Ho aspettato prima di decidere di pubblicare questo post. Siamo nuovamente ad un caso di cronaca che, coinvolgendo una persona molto famosa, assurge in qualche modo a simbolo, ad archetipo, di aspetti che sembrano riguardare tutti noi. Mi riferisco alla morte di Whitney Houston, avvenuta a Los Angeles il 12 di Febbraio. Come avviene spesso in questi casi, non sono ancora chiare le ragioni della morte della cantante, nota in tutto il mondo. Al momento non si sa se qualcuna delle sue dipendenze, o qualcuna delle sue debolezze, sia stata causa della sua morte. Rimane, come al solito, forte l’eco di una vicenda umana nella quale ‘l’avere tutto’ si scontra con una fine solitaria e per molti versi ingloriosa. Ed è proprio su questo che colpisce la vicenda. Una persona che aveva tutto sembra non reggere alla sua stessa vita, ai suoi stessi doni, a quelle benedizioni, come per esempio la splendida voce della quale la Houston era dotata.
Ecco, credo sia proprio questo il punto. Il fatto di vedere gli assoluti punti di forza dell’altro ci fa, spesso, dimenticare le loro debolezze. Come se queste persone, forti della loro fama o del loro successo, potessero non soffrire o potessero estraniarsi dalle paure che sembrano invece avvolgere noi. E la loro fragilità, quando deflagra, ci colpisce maggiormente. Per tutti può arrivare un momento nel quale le debolezze vengono in qualche modo a galla e ne riusciamo a scorgere i contorni. Nel mondo distorto nel quale viviamo, questo viene percepito come un limite, come un ostacolo. Quando, come nel caso della Houston percepiamo una persona così forte, così intoccabile, la idealizziamo e proiettiamo su di essa tutti quelli che sono i nostri desideri di essere forti, intoccabili, sempre a posto. Idealizziamo talmente tanto queste persone, che entrano sempre più a far parte della nostra quotidianità grazie a mezzi di comunicazione, che non vogliamo neanche vedere le loro debolezze, convinti che siano delle sciocchezze rispetto al loro essere ‘larger than life’. Quando poi queste debolezze emergono vistosamente, subentra lo scoramento per persone che, pur così ‘fortunate’, subiscono questa sorte. Credo che la via di uscita da questo meccanismo di frustrazione auto-alimentante, sia quello di riconoscere le possibili paure, i possibili punti di debolezza in noi. Solo con questa consapevolezza potremo vedere e comprendere quelli degli altri e riconoscerli, magari senza giudizio e senza condanna. E senza idealizzazioni.
Se non ci abituiamo od alleniamo a riconoscere queste parti in noi, avremo difficoltà nel riconoscerli nell’altro, e continueremmo ad attribuire gli avvenimenti a motivi superiori o esterni (droga, alcol, sfortuna…), come se queste non fossero le conseguenze delle nostre debolezze, ma le cause. Nel momento in cui avremo la costanza di farlo, potremmo riconoscere l’universalità di certi movimenti, di certi accadimenti. Che vanno al di là di essere stati benedetti da una voce magnifica.
Solo così credo si possa affrontare il dolore per l’umanizzazione dell’altro. Magari senza farci abbagliare dallo scintillio che sembra avvolgere la vita di alcune persone. Persone che, al netto della loro fortuna, rimangono fondamentalmente esseri umani.
*…con qualcuno che mi ami…(Wanna dance with somebody, Whitney Houston, 1987)
A presto…
Fabrizio
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