FILM: Stelle sulla terra

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Qualche tempo fa ho visto un film particolarmente bello ed indicato per coloro che si vogliano occupare di disturbi dell’apprendimento. Il titolo del film è Stelle sulla terra (Taare Zameen Par) ed è diretto dal regista indiano Aamir Khan. Il film racconta la storia di Ishaan, un bimbo di otto anni, che ha un rapporto complicato con la scuola e, in generale, con quasi tutte le persone che lo circondano, che non capiscono perché si ostini ad essere così poco amabile. La verità è che Ishaan è affetto da DSA, disturbo specifico di apprendimento, ma senza nessuna diagnosi specifica. Non compreso e deriso per la sua difficoltà, Ishaan si trova a vivere un’esperienza scolastica altamente frustrante. Il bimbo infatti, non riuscendo a comprendere cosa viene spiegato e fatto a scuola, rimane molto indietro rispetto ai compagni e gli insegnanti, poco attenti alle sue esigenze, si chiedono perché non possa essere come gli altri. Ovviamente, ricevendo questo stimolo dagli adulti, anche i suoi compagni lo prendono in giro. Le difficoltà di Ishaan non sono limitate al contesto scolastico: anche all’interno della sua famiglia non gode di molta comprensione se non da parte della mamma, che però non riesce a capire come comportarsi con lui. Il padre è particolarmente severo ed è molto arrabbiato per il fatto che non sia ‘perfetto’ come il fratello maggiore. Questo continuo paragone non fa che accentuare le difficoltà di Ishaan anziché essere stimolo per la sua crescita. Questa rimarcata polarizzazione tra i due fratelli (fratello grande=buono, fratello piccolo=cattivo) è ulteriore fonte di frustrazione e quindi di rabbia del bimbo. Oltretutto viene spesso colpevolizzato perché la madre, per seguirne l’educazione, è stata costretta a lasciare il suo lavoro. Gli adulti attorno a lui non si rendono conto della difficoltà del bambino e non cercano di attuare delle strategie che possano aiutarlo a ridurla. L’ennesimo episodio nel quale il bimbo viene rimproverato, è causa della sua fuga da scuola. Questo episodio determina una reazione particolarmente dura da parte dei genitori che decidono di mandarlo in un collegio dove pensano che i metodi coercitivi applicati avranno una buona influenza sulla sua educazione.

Il bambino reagisce malissimo a questa novità. Non prende bene il cambio di scuola  l’allontanamento dalla sua famiglia. Inizialmente l’esperienza in collegio è spaventosa: Ishaan non riesce a legare con nessuno dei suoi nuovi compagni ad eccezione di Rajan, ragazzo con un handicap fisico ma anche miglior alunno della classe. Anche in collegio ha rapporti scarsi e conflittuali con gli insegnanti che lo giudicano stupido.

In un contesto nel quale le regole sono diventate ancora più ferree, Ishaan si sente ancora più trascurato e reagisce isolandosi sempre di più, non riuscendo a comprendere quale possa essere la strategia migliore per rapportarsi con gli altri e con la nuova realtà che lo circonda. Le cose sembrano destinate a peggiorare quando all’interno della scuola arriva un nuovo insegnante il maestro Ram Shankar Nikumbh. Da subito il maestro sembra molto più sensibile e molto più attento alle esigenze dei suoi alunni. Non preoccupato unicamente del rispetto delle regole, il suo metodo educativo sembra finalizzato a stimolare la fantasia e la creatività dei suoi alunni per quanto questo metodo sia inizialmente malvisto dei suoi colleghi e dalle autorità scolastiche. L’inizio del rapporto con Ishaan è molto complicato e il bimbo, forte delle esperienze particolarmente negative con gli altri insegnanti, si tiene a distanza anche dall’attività del nuovo maestro. Ma l’attenzione e la costanza di quest’ultimo iniziano, lentamente, a fare breccia nel cuore del bambino che si sente per la prima volta compreso e accettato per quello che è e non screditato per quello che gli altri si aspettano sia. Assistiamo così alla costruzione di un rapporto meraviglioso basato sulla fiducia e sulla comprensione capendo più avanti nel film il motivo per il quale il maestro sia così bravo. Mi fermo qua per non svelarvi troppo della trama. Spero di avervi incuriosito abbastanza per guardarlo.

Il film è interessante perché fornisce una perfetta rappresentazione delle conseguenze che possono subentrare nel momento in cui l’esperienza scolastica diventi particolarmente frustrante per un bambino. Le varie strategie che gli adulti intorno a lui cercano di attuare si rivelano profondamente fallimentari perché ognuno di loro parte da ciò che il bambino DEVE fare senza minimamente preoccuparsi di ciò che il bambino sia. Nessuna persona può essere collaborativa, fiduciosa e aperta nel momento in cui si sente intimamente rifiutata, esclusa e non accettata. Se gli adulti intorno a lui deridono, prendono in giro, marcano in continuazione la sua incapacità di stare al passo con gli altri o di non essere bravo come gli altri, aumentano questo divario spingendo il bambino all’isolamento. Necessariamente, all’isolamento e alla non accettazione seguirà la rabbia. E da qui comportamenti etichettati come devianti.

La grande scoperta avviene nel momento in cui ci si avvicina al bimbo partendo da noi stessi, dal bambino che noi stessi siamo stati, dalle esperienze che abbiamo vissuto, non dimenticando quanto può essere frustrante, quanto può far arrabbiare l’essere ignorati dagli adulti che ci circondano. Solo partendo da noi riusciamo a contattare l’altro. Solo se noi facciamo esperienza di ciò che l’altro prova possiamo comprendere i suoi sentimenti. In questo senso uno degli episodi più rappresentativi avviene quando il maestro fa sperimentare al padre di Ishaan cosa significhi la frustrazione di non saper eseguire un compito riuscendo per la prima volta a fargli intuire l’esperienza del figlio. Solo partendo da questo contatto con noi stessi e da questa sensibilità è possibile trovare la chiave di volta per comunicare con Ishaan, e finalmente aiutarlo a superare le sue difficoltà, riuscendo a far finalmente emergere le sue risorse e le sue abilità.

Spero, come detto, di avervi incuriosito abbastanza. Consiglio a tutti i genitori che hanno figli in età scolare, sia con disturbi di apprendimento che senza disturbi di apprendimento, la visione di questo film che costituisce un utile strumento per cercare di avvicinarsi ad un approccio più comprensivo e sensibile al mondo dei più piccoli.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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FILM: Still Alice

Still AliceCosa sono i ricordi e quanto questi influiscono nel definire chi siamo? Cosa succederebbe se li perdessimo? Se le nostre esperienze sono quello che ci rende tali, cosa ne sarebbe di noi nel momento in cui queste, gradualmente, scompaiono?  Cosa accade quando a tutto questo si aggiunge la consapevolezza dell’inesorabilità del declino cognitivo? Sono alcune delle domande venutemi in mente guardando un bellissimo film, Still Alice, diretto da Richard Glatzer e da Wash Westmoreland, interpretato, nel ruolo della protagonista Alice, da Julianne Moore, che grazie alla sua interpretazione vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista. 

Tra le altre cose Richard Glatzer, uno dei registi, ebbe esperienza diretta di cosa poteva implicare questa degenerazione, dato che gli venne diagnosticata la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) durante la lavorazione del film ed è infine morto per le complicazioni della malattia nel marzo del 2015. Il film racconta la storia di Alice, donna determinata, insegnante di linguistica alla Columbia University, una donna che ha costruito tutta sé stessa sul piano intellettivo e cognitivo. Alice ha anche una famiglia, un marito e tre figli Anna, Tom e Lydia. Ed in questa vita all’apparenza perfetta, è la stessa Alice che inizia a rendersi conto di come ci sia qualcosa che non va. Il tutto inizia apparentemente in maniera casuale, dimenticando, come capita a molti di noi, un termine o una parola, e proprio lei, che ha fatto della sua vita una continua ricerca delle nostre doti cognitive, soprattutto per quanto concerne il linguaggio, e quindi la capacità comunicativa delle persone, si trova a dover sperimentare cosa succeda quando una malattia degenerativa dapprima modifichi e poi distrugga del tutto le nostre capacità mnemoniche e, con esse, la nostra intera vita. 

Pur avendo solo 50 anni, infatti, Alice è portatrice di un patrimonio genetico che la espone all’insorgenza precoce del morbo di Alzheimer, una forma di demenza invalidante e particolarmente compromissiva per la vita dell’individuo. Assistiamo così all’inesorabile decadimento intellettuale di una donna prima nel pieno possesso della sua vita. La progressione è sempre più rapida e dimenticare un termine si accompagna al disorientamento spaziale e temporale, al mancato riconoscimento delle cose e delle persone. La veloce discesa nel mondo della patologia aumenta lo scollamento della vita di Alice da quella dei suoi familiari.

Come tutte le malattie, infatti, anche il morbo di Alzheimer ha una fortissima componente relazionale, dal momento che non colpisce la singola persona, ma si ripercuote sulla vita delle persone vicine, provocando conseguenze sulla relazioni sociali dell’individuo il quale, sempre più velocemente, con la perdita della capacità di orientarsi nel tempo e nello spazio, perde qualunque autonomia. I contraccolpi di questa riorganizzazione sono molto evidenti nella vita della famiglia di Alice

L’iniziale amore e comprensione per quello che le succede, lascia spazio anche ad incomprensioni, egoismi e rabbia, in un oscillare profondamente umano di grandezza e piccolezza, aspetti che caratterizzano il modo in cui spesso affrontiamo le fasi altalenanti della nostra vita. 

Il film è esemplificativo per la capacità che ha di introdurci nella complessità e difficoltà della vita di una famiglia ‘normale’ nella quale le piccole beghe tra sorelle e i trasferimenti per la carriera lasciano il posto ad un vero e proprio dramma, al rovesciamento di ruoli, alla necessaria riorganizzazione familiare dovuta alla malattia. Mi ha personalmente permesso di focalizzare l’attenzione sul dramma che le persone colpite dal morbo di Alzheimer devono sopportare, lo sfaldamento di ogni loro ricordo, il frantumarsi di ogni autonomia, di ogni piccola certezza di tutti quei singoli punti di riferimento che le persone costruiscono con fatica per orienterai all’interno della loro stessa vita. Il film descrive bene la mancanza di capacità di messa a fuoco del senso della vita dell’individuo, l’impossibilità di una consapevolezza di se stessi che viene a sfumare dolorosamente in un continuo presente mai trattenuto. Una patologia che solo in Italia colpisce circa 500.000 persone e le loro famiglie e che, dato l’allungarsi medio della vita degli individui, è destinato a colpire un sempre maggior numero di persone, una malattia per la quale a tutt’oggi non c’è alcun tipo di cura, una patologia della quale, mi accorgo, sapevo troppo poco. Questa, secondo me, è la grandezza di un film: non lasciare indifferente lo spettatore e spingere l’attenzione di chi guarda verso il tema proposto. E Still Alice credo sia in grado di farlo.

Come sempre chi l’avesse visto e volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure commentando il post. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

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FILM: Hungry hearts

hungry heartsEccomi a raccontarvi uno dei film forse più disturbanti visto da un po’ di tempo a questa parte. Il tema è abbastanza complesso e ricco di sfaccettature. Un film che mi ha colpito molto sia per il tema trattato, che per la bravura di regista e attori.

Il film in questione si intitola Hungry hearts, letteralmente Cuori affamati, scritto e diretto da Saverio Costanzo, e interpretato con straordinaria bravura da Alba Rohrwacher nel ruolo di Mina e Adam Driver nel ruolo di Jude.

Il film racconta la storia di Mina e Jude, due giovani il cui primo incontro avviene in maniera abbastanza imbarazzante ma che costituisce una sorta di presagio a quello che capiterà tra i due. Nella prima parte, viene raccontata la genesi del loro rapporto, dall’episodio nel bagno del ristorante giapponese fino alla costruzione del loro rapporto. 

Dopo qualche tempo arriva con loro, ma soprattutto tra loro, un figlio. Questo fattore costituisce il punto di rottura nei rapporti tra i genitori. Il bimbo, anziché costituire un ulteriore legame nella relazione genitoriale, si frappone fra i due genitori diventando causa scatenante delle ossessioni della madre. Mina, inizia gradualmente a chiudersi nel rapporto col figlio tagliando fuori il mondo esterno sotto tutti i punti di vista. Per cercare di garantire la purezza del figlio, arriva a non fargli mangiare altro se non cibo di sola origine vegetale che lei stessa coltiva su una sorta di serra sulla terrazza di casa. Il bambino non viene portato mai fuori: il mondo esterno è percepito come ostile, pericoloso, avvelenato. Da evitare. La loro casa diventa un piccolo mondo asfittico, deformato nelle stesse inquadrature dei personaggi che assumono contorni sformati ed alterati. Anche la relazione tra madre e piccolo diventa sempre più esclusiva e in Mina aumentano le difficoltà anche a far toccare il bambino dal padre che, venendo ogni giorno a contatto col mondo esterno, è sempre più contaminato. Il rapporto con Jude inizia a farsi complicato. La vitalità che sorreggeva il loro rapporto si è tramutata ormai in un clima di pericoloso sospetto, nel quale entrambi attribuiscono all’altro la pericolosità per la salute del bambino. La loro vita di coppia, finanche la loro vita sessuale è tramontata sotto la scure pesantissima dell’ossessione. Jude si rende conto del fatto che il comportamento di Mina è sempre più pericoloso e riesce, con una sorta di sotterfugio, a far visitare di nascosto il bambino da un medico che ne constata il grave stato di denutrizione e il mancato accrescimento. Questo provoca una sempre più forte perdita di fiducia tra entrambi i genitori, una perdita di sfiducia che sfalderà inesorabilmente il noi coniugale a favore di due io contrapposti, sublimati nelle frasi di Mina ‘Io so cosa è meglio per lui’ o in ‘tu hai fatto male a mio figlio’. Fine del noi, fine del nostro. Il contrapporsi di due visioni completamente differenti su cosa sia proprio fare, sfocerà in un esito che evito di raccontarvi per non rovinarvi il film.

Come dicevo, il film mi ha particolarmente colpito per l’apparente discrasia che esiste tra le intenzioni della mamma, quella di fare il bene del proprio figlio, ed i risultati manifesti. La nascita e la crescita del figlio diventano  vere e proprie ossessioni: il mantenimento della purezza del bimbo diventa lo scopo ultimo dietro al quale deve attendere tutto, persino la sua vita, tanto che si annulla nella crescita di questo bambino.

Ho letto che molte persone, in questo film, hanno visto una critica all’alimentazione vegetariana soprattutto se destinata ai bambini. Non sono d’accordo, non credo sia questo il punto principale della narrazione. Credo che il tema principale sia: cosa succede quando un figlio diventa l’unica ragione di vita? Cosa accade quando l’amore è solo un pretesto e un figlio è solo il modo per creare un senso alla nostra vita? In tutto il film aleggia una fortissima solitudine che accentua ancora di più lo spaesamento dei protagonisti. Ambientato a New York, alienante di per sé come ogni grande metropoli, i protagonisti si trovano a muoversi da soli, non circondati da una rete di relazioni né amicali né familiari che possano costituire per loro motivo di sicurezza. Solo la mamma di Jude avvicina i due giovani nella loro vicenda. La storia familiare di Mina è molto sfilacciata. Orfana di madre, ha un padre che non vede mai e con il quale non è in buoni rapporti. Questa potrebbe essere una delle chiavi che possano far ‘comprendere’ ciò che poi Mina attua con suo figlio: un bimbo che ci ama come la cosa più preziosa del mondo non può che riscattare una vita nel quale l’amore è stato così assente. E nessuno correrebbe il rischio di inquinare la sola fonte di amore che sente di avere. Ed è necessario esercitare un forte controllo sulla fonte, un fortissimo possesso, in grado di riscattare una vita che ha avuto così poco emotivamente.

Ripeto, un film profondo e disturbante, sicuramente un film che non lascia indifferenti e costringe a riflettere su quelle che sono le conseguenze dell’amore, o meglio sulle conseguenze del mancato amore, quando tutto quello che sembra dare un senso alla nostra vita è quello di aggrapparsi all’amore delle persone che riescono a fornircelo nel modo più incondizionato: i bambini. Finendo, in questo attaccamento, per perdere di vista il valore più importante: il loro bene.

Se l’aveste visto e voleste condividere le vostre impressioni lasciate un commento o contattatemi per mail (fabrizioboninu@gmail.com). 

A presto…

Fabrizio Boninu

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FILM: Requiem for a dream

Requiem-for-a-Dream-Wallpaper-Il film del quale voglio parlarvi oggi è uno dei film più descrittivi di quello che è la dipendenza in ogni suo aspetto. Requiem for a dream (2000) diretto da Darren Aronofsky, è la lenta discesa di ognuno dei quattro personaggi principali nella sua personale dipendenza. Il titolo è abbastanza esplicativo di quello che verrà mostrato: il requiem per ogni sogno, per ogni speranza e per ogni illusione delle persone che mostra. I protagonisti sono la signora Sara Goldfarb (Ellen Burstyn) madre e casalinga, completamente e totalmente dipendente dalla sua televisione e dal figlio Harry (Jared Leto), unico scopo della sua vita. Harry, a sua volta tossicodipendente, è molto legato all’amico Tyrone (Marlon Wayans) e alla fidanzata Marion (Jennifer Connelly), tossicodipendenti a loro volta.

Ognuno dei protagonisti si lega alla dipendenza dell’altro e ha come obiettivo il proprio riscatto, che persegue con ogni mezzo fino all’autodistruzione, al requiem del titolo per il sogno di farcela. Il film è secondo me perfetto per descrivere non solo la dipendenza, quanto l’alienazione, sia nei confronti degli altri che nei confronti di se stessi, che il mancato riconoscimento di queste debolezze porta a non affrontare.

La madre, Sara, è del tutto presa dalla realtà fittizia dei suoi programmi televisivi, dai continui gesti stereotipati che scandiscono il passaggio del tempo in una routine quotidiana ormai insignificante, mentre coltiva la speranza e il desiderio di partecipare al suo programma preferito e, tramite questo, avere il suo personale riscatto da una vita solitaria nella quale non le è rimasto nulla dopo la morte del marito. In vista della ipotetica partecipazione ad uno dei suoi programmi tv, Sara coltiva una vera e propria ossessione per il suo aspetto fisico, volendo rientrare in un abito che non indossava più da tanto tempo. Questo obiettivo assurge a diventare idolo della sua stessa esistenza, unico e inutile scopo di una vita vuota. Per ottenere l’agognato risultato, si rivolge ad un medico che le fa assumere (e sviluppare un’altra dipendenza) delle anfetamine, farmaci anoressizzanti.

Nessuna delle amiche della donna interviene, nessuna (ma questo accade di continuo nel film tra i diversi personaggi) si rapporta con la persona reale quanto con le aspettative che hanno nei confronti dell’altro. L’alienazione è ben descritta dal rapporto che Sara ha con il medico che ne segue la dieta: in nessuna occasione la degna di uno sguardo: il loro rapporto è dato semplicemente dalla compilazione della ricetta per le pillole.

La relazione di Sara col figlio Harry è sullo stesso piano: alienante. Sara non sembra chiedersi mai chi sia/cosa faccia il figlio ma proietta su di lui i suoi desideri (che lavori, che trovi una fidanzata, che abbia una vita ‘normale’); a sua volta il figlio non si rende conto dell’alienazione della mamma nel suo isolamento, mirando semplicemente a farla felice cercando di comprarle una televisione migliore. Non esiste nessuna famiglia, non c’è una relazione: il loro è l’incontro di debolezze, speranze e desideri che si proiettano sull’altro. La ragazza di Harry, Marion è un altro esempio di come la famiglia sia del tutto assente: proviene da una famiglia benestante (che non compare mai nel film) il cui unico scopo è mantenerla e pagarle le cure da uno psichiatra. Anche lo psichiatra, così come il medico che segue la mamma Sara, è una figura misera in questo quadro, un approfittatore delle debolezze altrui. Harry e l’amico Tyrone hanno come unico scopo quello di riuscire a diventare spacciatori sempre più grandi e affrancarsi da una vita fallimentare diventando ricchi (vedi le fantasie risarcitorie ricorrenti di Tyrone con la madre e le sue promesse che ‘ce l’avrebbe fatta’). 

Il risultato, ovviamente, sarà di tutt’altro tipo: una lenta discesa nell’inferno personale di ciascuno di loro, una totale incapacità di accettare i propri limiti e le proprie possibilità, un continuo stordirsi con tutto (droga, tv, sesso…) qualunque cosa permetta loro di allontanarsi da quello che sono e possa far sognare realtà che non esistono, vite degne di nota, possibilità di riscatto nate e cresciute dall’essere qualcun’altro piuttosto che riuscire a partire da se stessi.

Questa scissione tra chi si è e cosa si vorrebbe essere è data anche a livello visivo dall’uso che il regista fa del cosiddetto split screen, la divisione in due diverse inquadrature dello schermo. I protagonisti sono spesso scissi tra una realtà immaginaria e consolatoria e una verità che non accettano e che rifuggono. Un continuo alternarsi tra vita reale e speranza, tra mondo concreto e illusione che trova il suo apice nei deliri della madre ridicolizzata dal suo scintillante alter-ego televisivo e totalmente frastornata dalle sue paure nel mondo reale, del tutto in balia della sua separazione, incapace di permettere un dialogo tra le sue varie anime che acquistano spessore e che arrivano a scontrarsi frontalmente.

Il film è diviso in tre episodi intitolati Summer (estate), Autumn (autunno) e Winter (inverno). L’inverno è l’inverno delle anime, anime diventate completamente fredde, completamente sorde a se stesse, impegnate nella ricerca di qualcosa o di qualcuno esterno loro che possa far sentire il senso della propria vita che si avverte perduto. All’inverno non segue nessuna primavera, nessun risveglio, nessuna rinascita. La lenta discesa è compiuta, l’alienazione è arrivata all’apice: ognuno di loro non ha più idea di chi sia ne del proprio senso. Un film assolutamente cupo, nelle atmosfere, nella fotografia, nelle luci, nella splendida colonna sonora, un film crudo su cosa siano le dipendenze (emblematico, in questo senso, il fatto che lo spaccio avvenga all’interno di un supermercato, moderno luogo delle nostre molteplici dipendenze, quali esse siano: alimentari, igieniche, ludiche…).

Un film estremo che spinge a riflettere sulla dipendenza, sulle diverse forme di dipendenza e su come queste abbiano la capacità di allontanarci da noi stessi, nel portare il baricentro del nostro equilibrio sempre più lontano fino a farci crollare, fino a farci collassare in un inverno perenne.

Qualora l’aveste visto e voleste farmi sapere la vostra opinione, lasciate un commento o scrivetemi (fabrizioboninu@gmail.com)

A presto…

Fabrizio Boninu

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Carnage

CarnageIl film del quale voglio parlarvi oggi si intitola Carnage, è del 2011 ed è diretto dal noto regista Roman Polanski. Il film ha un cast a dir poco azzeccato: una coppia di genitori, la coppia apparentemente più realizzata, è interpretato da Kate Winslet e Christoph Waltz, rispettivamente Nancy e Alan Cowan, mediatore finanziario e avvocato, mentre l’altra coppia vede assieme Jodie Foster e John C. Reilly rispettivamente Penelope e Michael Longstreet, l’una scrittrice e l’altro venditore di articoli per la casa.

Un indizio su quello che il film mostra è dato dal titolo: carnage in inglese significa infatti carneficina. Ed è ad una vera e propria carneficina di educazione, buone maniere, di buone impressioni, apparenze ed esteriorità ma sopratutto di genitorialità quella a cui assistiamo. La trama è apparentemente molto semplice: durante una lite al parco, che noi spettatori appena intravediamo all’inizio del film, il figlio della prima coppia, colpisce con un bastone il figlio della seconda coppia. Le due famiglie decidono, perciò di incontrarsi per cercare di capire cosa sia successo e per discutere, da persone civili, in merito a cosa fare con i due ragazzi. La prima coppia, i coniugi Cowan, si recano a casa dei coniugi Longstreet e l’intero film si svolge sostanzialmente nel loro soggiorno. Il film è assolutamente geniale per quanto riguarda la sottolineatura di tutto ciò che dei genitori non dovrebbero fare nella gestione di problematiche relative ad un figlio: pensare solo a loro stessi. Il pretesto dell’incontro per discutere dei ragazzi si trasforma infatti molto velocemente in una vera e propria lotta tra i partecipanti senza nessuna esclusione di colpi. Ognuno di loro ha da ridire sul comportamento dell’altro in un continuo turbinio di alleanze variabili (uomini contro donne, donne contro uomini , donne contro donne, moglie contro mariti mariti contro mogli ecc.) che porta ben presto a mettere in assoluto secondo piano le vicende dei figli per i quali i quattro si erano inizialmente incontrati. Penelope (Jodie Foster) ha una stizza che riguarda il pregiudizio che lei ha sul fatto che gli altri due possano essere buoni genitori con i loro metodi. Il marito Michael diventa una sorta di furia rispetto a tutti i finti buonismi della moglie che poi, alla fine, sbotta in maniera molto pesante rispetto all’altra coppia. Per quanto riguarda Nancy (Kate Winslet) e il marito Alan la prima è assolutamente insoddisfatta del comportamento molto poco presente del marito nei confronti della discussione che si sta svolgendo e del suo continuo rispondere al telefono, mentre il marito ha un atteggiamento tracotante e arrogante su molte delle posizioni che vengono fuori durante la discussione.

La realtà è che ognuno di loro è preso da quelli che sono i suoi problemi personali, rispetto a se stessi e rispetto alla loro vita coniugale. L’incidente con i figli sembra semplicemente lo spunto per fare un bilancio di tutto ciò che sotto la patina di rispettabilità, onorabilità e decoro bolle all’interno della loro vita. Ognuno di loro è impegnato dapprima a salvare le apparenze, poi a negare, infine a vomitare, non solo in senso figurato come vedrete, tutto ciò che li scontenta all’interno della conversazione, ma più in generale della loro vita. Il risultato è assolutamente spiazzante: quattro adulti che, invece che con le mani come fanno i loro ineducati figli, si massacrano l’uno con l’altro con parole forse ben più pesanti e potenti di un bastone.Mi rendo conto di come sia difficile cercare di descrivere il film e ciò che succede. Un insieme di sovrapposizioni di piani formali e informali lo rende difficilmente descrivibile a parole. Basti semplicemente citare la scena in cui Penelope deve accompagnare in bagno Alan: ormai iniziate a crollare le apparenze all’interno delle coppie, lei si preoccupa di cercare di mettere in ordine la casa mano a mano che passa. Di li a poco il vedere il rispettato avvocato Alan Cowan fisicamente in mutande sarà il prologo di quanto poi saranno messe a nudo tutte le debolezze, le fragilità, le incomprensioni, le distanze sia all’esterno che all’interno delle coppie.

Rimane la constatazione del fatto di come una coppia genitoriale impegnata più su temi di coppia, o con così tante e profonde incomprensioni al suo interno, possa difficilmente riuscire a fare ciò che in quell’occasione era chiamata a fare: i genitori.

Solo alla fine le due donne sembrano d’accordo su un fatto: che quello sia il peggiore giorno delle loro vite. Probabilmente è solo il giorno in cui hanno potuto dare voce alla loro profonda insoddisfazione.

Qualora doveste vederlo (o lo aveste già visto naturalmente) fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio

P.s.:  i figli delle due coppie, nella saggezza propria di molti ragazzi, risolvono da soli i lori problemi, senza l’intervento dei genitori!

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The tree of life FILM

The tree of life FILMIl post di oggi riguarda un film molto bello visto ultimamente: The tree of life (l’albero della vita) del regista Terrence Malick (2011). Il film narra la storia della famiglia O’Brien, una famiglia media americana. Questa famiglia è composta dai genitori e da tre figli maschi.
I membri si trovano a dover fare i conti con le storie e i fantasmi stessi della propria famiglia. Già da subito intuiamo come il padre rivesta una funzione genitoriale assolutamente autoritaria, nel quale il potere è dato dall’asservimento dei figli a quello che è il suo modo di intendere la vita. La figura del padre ha un che di tragico dal momento che non sembra essere in grado di relazionarsi coi figli in altra maniera che non sia quella del rispetto o dell’imposizione di regole. Il momento nel quale il primogenito lo abbraccia e lui non sa come comportarsi è veramente molto indicativa della sua incapacità ad uscire dal ruolo del padre educatore. Altro esempio: il figlio maggiore suona il piano e questa è una delle passioni del padre. Anche in questo caso sembra più la proiezione sui figli di un proprio desiderio piuttosto che una passione del figlio. La tematica è molto interessante: quanto è pericoloso che i genitori proiettino sui figli i loro desideri e le loro aspettative? Quanto questo non permette di accogliere i reali interessi dei figli?
La famiglia viene sconvolta da un lutto. Non voglio rovinarvi la trama quindi non aggiungerò altro. Posso solo sottolineare come questo momento sia un momento di disvelamento per il padre stesso che, rendendosi conto del peso che alcune sue scelte hanno avuto sugli altri membri della famiglia, si accusa di essere causa dell’evento luttuoso stesso, e si accorge di come la sua colpa è l’aver fatto provare vergogna ma che fondamentalmente quella era la sua vergogna. Il meccanismo di disvelamento è basato sulla proiezione di quelli che sono i suoi sentimenti e che lui sente di aver attribuito all’altro. Possiamo renderci conto che quest’uomo non è incapace di amare: ama nel modo in cui probabilmente anche a lui è stato insegnato ad amare. Sembra un uomo innamorato dei suoi figli e comunica loro il suo amore anche se sembra incapace di lanci di affetto che non siano punitivi, educativi o pedagogici. Costantemente teso a cercare di far capire ai figli come ci voglia una grande volontà per farsi strada nella vita e come se si vuole avere successo non si possa essere troppo buoni. Il suo sembra un desiderio di rivalsa, di riscatto dell’uomo che si costruisce da solo che fa di se stesso ciò che vuole e che non ha bisogno degli altri. Sembra allora incarnare l’archetipo dell’homo homini lupus, dell’uomo che deve farsi largo a forza in una vita cattiva e piena di dolore, nel quale il proprio futuro lo si costruisce a discapito di ciò che avviene. Il simbolo di una vita in cui sopravvive il più forte e che sottomette il più debole.

D’altro canto abbiamo invece la figura della madre. Silenziosa, amorevole, comprensiva, accogliente. L’alter ego perfetto del marito. Quanto lui è severo, tanto lei è comprensiva. Quanto più lui è orientato ad una meta, tanto più lei sembra essere in balia dell’amore per i suoi figli. Il gioco, naturalmente, è un gioco delle parti. Parti nelle quali più il padre sembra assurgere al ruolo della regola tanto più la madre sembra obbedire alle regole di un amore incondizionato. Questa separazione, questa polarizzazione sembra in qualche modo disorientare i figli, soprattutto il maggiore che, spesso sgridato dal padre per come dovrebbe essere e invece non è, gli assicura di assomigliare più a lui che alla madre. In questa polarizzazione possiamo leggere tutte le idiosincrasie delle nostre famiglie nelle quali i ruoli e le aspettative sembrano giocare un ruolo superiore alla persona stessa.

Il film è, per me, particolarmente interessante perché riesce ad unire la realtà del microcosmo familiare che fin qui vi ho descritto, con il macrocosmo della vita stessa. Con una serie di bellissime immagini  viene rappresentata la nascita e l’evoluzione della vita sulla terra, la stessa vita che, con tutti i suoi problemi, tutti i non detti, tutto l’amore e tutta l’incapacità di esprimerlo, la piccola famiglia O’Brien simboleggia. Un inarrestabile albero della vita che inesorabilmente cresce, cambia, muta, costruisce e disfa ogni singola cosa. Un albero della vita al quale, presi a guardare il nostro piccolo orticello, spesso non ci rendiamo conto di appartenere. Un albero della vita che lega e unisce destini di persone apparentemente distanti come i genitori della famiglia O’Brien. Un albero della vita che, nel bene e nel male, forse lega e unisce i destini di tutti noi.
A presto…
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… e ora parliamo di Kevin

... e ora parliamo di KevinIl film del quale voglio parlarvi oggi è un film molto duro sulla famiglia. Si intitola …e ora parliamo di Kevin (2011)è della regista Lynne Ramsay ed magistralmente interpretato da Tilda Swinton e da John C. Reilly nei panni dei genitori del Kevin del titolo, loro primogenito. Il film, come dicevo è un film sulla famiglia ma non per la tutta la famiglia. Racconta della discesa all’inferno dei protagonisti, del lento sfaldamento di una famiglia alle prese con un dramma che diventa, piano piano, più grande di lei. Il film è spiazzante e spiazzante lo è anche nella sequenza temporale dato che non è lineare nello svolgimento, procede per salti con continui rimandi al passato e altrettanti ritorni al presente. Ci viene, in questo modo, presentata la storia della famiglia fin dalla sua origine, la coppia genitoriale. Le scene iniziali del film sono ambientate nella famosa battaglia della Tomatina, la battaglia dei pomodori, che si svolge in estate nella cittadina di Bunol, in Spagna. La luce delle scene è così particolare da far risaltare il colore rosso dei pomodori e renderlo uguale al colore del sangue. Questa caratteristica mi ha colpito molto perché, fateci caso, un oggetto con lo stesso colore, o comunque lo stesso rosso, compare in quasi tutte le scene del film. E’ come se si volesse sottolineare, anche cromaticamente, come il sangue, inteso anche come legame di sangue, sia presente dall’inizio alla fine della storia rappresentata. 
Sostanzialmente il film ruota attorno al rapporto tra il primogenito e il resto della famiglia. Fin dalla nascita sembra essere la madre il membro più spiazzato dall’arrivo del bimbo. Questo si traduce in un rapporto problematico madre/figlio e in una ridefinizione dei ruoli all’interno della coppia dei genitori: da una parte la madre non riesce ad avere, se non con difficoltà, nessun contatto fisico col bimbo e sembra incapace di gestire il rapporto con lui mentre il padre sembra essere molto più vicino e attento a questa esigenza del piccolo. Osservando la madre, si ha l’impressione che abbia più paura che trasporto verso il piccolo. Questa mancanza di contatto e di relazione le fa, in breve perdere il controllo della situazione. Ogni cosa, anche la più piccola e la più quotidiana, è fonte di scontri  e di tensioni e questo, anziché rinsaldare la coppia genitoriale, la divide in ruoli di ‘buono’ e ‘cattivo’ che sembrano essere totalmente parziali. La mancanza di relazione, quindi, non coinvolge solo madre e figlio ma anche i genitori. E’ come se in tutti i membri della famiglia mancasse la capacità di comunicare apertamente, come se tutto dovesse essere sepolto sotto una coltre di finta indifferenza e finta mancanza di problematicità, aspetto che porta a sottovalutare e a non comprendere appieno la situazione nella sua complessità. Una scena emblematica è, per me, quella nella quale, all’ennesimo comportamento del figlio, la madre, innervosita, gli da uno strattone e gli provoca un livido. Il bimbo, al ritorno del padre, non dice nulla, inventa una bugia per spiegare il livido e rafforza una complicità con la madre basata sulla menzogna e non sulla possibilità di parlare.
Nel film viene descritta molto bene questa dimensione, questa incapacità comunicativa che, nello sforzo di cercare di far si che le cose sembrino il più normale possibile, allontana sempre di più tutti i componenti della famiglia. Il fatto di avere un bambino piccolo spinge il padre a proporre il trasferimento dalla città di New York alla campagna, contro il volere della moglie. Anche qua la domanda naturale che potrebbe sorgere è: è possibile che tra loro non abbiano parlato prima, per cercare di capire cosa sarebbe successo alla nascita di un figlio? Questo è il punto nodale, che sta a monte anche rispetto alla nascita di Kevin ed è la modalità di relazione della quale Kevin stesso è vittima. Ancora la nascita della secondogenita provoca una serie di episodi che non attivano una forte funzione genitoriale, ma che, al contrario, spaventano e sembrano rendere ancora più inadeguati i rapporti tra i genitori e i figli. Crescendo il figlio diventa sempre più apertamente problematico, ma questo non porta una generale ridefinizione della famiglia che appare ancora più incapace e ancora meno disposta ad accettare e riconoscere la gravità della situazione.Naturalmente, lo ribadisco, dal mio punto di vista, non c’è un membro malato e altri membri sani: è tutto il sistema familiare ad essere problematico, anche se poi, fisicamente, è solo uno di loro quello che appare ‘disturbato’, ed è il membro che agisce questo disagio che, però accomuna tutti loro. Il disturbo arriva ad un epilogo del quale non vi svelo nulla per non rovinare la trama.
Rimane, a mio avviso, pur essendo duro e disturbante, un film interessante che pone degli interrogativi: quanto siamo responsabili per le cose che avvengono in chi cresciamo? Quanto siamo disposti a non vedere pensando di proteggerci da una sofferenza che è solo rimandata? Nel film, per esempio, viene mostrata la crudeltà di Kevin nei confronti degli animali. Può essere considerato un segnale da prendere in considerazione nel valutare il disagio di un adolescente? Chi si accanisce contro animali può, in seguito, essere pericoloso anche per le persone che lo circondano? Naturalmente il film non fornisce risposte. Crea più dubbi, interrogativi che costringono necessariamente a riflettere sul nostro ruolo, sulle nostre relazioni, sulla nostra capacità di comunicare.
Domande che spesso nascono a posteriori ma che dovremmo imparare a farci prima. Se non avete visto il film, penso che questa frase risulti abbastanza incomprensibile. Spero anche di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a guardarlo.
Nel caso lo vedeste, fatemi sapere che ne pensate.
A presto…
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Animal kingdome

Animal kingdomeIl film che voglio raccontarvi oggi è un film che narra le vicende di una famiglia molto particolare. Si intitola Animal kingdome (2010) del regista David Michod. Il film racconta la storia di Joshua, detto “J” Cody. Il ragazzo, diciassettenne, perde la madre per un overdose e chiama la nonna materna ad occuparsi della situazione. La nonna lo porta in casa sua dove vive con gli altri tre suoi figli, zii di Joshua. L’unico particolare che vi aggiungo è che la famiglia sembra dedita alla criminalità per vivere e sembrano molto ambigui i rapporti tra i membri della famiglia stessa. La famiglia è organizzata all’interno di una confusione e di una ambiguità che colpiscono. Gli zii sembrano, infatti, sebbene tutti e tre adulti, ancora molto figli della signora e sembrano essere tutti in un rapporto di parità tra loro. Anche il rapporto tra la madre e figli sembra essere particolare, morboso. Per buona parte del film non viene spiegato dove sia il padre.

Vi riporto questo film perché credo possa rappresentare molto bene, ovviamente con un esito, quello criminale, che non sempre è scontato in situazioni di questo tipo, quanto possano essere problematiche quelle famiglie nella quale la confusività (comunicativa, relazionale, di ruoli, di funzioni) sembra pervadere tutti i livelli. Diverse scene contengono messaggi assolutamente incongruenti tra loro. Ho già accennato, per esempio, al fatto che questa famiglia sia dedita al crimine. In una scena assistiamo ad un diverbio molto acceso, sul fatto che dopo essere andato in bagno, uno degli zii non si sia lavato le mani. Quali regole funzionano? Solo quelle della famiglia stessa? In una scena successiva li vediamo mentre fumano all’interno di un locale pubblico. Sembra allora che questa famiglia abbia in qualche maniera costruito delle sue regole. E fin qui non ci sarebbe nulla di male dal momento che ogni sistema familiare è portatore di una sua visione e di sue regole. La discrepanza è rintracciabile nel momento in cui le regole della famiglia sembrano assolutamente slegate dal contesto nella quale la famiglia vive o, comunque, slegate dal contesto sociale generale. Questo provoca una sorta di autoreferenzialità assolutamente sconcertante. L’incongruenza di cui parlo viene accentuata da moltissimi episodi all’interno del film: i tre figli della donna si picchiano tra loro quasi fossero ragazzini e la madre li sgrida proprio come se fossero piccoli. Sembra una fotografia congelata di tempi ormai passati. Ma che per questa famiglia sono tragicamente il presente. Oppure le reazioni della donna, quando un amico dei tre viene ucciso dalla polizia. La madre cerca di consolare il figlio che piange proprio come farebbe se lui fosse un bambino.

Anche il racconto della donna su come la figlia (madre di J) sia uscita fuori dalla famiglia assume contorni particolari. La donna spiega come abbia lasciato la figlia per una regola non rispettata in un gioco a carte in cui i giocatori erano ubriachi. Lo racconta con una incongruenza totale tra il modo in cui il racconto avviene e il fatto in sé. Come se stesse parlando di  sciocchezze e non della sua stessa figlia. Questo sistema, nella sua autoreferenzialità, è del tutto isolato dall’esterno. Non solo hanno regole loro, ma nessuno di loro sembra avere una relazione con altre persone. Anzi, nel momento in cui l’esterno entra in casa, il sistema familiare si attiva affinché possa ben presto lasciarlo. Qualunque tentativo del mondo esterno di entrare viene bloccato. Naturalmente vale anche il contrario e viene bloccato nello stesso modo anche qualunque tentativo di uscire da questa famiglia. E in quest’ottica, quella di non poter uscire, di non poter avere autonomia, quel patto non scritto per cui o si sta dentro o si muore, che leggo anche la morte dell’unica figlia uscita di casa, la mamma di J. Perché non sopravvive? Perché estromessa dal suo clan? E la sua morte è forse il modo per far rientrare il figlio e ‘lavare’ così la colpa di essere uscita? 

E la fine è altrettanto tragica di quanto fin qui raccontato. La famiglia non salva e, anzi, porta J a legarsi, in qualche modo in maniera indissolubile con i suoi zii. Ripeto, è un film molto disturbante, violento. Può infastidire molto, quindi ne consiglio la visione solo se si tiene conto della tematica trattata. Credo sia un esempio, un pessimo esempio, di come il mancato confronto, l’interazione e la mediazione di regole, di prospettive diverse, possano portare alla follia di una visione che tutto giustifica e tutto consente. Anche se tutto questo ha come teatro e avviene per la propria famiglia.

A presto…
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Shame

ShameIl post di oggi riguarda un film che riassume perfettamente l’ossessione che ormai la nostra società ha per il sesso. Il film in questione si intitola Shame (2011) ed è del regista Steve McQueen. Il film racconta la storia di Brandon, uomo d’affari newyorchese con un ossessione per il sesso, declinato in tutte le sue varie forme: incontri occasionali, a pagamento, fino ad arrivare a rapporti omosessuali. Quello che colpisce, però, è che in una società che offre sesso sempre più disponibile, visibile, raggiungibile,  il protagonista sia sempre più solo e incapace di stabilire delle relazioni durature con altre persone. In primis la sorella Sissy che, apparentemente insicura e fragile, cerca di stabilire una relazione con lui senza riuscirci. Questa mancata relazione avrà delle conseguenze sulla vita del protagonista ma, come al solito, non voglio svelarvi altro.

Come vi dicevo, il punto secondo me nodale del film riguarda le relazioni. In un momento storico nel quale abbiamo moltissimi strumenti che sembrano favorire ed incentivare  la nascita dell’incontro o la possibilità di una relazione, sembra invece che manchi questa possibilità e che ci si trovi sempre più soli e incapaci di un contatto che possa dirsi profondo. L’offerta abbondante di relazioni occasionali sembra rendere in qualche modo difficile il costruire una relazione stabile e duratura, finanche relazioni riguardanti membri della nostra stessa famiglia. E, nel momento in cui il rapporto si fa stretto e la relazione sembra assumere un carattere più duraturo, le difficoltà relazionali  tornano a galla.  Nel film è emblematica, a questo proposito, la scena nel quale Brandon ha un rapporto con una persona che sembra veramente interessata a lui.

Lo sconforto per questo turbinio di incontri induce il protagonista ad alzare sempre di più il tiro, come in una sorta di escalation che sembra poterlo condurre ad una relazione più matura. Ma questo non avviene, è tutto sembra vertere sull’ossessione, ossessione che sembra non lasciare spazio per nient’altro nella sua vita. La sveglia suona nel momento in cui la sorella cercherà di fargli capire quanto il rapporto tra loro due sia fondamentale per lei, consapevolezza che cambierà la percezione di Brandon per questo tipo di vita che viene rispecchiato nella differenza di sguardo del protagonista per una donna conosciuta in treno. E’ un film freddo, algido anche nei colori, assenza che cerca di rendere visivamente la freddezza di una vita che rispecchia, forse, la mancanza di contatto, di relazione con la persona che ci sta più vicino: noi stessi. 

A presto…
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Simpsonterapia…

Simpsonterapia...Il post di oggi è tanto una provocazione quanto una chiave di lettura. Vorrei riflettere con voi sulle infinite possibilità di lettura che abbiamo della realtà che ci circonda. Quella che vi propongo oggi riguarda una di queste realtà ed è sotto gli occhi di tutti. Mi riferisco alla sigla di apertura del famoso cartone animato I Simpson in onda regolarmente da anni in Italia. Per chi non lo conoscesse il cartone (ma è un termine assolutamente riduttivo!) narra le strampalate vicende di una famiglia media americana e di tutti i possibili intrecci che la vita di queste persone può avere quotidianamente. Il programma si apre, appunto, con una sigla che apparentemente non dice molto su quello che state per vedere dato che fornisce una rapida carrellata dei personaggi della serie: vediamo Homer, il capofamiglia, che lavora in una centrale nucleare, la madre Marge impegnata a fare la spesa con la figlia piccola Maggie, il primogenito Bart che esce da scuola e va sul suo amato skateboard e Lisa impegnata nelle prove della lezione di musica. Ora, apparentemente, nulla di che. In realtà vorrei cercare di dimostrarvi quanto siamo circondati da livelli di complessità che si tratta solo di cogliere. La sigla, spesso non trasmessa o trasmessa tagliata è un capolavoro di complessità crescente e di simbolismo e contiene temi notevoli. Si apre con una visione dall’alto di Springfield, la media cittadina americana dove vivono i Simpson. Questa cittadina è sovrastata dalla onnipresente centrale nucleare. Sembra possibile una prima lettura simbolica: tutto è sovrastato dal potere economico e dalla possibiltà di poterci fare affari. La sigla procede con una inquadratura sulla scuola elementare dove, immancabilmente Bart, noto per non essere troppo tranquillo, sta scontando la sua punizione scrivendo centinaia di volte la stessa frase sulla lavagna. La frase che scrive è sempre al negativo. Non appena suona la campana di fine delle lezioni Bart farà immancabilmente l’esatto contrario di quanto ha appena scritto. Seconda lettura: quanto è utile un sistema scolastico impeganto solamente nel reprimere piuttosto che nel comprendere? Andiamo avanti: Homer sta armeggiando con una barra di plutonio nella centrale nucleare. Appena suona la fine del turno, si volta e se ne va come se quello che stava facendo non lo riguardasse più. Terza lettura: che sistema di lavoro può essere quello nel quale la responsabilità del singolo sembra non esistere? Accade, però, che la barra gli si attacchi addosso, ma torneremo su questo aspetto più avanti. La sigla prosegue facendoci vedere Marge e la piccola Maggie alla cassa del supermercato intente a pagare la spesa. Marge è chiaramente distratta dal fatto di leggere una rivista in cui si parla di come essere madri e, mentre sta leggendo non sta più badando a cosa succede a Maggie che, nel frattempo, viene presa e passata sul lettore ottico della cassa che, paradossalmente, le attribuisce un prezzo. La scena è emblematica per diverse ragioni: rappresenta quanto spesso siamo impegnati più a pensare alle cose piuttosto che a farle e quanto nella nostra società abbiamo ormai mercificato tutto. La sigla va avanti seguendo un altro personaggio: Lisa. La vediamo nella sua classe di musica, intenta a suonare il suo amato sax, ma nel non seguire alla lettera gli altri, il gruppo, suscita la riprovazione del suo insegnante. Anche questa scena è fortemente simbolica: vi troviamo una forte critica ad un sistema scolastico omologante e per niente capace di far risaltare le diversità individuali. Nello stacco successivo ritroviamo Homer: sta tornando a casa in macchina ma c’è qualcosa che lo infastidisce: la barra di plutonio nella schiena! Senza pensarci la prende e la butta all’esterno della macchina dove finisce per essere presa da Bart che sta tornando a casa sul suo skateboard. Da una parte scorgiamo l’irresponsabilità di un padre che ricade sul figlio (che potrebbe essere estesa, generazionalmente, nell’irresponsabilità dei comportamenti di una generazione che ricadono su quella successiva), dall’altro sempre la deresponsabilizzazione del singolo che sembra interessato solo al suo benessere e non a quello della collettività Anche se alla fine la collettività verrà rappresentata dal suo stesso figlio. Tanto per ricordarci che anche noi siamo ‘gli altri’ per qualcuno! Nella scena successiva abbiamo Marge e Maggie in macchina, stanno rientrando a casa: Marge suona il clacson e lo fa di rimando anche la figlia con il suo volante giocattolo. Il messaggio qua è chiarissimo: i figli crescono per imitazione, ci guardano e imparano come comportarsi e, volendo estendere il discorso, bisognerebbe stare attenti ai modelli imitativi che gli si offrono. Alla fine di una carrellata velocissima in cui compaiono moltissimi personaggi della serie (messaggio: viviamo in società!) i cinque si incontrano nella scena cult del divano che termina con una gag ogni volta diversa dalla precedente.

Insomma si tratta, a mio avviso, di un piccolo trattato di sociologia in appena un minuto di apparente cartone animato. Possiamo smettere di semplificare le cose: la complessità è intorno a noi. Dovremmo solo impegnarci a leggerla.

A presto…

Fabrizio

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Hunger games

Hunger gamesIl film del quale voglio parlarvi in questo post è Hunger Games (Gary Ross, 2012) ed è il primo episodio di una trilogia basata sui romanzi della scrittrice Suzanne Collins. Il film in questione fu bollato (non vi nascondo anche dal sottoscritto), come l’ennesima trilogia commerciale destinata ad un pubblico di adolescenti o post adolescenti. In realtà avendolo visto, mi sono decisamente dovuto ricredere sia sul contenuto, sia sul messaggio implicito del film. La trama per chi non la conoscesse è questa: il mondo come lo conosciamo oggi non esiste più. L’angolo di mondo che vediamo è una sorta di mondo postapocalittico, ripiombato in una specie di moderno medioevo. Si intuisce che il paese in questione siano gli Stati Uniti dato che la città in cui si svolge la vicenda è una non precisata Capitol City. La città è attorniata da 12 distretti, ribellatisi e sconfitti che ora, per punizione, versano ciascuno ogni anno un tributo umano: un ragazzo e una ragazza che, estratti a sorte si devono sfidare tra loro finché uno solo non uscirà vincitore e diventerà il vincitore appunto degli Hunger Games, trasformandosi in un eroe per la comunità dal quale proviene. La trama apparentemente semplice, è in realtà secondo me particolarmente simbolica e molto precisa nel descrivere quello che avviene ora in qualsiasi reality show vada in onda. Il riferimento che mi viene più immediato è con il meccanismo del reality show più famoso, il Grande Fratello. Sostanzialmente questo tipo di gioco è basato sul privilegiare tutti gli aspetti più bassi e deleteri delle persone: opportunismo, cinismo, narcisismo, sprezzo dei rapporti, trasformismo, doppiogiochismo, false alleanze e false amicizie basate essenzialmente sul durare di più nel gioco, un gioco che viene venduto come pulito ma che in realtà viene, per motivi di trama, montato e pilotato dagli autori a seconda di ciò che il pubblico chiede. Questo avviene anche nel film, dove, la storia d’amore tra i due protagonisti sembra costruita essenzialmente per fini ‘commerciali’.

Ma le analogie non finiscono qua. Tutta la preparazione, soprattutto quella in cui vengono costruiti dei veri e propri personaggi ad uso e consumo del pubblico, sembra quella di altri reality. Altro aspetto: i bambini nella società del film, imitano ciò che vedono nell’Hunger Games, compresi gli aspetti più deleteri. Non è quello che succede anche nella nostra società? Anche per noi sembra si privilegino i comportamenti più infimi purché portino ad un qualche risultato, e le cronache politiche di questi tempi testimoniano di quanto quest’uso e costume sia ormai diffuso. Ancora l’assoluta vacuità della società che sta intorno alla costruzione del meccanismo del gioco, interessata solamente ai vestiti e agli abiti e dimentica di quella che sarà la sorte delle persone che si accingono a partecipare al gioco stesso. Non vi suona familiare? Perfino la casa in cui vivono durante il training di allenamento nel film ricorda la casa ipermodaiola, ma sempre terribilmente artificiale, che caratterizza ogni edizione del Grande Fratello. Insomma un mondo che sembra futuro e lontano ma che, se lo si osserva con occhi appena diversi, non sembra molto diverso da quello nel quale, purtroppo, siano pienamente immersi anche noi.

E in tutto questo la frase che mi ha più colpito è quando il presidente Snow, vecchio protagonista, spiega al burattinaio del gioco, Seneca, per quale motivo venga organizzato tutto questo spettacolo anziché prendere semplicemente dei ragazzi e ucciderli per rappresaglia. Lo scopo, spiega il vecchio con disincantato cinismo, è quello di lasciare una speranza, far si che le persone nei vari distretti, tutti apparentemente molto poveri e schiacciati economicamente dalla ricca città (altra analogia col mondo di oggi?) perseguano l’idea che possano cavarsela, possano diventare conosciuti e degli eroi semplicemente per aver partecipato ed essere sopravvissuti ad un gioco. Non è lo stesso meccanismo perverso e voyeuristico che anima i vari reality, nei quali le persone diventano famose per il semplice fatto di esserci? Ed è davvero un peccato che il meccanismo col quale ci sente importanti sia totalmente artefatto e basato sul motto latino mors tua vita mea.

Credo che meritiamo qualcosa di più che pensare che schiacciare l’altro sia l’unico modo per diventare qualcuno nella vita. E credo anche che non  si possano depositare le nostre speranze semplicemente sull’idea di diventare famosi per il semplice fatto di comparire. Tanto meno di diventare famosi a scapito di qualcun altro. E’ necessario riflettere su quanto questo meccanismo apparentemente innocuo e semplice stia stritolando, senza che ce ne accorgiamo, la nostra stessa capacità di pensare le relazioni con gli altri. Insomma, un film che consideravo una semplice operazione commerciale si è, inaspettatamente, rivelato un ottimo spunto di riflessione. 

Nel caso lo vedeste, o lo aveste già visto, fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio

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Il calamaro e la balena…

Il calamaro e la balena...Il film che vi voglio raccontare oggi ha un titolo curioso e particolare: Il calamaro e la balena. Il film è del regista Noah Baumbach (2005). Racconta la storia di una famiglia composta da due genitori e due figli maschi che, apparentemente perfetta, viene sconvolta dalla improvvisa separazione dei genitori. Il motivo della separazione dei genitori ha una funzione fondamentale nello scatenare alcune dinamiche della vita familiare stessa: la madre inizia ad avere più successo del padre nel lavoro. Entrambi hanno pubblicato dei libri, ma se il lavoro del padre non sembra riscuotere più molto successo, la pubblicazione della madre invece lo è. Ovviamente, questo sembra il pretesto per dichiarare la fine di una storia che sembrava ormai finita da tempo. La cosa che incuriosisce e che rende interessante il film, sono tutti i meccanismi che vengono utilizzati da entrambi i genitori per cercare di non guardare in faccia la realtà del cambiamento che sta interessando la loro famiglia. Da una parte la donna, che accusa il marito di non essere più stato lo stesso dopo la fine del suo successo creativo. Dall’altro lui accusa la madre di aver ‘distrutto la famiglia’ prendendo una decisione del quale entrambi sembravano consapevoli. In mezzo i figli che, come in ogni buona separazione conflittuale che si rispetti, vengono utilizzati dai genitori come pedine su una scacchiera, e chiamati a schierarsi con l’uno o con l’altro genitore. Il primogenito si schiera col ‘povero’ padre mentre il secondogenito con la madre. Il secondogenito è interessante nella collocazione del film: inizia a mettere in atto azioni sempre più provocatorie man mano che la separazione dei genitori assume contorni sempre più conflittuali. In realtà i suoi atti sembrano più che altro grida di dolore che nessuno sembra in grado di ascoltare. Potrete notare come, in queste scene, il ragazzo sia sempre da solo e non sembri esserci nessuno in grado di avvertire il suo richiamo. In tutto questo la strategia migliore del padre sembra quella di cercare di costruire una sorta di doppione della ex-casa di famiglia che consenta ai figli di vivere al meglio un cambiamento che lui per primo, non sembra in grado di gestire. L’emblema del film è rappresentato dal gatto che è costretto a fare la spola tra una casa e l’altra fino a quando, alla prima occasione fugge da entrambe. Una fuga che il primogenito sembra non riuscire ad attuare.
Insomma, un bel film che vi consiglio di guardare, un film che riesce a descrivere lo sconvolgimento e le strategie che caratterizzano i membri di una famiglia che si trova a vivere un cambiamento del quale avrebbe fatto volentieri a meno ma che non sembrava più rinviabile. Una famiglia che attraversa un momento di passaggio non dissimile da quello che tante famiglie si trovano, per varie ragioni, a dover affrontare. Un film che riesce a descrivere l’inevitabile passaggio che la fine di una relazione può comportare. Un film che potrebbe descrivere, in uno dei personaggi, qualcuno che conoscete in realtà!


A presto…
Fabrizio

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Diario di una schiappa

Diario di una schiappaIl film che vi racconto oggi è una commedia che ci fa entrare direttamente nel ‘magico’mondo della preadolescenza e dei suoi molteplici riti di passaggio. Si intitola Diario di una schiappa(2010), è del regista Thor Freudenthal ed è basato sul libro di Jeff Kinney. Fondamentalmente il film racconta la vita di un ragazzo, Greg, che si trova a dover fronteggiare il passaggio dalle scuole elementari alle scuole medie. Il film tratta con una irresistibile ironia di fondo, tutti i più importanti temi di quell’età: le prime ‘conquiste amorose’, o meglio i primi scontri/incontri con l’altro, le prime consapevolezze sulle funzioni e sull’immagine sociale e, quindi, tutte le tematiche correlate come l’accettazione o l’esclusione, la desiderabilità sociale o il rifiuto, le cose ‘giuste’ e quelle ‘sbagliate’ da fare. Ancora i primi screzi nella famiglia, i primi casini con gli amici, e tutto quello che vorremmo fare per far si che tutte le cose a cui teniamo a quell’età andassero bene ma che, in realtà, si rivelano dei totali disastri. Molte tematiche sono affrontate particolarmente bene sopratutto il clima competitivo che si può instaurare all’interno dell’ambiente scolastico. Le dinamiche di gruppo, con i loro continui capovolgimenti di ruolo e con i continui aggiustamenti, i riti collettivi che tutti condividono e che nessuno sembra essere in grado di sovvertire, le dinamiche di inclusione ed esclusione dai gruppi secondo meccanismi apparentemente indecifrabili. Insomma realtà con le quali a tutti noi, penso, sia capitato in qualche modo di avere a che fare. Credo che, per le tematiche affrontate, possa essere un film molto utile da vedere con i propri figli adolescenti perché, tramite la condivisione, permette di fare delle riflessioni con loro di alcuni degli aspetti che caratterizzano la loro età.

La forza del film sta nella capacità di affrontare questi temi con un’ironia e una leggerezza che riesce a mascherare e, forse a farci dimenticare, quanto questi temi siano, o siano stati importanti, nella nostra formazione. Chi di noi può non identificarsi in qualcuna delle mille peripezie che si svolgono all’interno della scuola? O può non riconoscersi in uno degli aspetti dei protagonisti del film? Insomma, come al solito non vi svelo altro per non rovinarvi la trama ma spero di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a vederlo.

Naturalmente, nel caso lo vedeste, fatemi sapere che cosa ne pensate.


A presto…
 
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