misura. E’ possibile una vita migliore, in cui potrete affrontare ogni problema con un’autostima che non verrà più minata. Parlate delle violenze subite coi parenti, con gli amici più cari e fidati, non chiudete tutto dentro voi stessi, altrimenti diventerà sempre più difficile essere consapevoli di vivere una storia che non è normale. Documentatevi, chiedete aiuto a degli esperti sensibili al problema, che purtroppo è molto diffuso. Consultatevi con delle associazioni per la difesa della donna, a gruppi di mutuo aiuto. Cominciate un percorso di liberazione interiore da un laccio che inevitabilmente ha interrotto la vostra vera esistenza, tenendovi in apnea. Non sentitevi in colpa. Non perdetevi nel rancore, nell’odio. Sarebbero sentimenti che vi terrebbero ancora legati al vostro partner. Aver scelto di sposare o di convivere con l’uomo che amavate non è una colpa. Ci sono dinamiche che in una coppia si manifestano soltanto con la convivenza e, fortunatamente o sfortunatamente, è con essa che riusciamo, via via, a capire dolorosamente in che spirale insana ci si trova a vivere. Siate libere come mai prima. Uscite, camminate, frequentate le persone che veramente vi fanno stare bene. Ricominciate a fare delle scelte per il vostro benessere. Ascoltatevi respirare, ascoltate la vostra anima e vogliate bene a voi stesse. Abbiate cura amorevole di voi. Fate della vostra fragilità un punto di forza nella vita e per la vita. Scrivete a voi stesse di essere rinate.

 

Per il momento ci fermiamo qua. Ringrazio di cuore Angela per la generosità con la quale ha accettato le mie domande che sono doppiamente impegnative, sia perché ripercorrono un’esperienza così dolorosa, sia perché condivise in contesti pubblici come il blog e il sito. Sono consapevole della delicatezza del tema e qualsiasi intervento è ben accetto. Chiunque volesse partecipare alla discussione è invitato a farlo, tenendo sempre presente il rispetto dovuto in vicende così complesse. Qualora preferiste contattarmi in privato potete farlo alla mia mail fabrizioboninu@gmail.com.  

A presto…

Fabrizio Boninu

 

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Gli adolescenti e la noia (3)

Gli adolescentiAdulti invidiosi e mal disposti, li definisce l’autore. Invidiosi di cosa? Cosa può invidiare l’adulto a questi giovani perennemente annoiati e in crisi con la propria vita? Le cose che possono suscitare invidia sono diverse: la vitalità, il tempo, le possibilità, le occasioni, le infinite prospettive che si trova davanti, le opportunità, le esperienze da fare. Non che questi aspetti non possano far parte del mondo adulto, ma spesso molti, una volta cresciuti, non vedono queste possibilità in un vita ormai ordinata, spesso ordinaria, una vita che ha assunto una piega che non lascia intravedere grandi possibili novità. Questo sentire, non ammissibile e non confessabile, spesso neanche cosciente, induce una particolare severità nel giudicare la vita dei ragazzi, severità attraverso la quale non percepiamo l’altro lato della medaglia, il dolore, lo sconforto e la paura che suscita diventare grandi. Se riuscissimo a ricontattare l’adolescente che siamo stati, forse ci tornerebbe alla mente il miscuglio di eccitazione e terrore, di paura e sfida, di sicurezza e fragilità che l’adolescenza comporta. Gli esiti imprevedibili di questa miscela sono ben più spaventosi di quanto un adulto riesca a percepire o ricordare. Anche la noia in questa prospettiva, assume contorni nuovi e stupefacenti, contorni che l’adulto stenta a riconoscere:

Il nostro adolescente non si annoia, ma contempla sgomento la pochezza del mondo che gli hanno preparato ed è costretto a chiedersi come possa renderlo più interessante. Non è affatto ottimista sull’esito dell’operazione è quasi sempre decide di non interessarsi ad azioni trasformatrici, limitandosi a cercare di soffrirne il meno possibile; spesso si costruisce, in alternativa, un mondo parallelo fatto del piccolo gruppo di amici e amiche, con cui prendere in giro il mondo esterno[1]

La noia diviene una forma di desensibilizzazione rispetto al mondo che circonda, mondo sentito come pauroso e ostile, un mondo dal quale fuggire e nel quale, spesso, non si trova la guida di un adulto del quale fidarsi. Un mondo percepito come pericoloso, nel quale ogni privilegio sarebbe volentieri scambiato con la sicurezza, con la facilità, la stabilità, la comprensione. Il mondo in trasformazione è un mondo nel quale anche le relazioni con gli altri, stabili fin da quando si era bambini, vanno ristrutturate all’interno di un rapporto diverso, complesso da decifrare, con continui rimandi e rimproveri, all’interno della logica del ‘non puoi più comportarti così, non sei più un bambino’, quando ancora a quel bambino non è subentrato un adulto che comprenda come relazionarsi con il mondo dei grandi che si avvicina inesorabile.

Questa complessità non viene presa in considerazione, ottenebrati come siamo dai meravigliosi privilegi che concediamo loro e dei quali loro godono. I ragazzi hanno gioco facile nel mostrarsi presuntuosi o fragili, forti o disinteressati, boriosi o intimiditi, in una oscillazione emotiva che spaventa chi sta loro intorno e li allontana. La noia è l’arma con la quale non si fanno toccare, rifuggono dal contatto con un emotivo che disorienta, in primis, loro stessi. Ed è questo il grande dilemma dell’adolescente: essere coinvolto o disinteressarsi? Un dilemma che lambisce anche gli adulti: farsi coinvolgere o mollare la presa?  

Ed è in questo che una figura adulta, supportiva e non giudicante, può essere di grande aiuto. Solo con il sostegno di adulti che siano riusciti a trovare il loro equilibrio tra il ragazzo che sono stati e l’adulto che sono diventati, si può offrire loro una mano tesa e agevolarli a trovare un modo per relazionarsi con un mondo, fisico, relazionale ed emotivo che sta inevitabilmente assumendo contorni nuovi. Un adulto che riesca a non farsi impressionare o spaventare dalla noia e dal disinteresse che manifestano per tenerli alla larga. Un adulto che abbia ben presente che questo mondo sta mutando per i ragazzi ma anche, inevitabilmente, per coloro che li circondano.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Charmet, G., P. (2010), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 107-111

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Gli adolescenti e la noia (2)

Gli adolescentiSiamo solo profondamente consapevoli di quanto ci costi concedere loro questa vita così gremita, e di quanto loro, di contro, si annoino profondamente per tutto il ben di dio che nella nostra infinita generosità, abbiamo concesso loro: 

È opinione diffusa che gli adolescenti si annoino e che il tentativo di risolvere la loro noia sia all’origine di una serie preoccupante di azioni individuali e di gruppo, che lambiscono l’area delle condotte a rischio, fino a sconfinare in azioni direttamente scellerate. La sottocultura dei mass-media soffia sul fuoco di una rappresentazione che vede il nuovo adolescente disperato a causa della noia che lo affligge. E che gli impedisce di scorgere l’azione che lo potrebbe divertire e motivare, tanto da rendersi disponibile a qualsiasi azione che gli garantisca una scarica di adrenalina e lo svegli, restituendogli il gusto pieno della vita.

Consideriamo questa noia come base di tutte le ‘stranezze’ che accadono. Con sempre più risalto sui mezzi di comunicazione che tendono ad esaltare il fenomeno nei suoi aspetti più deleteri, rifiutandosi poi di aiutare a comprendere cosa abbia generato l’atto in se, qualunque impresa compiano attribuiamo la colpa alla noia, alla profonda noia delle loro vite vuote, vite nelle quali tutto (il vandalismo, il bullismo, l’abuso di sostanze, e così via) è legato a doppio filo con l’evitamento di una vita sazia, piena e prevedibile, una vita nella quale l’unico elemento di sorpresa e di vitalità sembra essere riposto solamente nella condotta a rischio

Si tratta di una delle rappresentazioni più scellerate messa a punto dalla cultura degli adulti. Essa parte dall’accusa rivolta agli adolescenti attuali di godere di una serie infinita di privilegi, quali mai nessuna generazione di adolescenti ha potuto godere; beni di consumo à go go, sesso libero, denaro in smodate quantità, libertà di movimento, facilitazioni scolastiche, azzeramento dei controlli, libera frequentazione degli amici, annullamento dell’obbligo militare, genitori disponibili a sponsorizzare la ricerca della propria vera vocazione per un trentennio: questi sono sono alcuni dei privilegi di cui godono i giovani maschi e femmine, in regime di pari opportunità, avvolti in nuvole di fumo di provenienza sospetta e preda di una strana ebbrezza che forse deriva dall’assunzione di beveroni enormi all’ora dell’happy hour, ammassati nei locali alla moda. 

E anche in questo frangente troviamo il modo di dare loro la colpa. Questi giovani adulti, circondati da tutti i privilegi possibili, sono talmente inetti da non preoccuparsi nemmeno di come rendere interessante la loro esistenza, sprecando in maniera sfacciata non solo tutto il tempo che hanno ma anche le opportunità a loro disposizione. Come osano essere così ingrati? Siamo arrivati all’immagine perfetta della nostra innocenza: noi che triboliamo per concedere loro i privilegi dai quali sono circondati, e che a nostra volta avremmo voluto avere, vediamo dissipata in questa maniera un tesoro dalle proporzioni enormi. E cosa dire, poi, dello smisurato spreco di tempo? Questo è la dilapidazione meno comprensibile per un adulto, forse per l’inesorabile senso di sfuggevolezza che, di contro, caratterizza le nostre vite. Ecco allora la continua rincorsa degli adulti a riempire il loro tempo o a sbraitare perché non ne sprechino, come se non dovessero fare esperienza di cosa significhi ‘tempo’ per loro.

Agli occhi degli adulti i nuovi adolescenti sono soverchiati dai privilegi, soddisfatti dai genitori prima ancora che possano desiderare alcunché, alle prese con una scuola che ormai ha ammainato le vele e non chiede nemmeno più che si parino gli enormi debiti accumulati in anni di pirateria scolastica. Così sarebbero esposti a soffrire gravemente di noia, non perché si trovano a giocarsi la giovinezza in assenza di occasioni e di stimoli, ma perché ne hanno troppi e hanno fatto, fin da piccoli, indigestione di privilegi e vizi di ogni tipo. Conseguentemente, ora non sanno più come gestire i loro il loro sconfinato tempo libero, perché hanno già fatto tutto, di corsa, troppo presto, senza alcuna fatica, ma senza neanche avere il tempo di gustarne il sapore. (…)

In questo contesto di soffocanti privilegi diventa scandaloso, agli occhi degli adulti invidiosi e mal disposti, che i ragazzi possano anche solo alludere al fatto che non sanno bene cosa fare, che si annoiano un po’. Se si annoiano in condizioni così stimolanti, vuol proprio dire che non sanno più trovare stimoli, che soffrono della noia in modo quasi allergico. (…) [1] 

– CONTINUA –

[1] Charmet, G., P. (2010), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 107-111

 

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Gli adolescenti e la noia (1)

Gli adolescentiMi sono occupato diverse volte del tema dell’adolescenza, e sono consapevole della nomea che la considera uno dei momenti più critici nella vita dell’individuo. Sicuramente questa fase costituisce una sorta di crocevia di quello che sarà l’assetto adulto (relazionale, emotivo, sociale) che il ragazzo si appresta non solo a costruire ma anche ad esprimere, entrando in relazione in maniera nuova col mondo dei pari e con quello degli adulti, mondo quest’ultimo nel quale si appresta, appunto, ad entrare.

L’incontro tra il mondo dell’adolescenza e quello adulto non sempre è facile, anzi. Il più delle volte una serie di immagini cristallizzate e stereotipate rendono l’incontro tra i due mondi complesso e difficoltoso, e solo con pazienza e costanza si riescono a superare le incomprensioni. Il movimento di incontro deve avvenire da ambo le parti: l’adolescente spesso si rifugia nel mito dell’adulto ‘che non ascolta’ e, convinto di questa realtà, non fa nulla per aprirsi al confronto. Oppure insegue il mito della sua ‘incomunicabilità’, ponendo una vera e propria barriera alla possibilità di scoprirsi con l’altro. Gli adulti, d’altro canto, si rifugiano nel mito, sempre più in voga, dell’adolescente ‘difficile’, mito dietro al quale si nascondono molte delle tante incapacità comunicative e relazionali. Altro mito duro a morire è quello secondo il quale gli adolescenti comunichino solamente col gruppo dei pari, costruendo una perfetta scusante per quella mancanza di rapporto e dialogo che anche gli adulti sono stati in grado di costruire.

In questa difficoltà comunicativa e relazionale, gli adolescenti, a mio avviso, hanno una grande attenuante della quale quasi mai si tiene conto: non sanno cosa significhi essere adulti. Se un adolescente sta crescendo, si sta gradualmente portando verso l’età adulta. Non ha ancora fatto esperienza di cosa questo significhi e costruisce questo significato per l’appunto con la crescita. Un adulto, di contro, sa (o dovrebbe sapere) cosa significhi essere stato adolescente, dal momento che è una fase della vita che deve aver passato (e vissuto) per divenire adulto. Un adulto sa (o dovrebbe sapere) cosa significhi quel senso di straniamento fisico, emotivo, sociale, relazionale, che spesso gli adolescenti provano nella loro crescita. Sa (o dovrebbe sapere) quali picchi di felicità e quali vette di sconforto possano caratterizzare velocemente l’umore di una singola giornata. Gli adulti sanno (o dovrebbero sapere) quali malumori può significare un no, e quali chiusure può portare. Gli adulti lo potrebbero sapere se riuscissero a contattare e a dare voce dentro se stessi all’adolescente che sono stati, al ragazzo che è ancora dentro di loro, che forse non ha mai voluto diventare l’adulto che sono diventati. Se riuscissero a far partire questo dialogo tra il ragazzo che erano e l’adulto che sono diventati, riuscirebbero a stabilire una comunicazione migliore con gli adolescenti che hanno la fortuna di incontrare nelle loro vite. Purtroppo, invece, l’adolescente che sono stati viene spesso messo a tacere, soffocato dalle incombenze ‘da grandi’ che la vita adulta si trova a mettere davanti. L’adulto prende il sopravvento ed è da questa angolazione che si forma la famigerata presa di posizione nel rapporto con adolescenti (e bambini!) per la quale ‘sono io il grande, so io che cosa sia giusto per te’, tanto disprezzato all’epoca ma riapplicato pedissequamente ora che siamo diventati noi gli adulti e siamo dimentichi di cosa tutto questo significasse quando gli adolescenti eravamo noi.

Mettere in discussione questa posizione è estremamente complicato: comporta un confronto personale pesante da sostenere e i cui esiti, incerti e teorici, non rendono sicuramente più facile affrontare. Ecco perché ci si rifugia in stereotipi vaghi, e si ricorre ad immagini dietro le quali si nasconde la complessità di un mondo del quale sentiamo di non condividere più il linguaggio, sentendo, prima che nel rapporto con loro, di aver perso il rapporto con noi stessi, con la nostra stessa adolescenza e con il ragazzo che siamo stati.

Le immagini divengono, in quest’ottica, sempre più statiche e ferme, frasi fatte che contemplano, compatiscono e si beano di quanto gli adolescenti non sappiano cosa fare, rimarcando una distanza sempre più siderale tra il ‘loro’ ed il ‘nostro’ mondo. Fioriscono gli aneddoti più comuni: adolescenti che passano tutto il tempo di fronte alla tv o con videogiochi, ragazzi che non fanno nulla tutto il giorno, quelli che non sanno cosa vogliono, che non sanno godersi la giornata, quelli sempre in giro e quelli sempre a casa, quelli terribili o quelli troppo mansueti che ‘dottore, ci aiuti perché non è in grado di affrontare la vita’. Un’immagine scoraggiante e sconfortante: ragazzi che hanno tutto e che non sono in grado di essere contenti di nulla. Ragazzi profondamente annoiati da una vita troppo piena, una vita nella quale non capiamo neanche cosa sia quello che chiediamo loro.

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