Io censuro

Io censuroRicevo, qualche mese fa, un commento ad un mio articolo riguardante i terapeuti riparatori. In questo post sostenevo la pericolosità, per l’intera categoria professionale, dei colleghi che, reputandosi depositari di una verità da imporre agli altri, si trovano a voler cambiare e a voler guarire aspetti della personalità che da tempo sono stati derubricati nella comunità scientifica dalle categorie di patologie mentali.  (Il post è stato pubblicato il 14.07.2013. Clicca Il terapeuta riparatore per leggere l’articolo). Nel commento mi si accusa di “nascondere e sottrarre risposte”, perciò ho pensato che la pubblicazione integrale, ed una integrazione, dello scambio non possa che fugare i possibili dubbi di qualsivoglia censura operata da parte mia.

Questo il commento: Repubblica quest’anno ha pubblicato una lettera di un ragazzo “omosessuale” che “riteneva la sua condizione una sfortuna e diceva di avere pensato al suicidio. E’ UNO SCANDALO che a questi ragazzi non venga detta la verità e cioè che Jung e Adler, i pilastri della psicananalisi curavano l’omosessualità. Quanto agli psicanalisti che l’hanno curata e la curano dal 1950 al 2014, e che hanno scritto abbondantemente su questo, un piccolo elenco – MOLTO parziale – è il seguente: EDMUND BERGLER, ELIZABETH MOBERLY, CHARLES SOCARIDES( HOMOSEXUALITY A FREEDOM TOO FAR, IRVING BIEBER( HOMOSEXUALITY A PSYCHOANALITIC STUDY), BENJAMINK KOFFMAN , JANELLE HALLMAN, DEAN BYRD, RICHARD COHEN ( COMING OUT SRAGHT), JOE DALLAS, BOBBY MORGAN, STANTON JONES, JEFFREY SATINOVER, JOSEPH NICOLOSI (SHAME AND ATTACHMENT LOSS), JOHN LAWRENCE HATTERER( CHANGING HOMOSEXUALITY IN THE MALE),ETC…

SPERO CHE PRIMA O POI QUALCUNO CHIEDA GIUSTIZIA DELL’OCEANO DI CONOSCENZE E INFORMAZIONI CHE GLI PSICOLOGI – COME LEI – HANNO SISTEMATICAMENTE NASCOSTO E SOTTRATTO AI RAGAZZI IN CERCA DI RISPOSTA.

Questa la mia risposta: Salve Federico, benvenuto. Guardi l’unico scandalo di questa sua mail è la scortesia del tono che usa. E’ a conoscenza del fatto che scrivere tutto in maiuscolo equivale ad urlare? E ancora sostiene che io nasconda informazioni. Le sembra che se volessi nascondere informazioni creerei un blog pubblico? O pubblicherei il suo commento? Ma veniamo a noi. Capisco la spinosità dell’argomento, e sono a conoscenza del fatto che molti miei (ben più illustri) colleghi hanno sostenuto la curabilità dell’omosessualità (con risultati che definire discutibili è un puro eufemismo). Non conosco le loro motivazioni, anche se per molti di loro giocò un ruolo rilevante la fede o l’età. Elizabeth Moberly era teologa per esempio. Parliamo di come una realtà personale venga traslata su questioni sociali. Ben altro numero di colleghi ha di fatto smentito una volta per tutte questo delirio patologizzante, depennando definitivamente l’omosessualità nel 1973 (41 anni fa) quando l’American Psychiatric Association rimosse l’omosessualità dal DSM (il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), negando così la sua precedente definizione di omosessualità come disordine mentale (fonte Wikipedia).

Tutto il resto sono illazioni non più approvate dalla comunità scientifica. Lei è naturalmente libero di credere ciò che vuole, ma la differenza tra me e lei è che io non voglio imporre le mie risposte su quella che è la vita di un’altra persona per cui l’unica cosa che mi sento di fare è provare un profondo rispetto. E stia pur certo che nessuna mia risposta influenzerà le scelte delle persone che ho la fortuna di incontrare nel mio lavoro. Grazie per l’intervento!

Potremmo aggiungere un riferimento particolare su Joseph Nicolosi, uno dei massimi esponenti delle cosiddette terapie riparative. Nicolosi, psicologo statunitense, è noto essenzialmente per le sue teorie riparative sull’omosessualità. Nicolosi ha espresso la strategia nella sua interezza, ne ha indicato scopi, metodi ed esiti, rispetto ai quali è molto più lucido dei suoi seguaci, preferendo al termine ‘guarigione’ quello più ambiguo e confusivo di ‘cambiamento’.  Le sue posizioni sono inequivocabili, al contrario di quelle dei nuovi terapeuti fautori della ‘terapia dell’identità sessuale’, che sembrano prendere le distanze da lui, apparendo meno drastici e netti, ma in realtà sostengono la promozione dell’eterosessismo sociale (e di conseguenza l’omonegatività che ne è corollario). Nicolosi basa il suo insegnamento sulla pretesa di essere ‘scientifico’, laico persino, sottacendo le premesse fondamentaliste, da lui poste come un dato di fatto indiscutibile. Da lui tutti i vari movimenti, religiosi e no, hanno preso ispirazione e alimento. [1]

Il guaio delle teorie riparatorie è che, avendo come premessa il fatto di sapere cosa sia o non sia giusto per l’altro, cercano di imporre una soluzione, una ‘cura’ per l’appunto su quello che è il sentire dell’altro. Non avendo alcuna verità in tasca, penso semplicemente di poter cercare di comprendere, più che cambiare o guarire, la persona che mi si siede davanti ed, in generale, le persone che incontro. Diffido di coloro che pensano di poter guarire o modificare l’altro perché non condivido nulla della loro premessa epistemologica: io so cosa è giusto fare per te. Se pensate che debba fare questo non rivolgetevi a me perché, semplicemente, non sono  in grado di (e non voglio!) farlo! E spero che questo post chiarisca una volta di più come la censura non mi appartenga, per quanto le idee o le posizioni di cui si parla siano agli antipodi dal mio modo di pensare.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1]Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pag. 15

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Luci ed ombre del DSM V

Luci ed ombre del DSM VE’ uscita la nuova edizione, la quinta per l’esattezza, del celebre DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali. Questa edizione era largamente attesa perché ha introdotto notevoli differenze rispetto alle edizioni precedenti. Tutte positive? Non proprio. Le vedremo più avanti. Per chi non sapesse cosa sia questo manuale è necessaria una piccola introduzione. Il DSM è fondamentalmente la bibbia delle diagnosi psichiatriche. Contiene le classificazioni di quelle che ad oggi sono considerate malattie mentali, i criteri che devono essere presenti per emettere una diagnosi, i tempi lungo cui questi criteri devono comparire per poter essere classificati come tali. Il DSM è largamente usato in psichiatria proprio perché pone dei criteri ‘certi ed oggettivi’ per le classificazioni stesse. Come tutte le generalizzazioni, naturalmente, mostra anche i suoi limiti, ma sicuramente si è provato a fare un passo avanti rispetto alle edizioni precedenti. I passi avanti riguardano una maggiore attenzione riguardo alla razza, al sesso e all’etnia, cercando di prendere in considerazione dunque tutte quelle differenze legate ad una appartenenza sociale che altrimenti potrebbero essere classificate semplicemente come patologiche. Altri fattori positivi sono:

  1. Introduzione di nuove categorie per i disturbi dell’apprendimento e una categoria diagnostica unica per i disturbi dello spettro autistico, con inclusione di tutte le diagnosi dei disturbi autistici, sindrome di Asperger, disturbo dirompente dell’infanzia e disturbo pervasivo dello sviluppo (NAS). I membri del gruppo di lavoro inoltre raccomandano la modifica dell’etichetta diagnostica di “ritardo mentale”, da tramutare in “disabilità intellettuale”.
  2. Eliminazione delle attuali diagnosi di abuso da sostanze e dipendenza a favore della nuova categoria “dipendenze e disturbi correlati”. Questi includono disturbi da abuso di sostanza, dove ogni tipo di sostanza viene definita con la propria specifica categoria diagnostica. In questo modo sarà più semplice distinguere tra la ricerca compulsiva di sostanze, nell’ambito della dipendenza (“craving”), e la normale riposta di aumento della tolleranza nei casi di pazienti che usano quei farmaci che alterano il sistema nervoso centrale.
  3. Creazione di una nuova categoria diagnostica per le “dipendenze comportamentali” in qui verrà inserito il “gambling”. Alcuni specialisti hanno richiesto l’inclusione, all’interno di questa categoria, anche della dipendenza da internet, ma ancora non esistono dati sufficienti per rendere ufficiale tale inserimento. Al contrario, però, questa diagnosi verrà inserita in appendice, con lo scopo di promuovere studi sull’argomento.
  4. Inserimento di nuove scale per valutare il rischio suicidiario in adulti e adolescenti, con lo scopo di aiutare i clinici ad identificare coloro maggiormente a rischio. Le scale includono criteri derivati da ricerche sull’argomento, come ad esempio l’impulsività e l’uso di alcol in adolescenza.
  5. Considerazione di una nuova categoria di “sindromi a rischio” (“risk syndromes”), per aiutare i clinici a identificare precocemente eventuali disturbi mentali gravi, come demenza e psicosi.
  6. Inserimento della categoria diagnostica di “disregolazione del temperamento con disforia” (temper dysregulation with dysphoria, TDD), all’interno della sezione dei Disturbi dell’umore. I nuovi criteri saranno basati su studi precedenti con lo scopo di aiutare i clinici a distinguere i bambini con TDD da coloro i quali presentano un disturbo bipolare o un disturbo di tipo oppositivo provocatorio.
  7. Riconoscimento del disturbo da alimentazione incontrollata e criteri più adeguati per le diagnosi di Anoressia (AN) e Bulimia nervosa (BN). [1]

Accanto ad aspetti positivi ve ne sono altri decisamente più discutibili che andrebbero valutati con attenzione. In un articolo rilasciato dal Fatto quotidiano (sotto trovate il link per poterlo leggere) lo psichiatra Paolo Migone dell’Università di Parma sostiene come, tra i peggioramenti dell’attuale edizione del DSM ci sia l’abbassamento delle soglie per la diagnosi (ridotto il numero di sintomi sufficienti a dire che una persona è malata), col risultato che si creeranno molti falsi positivi con conseguente aumento di consumo di farmaci, che peraltro aumenteranno i costi per il Servizio sanitario nazionale e i cittadini”. (…)  Tante le nuove malattie ‘create’ dal DSM-5, per esempio il disturbo di disregolazione dirompente dell’umore che medicalizzerà gli scatti di rabbia, con conseguenze soprattutto sui bambini. La tristezza del lutto diverrà depressione, con somministrazione di farmaci inutili a quanti hanno perso una persona amata e vivono il lutto più a lungo del “normale”. Normali dimenticanze e defaillance cognitive degli anziani verranno diagnosticate come disturbo neurocognitivo minore, creando falsi allarmi e sofferenze in persone che non svilupperanno mai una demenza e anche chi la svilupperà, dato che non vi è una terapia per curarli (…). Aumenteranno le diagnosi di iperattività e deficit d’attenzione (ADHD) soprattutto nell’adulto, con crescita dell’abuso di stimolanti. A causa dell’abbassamento della soglia diagnostica del disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating), abbuffarsi 12 volte in tre mesi non sarà più segno di golosità, ma malattia mentale. Per di più, continua Migone, l’introduzione del concetto di ‘dipendenze comportamentalì (le nuove dipendenze) potrà “favorire una cultura secondo cui tutto ciò che ci piace molto diventa disturbo mentale. [2]

Come potete vedere non mancano sicuramente i punti critici sopratutto per coloro che ritengono eccessiva questa medicalizzazione di molti comportamenti umani con il rischio che provochino un aumento del consumo di psicofarmaci. Non tutti sono d’accordo su questo tipo di lettura dal momento che il DSM V offre classificazioni diagnostiche che erano state appena abbozzate nelle edizioni precedenti. Insomma pro e contro di quello che sostanzialmente è e rimane solo uno strumento. Uno strumento decisamente importante, va detto, ma il cui uso è reso utile e fruttuoso solamente dalla persona che quello strumento usa e maneggia. Non è necessario essere degli esperti per sapere che qualunque strumento anche se ottimo non ha nessuna validità se utilizzato impropriamente. Il DSM V, con tutte le accortezze del caso naturalmente visto che stiamo parlando di persone, non fa eccezione e deve essere utilizzato con attenzione. Solo questo renderà il suo utilizzo utile e non superfluo.  Chi volesse consultare le pagine citate trova i link alla fine della pagina. L’articolo, come detto, è del Fatto Quotidiano. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Wikipedia (DSM)

[2] Se voleste leggere l’articolo cliccate qui

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Perché si va in terapia?

Perché si va in terapiaQuanto più faccio questo mestiere, quante più persone vedo, mi rendo sempre più conto che molti, di solito coloro che non sono mai stati in terapia e che la reputano ancora una faccenda che riguardi solamente i ‘pazzi’, mi chiedono che tipo di lavoro faccia, cosa succeda dentro la misteriosa stanza di uno psicologo. La curiosità è tanta, ma tanta è anche, purtroppo, l’ignoranza per il tipo di lavoro che uno psicoterapeuta svolge. Mi si chiede spesso perché si va in terapia, perché una persona dovrebbe spendere tempo (e soldi!) per ‘fare due chiacchiere’ con uno sconosciuto. La verità è che spesso queste persone sono tanto incuriosite quanto intimidite dall’idea che ci si possa metter a nudo di fronte ad una persona. Questa considerazione mi ha riportato alla mente un brano che ho letto tempo fa e che si occupa appunto del perché della psicoterapia. Ve lo riporto:

Ognuno di noi si muove nell’ambito di un sistema di convinzioni, la maggioranza delle quali, pur non essendo apertamente dichiarate, determinano il nostro modo di vivere le nostre relazioni con gli altri. Vorrei dire qualcosa a questo proposito. Prima di tutto niente che valga la pena di imparare può essere insegnato. Tutto deve essere scoperto da ognuno di noi. Questo processo di apprendere ad apprendere, di scoprire la propria epistemologia, il proprio modo di affrontare nuove scoperte, nuovi pensieri, nuove idee, nuove opinioni, richiede una lunga lotta per riuscire a sviluppare sempre meglio ciò che siamo. Tillich ha scritto un libro intitolato Essere è divenire. Questo titolo è stato per me un koan. Per molti anni mi sono chiesto cosa volesse realmente significare, finché all’improvviso tutto è diventato chiaro: agire è un modo per impedirsi di essere, nel senso che se ci si dà abbastanza da fare, non si è obbligati a essere qualcuno. Si può cercare, con sempre maggiore impegno, di diventare qualcosa di diverso da quello che si è: sempre migliori, sempre più potenti, sempre più simile a qualcun altro sempre meno simili a ciò che in passato abbiamo scoperto di essere.

Ma essere è divenire vuol dire che si deve imparare ad essere totalmente ciò che si è. Questo è, ovviamente, un processo pericoloso, perché la struttura sociale tollera solo certi modi di essere persona. Se ci si scopre sadici, bisogna stare attenti ad esserlo al tempo giusto, nel modo giusto con le persone giuste, se non si vuole passare un brutto quarto d’ora. Una delle ragioni per andare in psicoterapia è che, mettendosi in posizione subordinata rispetto ad un estraneo, si può scoprire quel tipo particolare di libertà che rende possibile essere maggiormente se stessi. Uno psicoterapeuta è qualcuno che si può odiare senza provare sensi di colpa. È una di quelle persone con le quali si può essere completamente se stessi, ciò nonostante, venire accettati; o, guardando la cosa da un altro punto di vista, probabilmente un terapeuta può sopportare che un paziente, per circa un’ora alla settimana, sia totalmente se stesso. Osare rivelarsi a qualcuno rende più facile approfondire la conoscenza di se stessi.

Il primo passo consiste nell’imparare ad ascoltarsi: avere il coraggio di aspettare quando non succede nulla, aspettare che qualcosa accada dentro di noi, non fuori di noi, non grazie a qualcun altro diverso da noi. La creatività richiede tempo e solitudine. [1]

Uno dei punti principali di questo brano è che alcune cose devono essere vissute piuttosto che insegnate. Imparare ad essere se stessi secondo me è una di queste: nessun altro, neanche con una serie enorme di titoli e di attestati, può insegnare all’altro come essere se stesso. Solo il viverlo, lo sperimentarlo, può portare ognuno di noi a rintracciare ciò che è l’essenza del suo essere. Questo ribadisce una mia convinzione profonda: in questo campo non ci sono delle autorità in materia, nessuno che ti possa insegnare ad essere. La nostra funzione è, come diceva Socrate, una funzione maieutica: possiamo aiutare a far nascere qualcosa, ma la vita era presente prima del nostro intervento. Tornando al punto, il nostro senso possiamo costruirlo solo attraverso l’esperienza: ma se l’esperienza è censurata socialmente come può avvenirne la costruzione? Questo, secondo Whitaker è il grande significato dell’esperienza della psicoterapia: in essa la persona può sperimentare parti di se che, per motivi sociali o personali, ritiene debbano essere censurate nella sua vita quotidiana. Solo questa sperimentazione può portare ad una consapevolezza prima e ad una valutazione e accettazione (o rifiuto, naturalmente) poi. Quello che con un termine solo chiamiamo crescita. Questo porta alla crescita di se stessi proprio nel momento in cui aumenta la propria consapevolezza. E da questo dobbiamo passare: solo l’esperienza di ciò che siamo intimamente può portarci ad una evoluzione. Il rischio, altrimenti, è quello di continuare a pensare di coltivare e di mostrare solo ciò che riteniamo accettabile o condivisibile. Whitaker dice che il primo passo di questo processo è imparare ad ascoltarsi. Se però ci siamo abituati ad essere sordi nei confronti degli aspetti che di noi non ci piacciono, il pericolo è che queste parti rimangano sempre in ombra e non emergano. Questo è ciò che avviene all’interno della psicoterapia: in uno spazio protetto la persona può permettersi di sperimentare parti considerate inaccettabili. La condivisione senza giudizio porta spesso a rivalutare queste parti di se stessi e a pensare di rimetterle in gioco nella vita di tutti i giorni. E non è cosa da poco autorizzarsi a condividere parti di noi che fingiamo non esistano. Credo sia questo il sostegno che siamo chiamati a dare all’interno della professione.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 69 

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Adolescenti e adulti competenti

Adolescenti e adulti competentiSpesso sento dire che non è facile che gli adolescenti comunichino con gli adulti, che non si riesce a comprendere cosa vogliano, che dicano di volere qualcuno che li ascolti ma che non sembrino poi in grado di comunicare. Eppure, e ne parlo anche per esperienza diretta, spesso accade la ‘magia’ per la quale lo stesso adolescente che non comunica, che non ascolta, che non condivide, elegga un adulto conosciuto come tramite personale tra il suo mondo e l’altro, quello adulto, che consideri degne di attenzione le sue parole e presti ascolto ad esse. Come si spiega la ‘magia’? Cosa fa si che questo rapporto possa essere costruito? Vi riporto in merito il passo di un testo che descrive molto bene quello di cui sto parlando. Il libro è di Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra con grande esperienza col mondo adolescenziale. Nel testo si delinea la differenza di rapporto di ragazzi con adulti ‘qualsiasi’, ai quali stentano a riconoscere un ruolo e, dunque, li appiattiscono in un ‘tutto indifferente’, e adulti competenti, adulti coi quali entrano in relazione, si aprono condividendo le loro paure e le loro vite. Cosa fa di un adulto un adulto competente? Sostanzialmente la competenza è data dalla possibilità che gli adulti hanno di credere in quello che fanno, che siano in grado di mettersi in gioco e di relazionarsi con empatia all’altro. Nel brano, come vedrete, si fa riferimento agli insegnanti, ma credo che il discorso sia estensibile ad ogni tipo di categoria. Eccovi il brano:

Generalmente per gli adulti la spavalderia degli adolescenti fragili è intollerabile. Non riescono ad apprezzarla e a divertirsi alle loro gag, perché al fondo delle comunicazioni c’è una certa dose di implicita denigrazione. Gli adolescenti di oggi affrontano gli adulti senza riconoscere loro alcun significato simbolico e senza regalare al ruolo sociale che svolgono un’importanza che meriti deferenza è timore reverenziale. Se gli adulti vogliono essere rispettati, è necessario che facciano o dicano qualcosa di interessante qui e ora, nella diretta interazione con l’adolescente e il suo gruppo. Ottengono rispetto e confidenza solo se hanno saputo dimostrare di conoscere il loro mestiere e di sapere spiegare bene a cosa serva la loro funzione. Che si tratti di un genitore o di un’insegnante, di un poliziotto o di un medico, di un educatore o di un allenatore il fatto che abbia l’età che ha e indossi quel ruolo, o eserciti quell’arte, o quel mestiere non gli regala alcuna importanza particolare agli occhi della tua spavalderia adolescenziale. Gli adolescenti sono portati a dare del tu a chiunque, convinti che non sono le differenze visibili quelle che contano, ma le competenze relazionali. Se poi un poliziotto o un prete, un allenatore o un assistente sociale dimostra sul campo di essere competente, allora si aprono trattative molto interessanti e gli spavaldi sono disponibilissimi all’ascolto.

Sarebbe utile ed interessante riuscire a capire le caratteristiche che deve avere un adulto per essere ritenuto ‘competente’ dagli spavaldi. È infatti molto complicato capire quali possano essere i motivi che fanno sì che fra un centinaio di docenti di una scuola solo quattro o cinque vengano ritenuti competenti. Sembra che l’amore che un insegnante manifesta per la propria materia sia molto apprezzato (…) purché comunichi la convinzione quasi delirante che quella disciplina sia fondamentale per la crescita e la realizzazione piena del sè: a queste condizioni viene posta la premessa affinché quell’insegnante sia ammesso al concorso per l’elezione al ruolo educativo di adulto competente. (…) Anche un certo livello di curiosità da parte del docente è generalmente molto apprezzato, purché sia fine a se stesso e sincero, non intrusivo e pettegolo. Agli spavaldi piace che il loro insegnante dimostri interesse per certe piccole vicende della loro vita, per alcuni incomprensibili riti della loro generazione, a cospetto dei quali gli adulti generalmente provano totale disinteresse. L’adulto competente, invece, se chiede è perché vuole capire, e quindi ammette di non sapere. E’ chiaro che non pretende di sapere ancor prima di aver chiesto delucidazioni. Se la domanda è pertinente, e documenta un certo rispetto per gli usi e costumi generazionali, allora gli spavaldi raccontano e spiegano bene, aprendo uno spazio ed un tempo di confronto educativo sulla quotidianità di enorme interesse ed utilità. Questo dimostra sul campo quanto sia utile ed interessante un confronto democratico fra la cultura adolescenziale e quella adulta. Ovviamente la spavalderia pone delle condizioni che non sono facilmente accettabili da ogni tipo di adulto, poiché pretende che dietro non vi sia alcun pensiero pedagogico o di curiosità intrusiva o di manovra seduttiva per carpire benevolenza d’ascolto a favore della propria disciplina.

Una volta deciso che hanno di fronte un adulto competente, gli adolescenti fragili e spavaldi ne fanno un uso intensivo, dimostrando quanto sia reale e profonda la loro motivazione ad attrezzare una relazione funzionale col mondo adulto e come sia cruciale per loro sentirsi in relazione. Quando viene stabilita una relazione educativa gli spavaldi accettano anche livelli molto elevati di dipendenza e ne sono consapevoli, perché la fiducia che sperimentano li autorizza a ritirare la denigrazione preventiva che è generalmente inalberano. [1]

Sarebbe da rivedere, dunque, il concetto che gli adolescenti non vogliano parlare con gli adulti. Anzi, credo sia per loro fondamentale riuscire a stabilire un rapporto costruttivo con uno di loro, un adulto che possa insegnare con l’esempio piuttosto che salendo in cattedra, che chieda perché interessato e non per ribadire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, che sappia ascoltare piuttosto che proclamare, che sia disposto a mettersi in gioco, che accetti il moto ondivago delle relazioni con un adolescente. Questo fa di un adulto un adulto competente per me. Con sempre maggior allarme mi rendo conto di quanto siano assenti figure adulte con queste caratteristiche nel mondo adolescente e mi chiedo quanto gli adulti siano disposti a mettersi in discussione, arrivando ad intuire come la mancanza di dialogo tra generazioni stia diventando drammaticamente sempre più pesante.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pietropolli Charmet, G. (2008), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 116-118

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