Il post di oggi è dedicato alle riflessioni che scaturiscono dal lavorare a stretto contatto con le persone più belle che mi capita di incontrare: i bambini. Spesso, in terapia, sopratutto in quella familiare, i bambini vengono tenuti fuori da quelle che sono le dinamiche familiare perché, all’interno della seduta, possono essere fonte di ‘disturbo’. E’ sicuramente vero che una seduta di terapia familiare coi bambini è più difficile da gestire, ma più per il maggior numero di membri familiari presenti piuttosto che per ‘la chiassosità’ dei bambini. Costituiscono, di contro, degli ottimi elementi, spesso privi di inibizioni e convenzioni, che permettono di avere un quadro più preciso e brillante del funzionamento familiare stesso. Quando vedo dei bambini in terapia singola l’aspetto che più mi colpisce è la possibilità che si lasciano di fidarsi, di mettersi in gioco e di partecipare a ciò che viene loro proposto. Lavorare con i bambini, naturalmente, implica qualche accortezza in più necessariamente legata sia all’età del bimbo che al suo grado di maturità emotiva e mentale. Ad un bambino spesso non si possono fare domande dirette, è necessario avere risposte, passando da quello che è il modo in cui i bambini comunicano: il gioco. Tramite il gioco è possibile accedere ad una serie di significati o di fantasie che il bambino spesso non è in grado di verbalizzare e che non troverebbe altra espressione. Il gioco può concretizzare speranze e timori e costituire un valido elemento sul quale impostare la terapia stessa che prevede il riconoscimento, l’accettazione e il lavoro su quello che il bambino prova. Spesso dimentichiamo che lavorare con il bambino è abbastanza recente come concezione. Fino all’inizio dell’800 il bambino veniva visto come un piccolo ‘estratto’ dei genitori e si è invece cercato di relazionarlo dapprima con se stesso e con i propri vissuti (psicanalisi) in seguito con l’ambiente nel quale il bambino stesso cresceva. A questo proposito è interessante la posizione dello psicologo britannico John Bowlby (1907-1990) che, tracciando una storia del lavoro coi bambini, in uno studio commissionato dall’OMS, pubblicato nel 1951 col titolo Maternal Care and Mental Health, sancì questo:
Riflettere sul bambino e sulla sua storia, per cercare le origini delle difficoltà psichiche dell’adulto, ha rappresentato una svolta fondamentale nella storia della psichiatria e della psicoterapia. (…) Tradotto in centinaia di lingue, diffuso ampiamente in tutto il mondo, il rapporto commissionato a Bowlby dall’Organizzazione mondiale della Sanità rappresenta da molti punti di vista un simbolo efficace di questo passaggio decisivo. Smettendo di considerare le difficoltà del bambino come una conseguenza diretta del suo ‘essere in un certo modo’, sfatando i miti costruiti dalla medicina ottocentesca sull’eredità biologica del carattere, dell’intelligenza e delle qualità morali, le ricerche riassunte da Bowlby proponevano di collegare i comportamenti diversi del bambino, dal loro primo manifestarsi al loro eventuale cristallizzarsi, in sintomi o difetti, alla situazione concreta in cui egli viveva. Negli istituti o a scuola, in ospedale o in famiglia, il bambino viene percepito e presentato, da questo momento in poi, come un essere caratterizzato soprattutto dalla dipendenza affettiva e dal bisogno di adattamento a contesti che egli può contribuire a mantenere (…) ma su cui non ha comunque capacità di decidere.
Cosa discende da queste considerazioni?
Il consiglio che discende da questa considerazione è molto semplice. Nessun operatore sociale (e, dunque, nessuno psicoterapeuta) dovrebbe accettare di rispondere a quesiti specialistici relativi a un bambino senza esaminarlo nel vivo della relazione che egli ha con il suo ambiente. Nessuna decisione andrebbe presa relativamente a un bambino, di conseguenza, senza tener conto in via prioritaria dell’effetto che essa avrà nel contesto in cui il bambino è posto. [1]
E’ fondamentale dunque conoscere la situazione familiare all’interno della quale il bambino vive e basarsi su questa per capire le paure o le speranze che animano un bambino. Ed è per questo motivo che, quando mi viene chiesto un appuntamento per un bambino, il primo incontro viene fissato coi suoi genitori. Questo permette di farmi un quadro della situazione familiare e di poter meglio calibrare l’intervento col bimbo stesso. Insomma, saranno pure piccoli ma credo che le nostra attenzione e la nostra sensibilità debba necessariamente essere molto grande.
Che ne pensate?
A presto…
[1] Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pag. 194