Se torniamo per un momento alle tre regole, possiamo vedere come il sistema familiare sia stato destabilizzato da una versione alternativa del loro racconto e gli sia stato ‘impedito’ di procedere continuando nel mito condiviso per il quale il figlio costituisse l’unico contrasto all’interno della famiglia. Questa sorta di disvelamento riuscì in qualche modo a far riposizionare tutti gli attori in gioco, padre, madre e figlio, su posizioni diverse rispetto a quelle iniziali. Il forte attrito familiare non era solo del figlio ma, anzi, coinvolgeva molto più il livello genitoriale e di coppia. Il figlio si ritrovava in qualche modo ad agire questa frizione, attuando dei comportamenti che non gli erano propri neanche a detta dei genitori. Le sedute successive servirono per stabilizzare la presa di coscienza di questa situazione, servirono a tutti e tre i protagonisti ad accettare la situazione tra loro, farla emergere e sopratutto potersi confrontare in merito, anziché fingere che non esistesse e che non stesse provocando lacerazioni così forti.
Il ruolo del terapeuta all’interno di questo processo è quello di agevolare e proporre una visione alternativa di quello che sta succedendo: il terapista non ricerca l’ipotesi più plausibile, non ritiene di avere ragione nella sua interpunzione dei fatti, si propone di creare e offrire delle ipotesi alternative, delle connessioni diverse tra gli eventi per sbloccare la famiglia da una interpretazione rigida che non permette la risoluzione del problema. È in questo processo di punteggiatura che si fa un ampio uso della ridefinizione [1]. Questo è uno degli elementi maggiormente interessante, perché permette, sia nelle terapie familiari sia nelle terapie individuali, di svincolare la famiglia dal racconto che si è data e che costituisce un blocco e una restrizione nella sua ulteriore evoluzione. Un nuovo racconto condiviso tra i membri permette la ridefinizione di una serie di fattori: ruoli, percezioni, collegamenti, relazioni. Dovendo riassumere tutte queste funzioni in un termine credo potrebbe essere senso. Il senso di quello che succede, il senso di come sia organizzata la famiglia (o la vita dell’individuo!) viene ricostruita a partire da considerazioni diverse rispetto a quelle con le quali la famiglia stessa è arrivata in terapia. Immaginate, nel caso della famiglia raccontata, come possa essere stato liberatorio per il figlio poter scrollarsi di dosso la responsabilità di tutto il malessere che circolava all’interno della famiglia e sentirsi come parte di quello che stava succedendo a livello più ampio e che coinvolgeva elementi che andavano ben oltre le sue frequentazioni o il suo rendimento scolastico oppure a come dev’essere stato importante, per quanto doloroso, per i genitori poter discutere apertamente del nuovo assetto che si stava prospettando per la loro famiglia.
La famiglia viene in terapia con un’ipotesi che organizza il suo rapporto con la realtà; compito del terapista è impedire che questa perseveri nelle premesse. Non si tratta certo di sostituire l’interpunzione della famiglia con un’ altra più ‘corretta’ quanto di proporre varie letture perché la famiglia a prendere a organizzare i dati [1].
Nel nostro caso, non si tratta quindi di dare una ‘versione corretta’ di quello che sta succedendo, quanto di proporre una versione alternativa a quello che viene portato, una nuova visione che permetta loro di uscire dall’unico racconto di senso che si sono autorizzati a vivere. Torniamo a questo punto alla domanda iniziale: abbiamo forse curato la famiglia? L’abbiamo guarita? Curare o guarire sono termini che presuppongono riportare qualcosa o qualcuno da uno stato di malattia ad uno stato di sanità. Possiamo dire di avere fatto questo? Probabilmente no, non si è trattato di curare quanto di agevolare un percorso in un momento evolutivo specifico della famiglia o dell’individuo. Più che di cura, allora, sarebbe necessario parlare di una sorta di processo accompagnatore. Utilizzando un’immagine, mi piace immaginarlo simile al compito che ha un’ostetrica quando aiuta una donna nel parto: non la sta guarendo dalla gravidanza, la sta accompagnando ed aiutando all’interno di un processo che determina l’enorme cambiamento che sta coinvolgendo la sua vita.
Questo è uno degli enormi obiettivi della terapia: un accompagnamento consapevole, attento e partecipe nel percorso di cambiamento che una famiglia, o un individuo, decidono di affidarti. Un percorso che porta in qualche modo alla ristrutturazione della prospettiva di vita dell’individuo che decide di fidarsi di noi.
Credo sia una meta, un traguardo decisamente più appassionante di quello di voler guarire una famiglia (o una persona).
Che ne pensate?
A presto…
[1] Boscolo, L., Caille, P., et al. (1983), La terapia sistemica, Editore Astrolabio, Roma, pp. 46-47
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