Il film che voglio raccontarvi in questo post è Manderlay (2005) del regista Lars Von Trier. Il film è ambientato negli Stati Uniti, cronologicamente negli anni Trenta, gli anni della Grande Depressione. La protagonista è Grace che, con il padre, arriva nella cittadina di Manderlay dove si accorge ben presto, che la schiavitù non è stata abolita e vige ancora. Grace decide di restare nonostante le pressioni delle persone con le quali è giunta per cercare di portare una idea più giusta di quella che dovrebbe essere la società. Il film si gioca essenzialmente su questo contrasto. Può una cosa ‘giusta’ per noi essere imposta comunque su una serie di regole che, per quanto accettate, appaiono ingiuste agli occhi di un estraneo? Sebbene l’innovazione possa essere positiva, non è forse un imposizione se dobbiamo costringere gli altri a seguirla? Sono interrogativi che mi affascinano nel momento in cui mi rendo conto che talvolta ‘fare del bene’ sia in realtà non solo una categoria di pensiero che imprigiona, ma anche una imposizione nei confronti dell’altro. Questo è un aspetto che spesso appare in terapia. Posso io, tentando di fare del bene, impormi su quello che è il volere, la vita dell’altro? Io, naturalmente, credo di no. Il film è abbastanza complesso e molto spiazzante. Per chi di voi non avesse mai visto un film di Von Trier, l’esperienza può essere abbastanza deludente. Non c’è set, tutti gli ambienti sono disegnati con poche linee in terra e caratterizzati da qualche oggetto. Il set ha una funzione puramente rappresentativa e simbolica. Non è vero e non vuole esserlo. Come se la veridicità di quello che viene rappresentato non avesse bisogno di ulteriori agghindamenti. Uno dei quesiti che dominano il film è, secondo me, quello sulla propria identità. Chi si può essere se non si è noi? Quanto ci vuole a ristrutturare la nostra immagine? Grace, ad un certo punto, riesce a liberarare gli schiavi e a farli essere dei cittadini liberi. Privati dell’immagine che hanno sempre avuto di se stessi, gli schiavi si trovano nel dilemma di dover decidere chi essere ora. Come se, ad un certo punto della nostra vita ci dicessero di cambiare nome. Ma io sono Fabrizio, come posso essere altro? I quesiti coinvolgono la riorganizzazione di tutta la loro esistenza. La regola era di mangiare alle sette. A che ora si cena adesso? La differenza riguarda anche la possibilità di potersi pensare come indipendenti rispetto ad una regola da rispettare. La libertà non è solo una conquista. E’ anche una grande assunzione di responsabilità. Responsabilità delle proprie scelte. Delle proprie vicende. Della propria vita. Non tutti vogliono prendersi questa responsabilità. Alcuni preferiscono che siano altri ad occuparsene. E allora, quanto il desiderio di liberarli è di Grace e quanto un reale desiderio degli schiavi? Come possiamo definirlo? Una liberazione? O un imposizione? E ancora l’imposizione come esistenza di regole. Chi semina il cotone se non c’è nessuno che lo impone? Questo anche se il frutto del lavoro è, questa volta, dedicato a loro. Come se non fosse possibile in alcun modo una nuova ristrutturazione di prospettiva. Se nessuno lo ordina non è possibile eseguire. Quando si può ordinare per se stessi? Questa impossibilità di cambio di prospettiva è perfettamente simboleggiata anche in un’altra scena del film: si parla di un albero che si trova nel giardino della signora che si occupava dell’ordine all’interno della piantagione. Nessuno pensa di tagliarlo perché l’albero è della signora e, anche se ormai è morta, nessuno può pensare di toccarlo. Come se fosse una cosa immutabile. L’albero è il simbolo dell’impossibilità di cambiamento. Nel momento in cui noi siamo prigionieri di queste regole, talvolta regole non scritte ma ben più forti di leggi codificate, non abbiamo la possibilità di essere liberi. E allora la schiavitù non è solo concreta, reale, storica, ma anche personale, interna, psicologica, tanto che si potrebbe parlare di una consolatoria tirannia della schiavitù. Schiavitù mentale. Si innesta allora il tema di quanto la schiavitù abbia vita facile nel momento in cui si innesta sulla schiavitù psichica. Non intendo certo, con questo, giustificare lo schiavismo perpetrato su milioni di persone quanto voler riflettere su quanto questo possa prolungarsi nel momento in cui si innesta su istanze personali.
Il vero capovolgimento di prospettiva si ha, però, quando apprendiamo che la ‘legge di Mam’, la donna che si occupava della piantagione, era stata scritta da uno degli schiavi insieme a Mam per tenere le cose così com’erano dopo la guerra di secessione. Il mondo non era pronto ad affrontare gli schiavi liberati. Lo schiavo che l’ha scritto dice che tutti alla fine lo sapevano e l’ha fatto per il bene di tutti. Dov’è allora il confine tra coloro che la schiavitù esercitano e coloro che la schiavitù interiorizzano? Forse la distinzione può non essere così netta come sembrava in un primo momento. Forse siamo tutti alternativamente schiavi e schiavisti. Vittime e carnefici. Grace, alla fin fine, cerca di imporre la democrazia. Viene allora spontaneo chiedersi: chi può scegliere per il bene dell’altro? Chi, anche mosso dalle migliori intenzioni, può presupporre cosa sia corretto per l’altro? Questa rivelazione fa assumere a tutto una nuova prospettiva e quello che sembrava imposto sembra ora benevolo, fatto più per proteggere che per intrappolare. Insomma un film complesso, con molti livelli di lettura (tra i quali neanche cito gli evidenti riferimenti all’esportazione della democrazia, ossimoro per indicare l’occupazione americana dell’Iraq), che vertono sulla costruzione di una propria identità e sul difficile rapporto con il cambiamento. Un film complesso ma assolutamente consigliato.