Tre diversi modi di essere in terapia (1)

tre diversi modi di essere in terapiaIl post di oggi ha a come obiettivo quello di cercare di delineare quelle che sono le diverse ‘tendenze’ all’interno di un percorso di terapia. Molti spesso credono che ci sia un solo modo di fare terapia, come se uno psicoterapeuta, una volta che ha imparata una tecnica, la potesse pedissequamente applicare ad ogni persona con la quale ha la fortuna di trovarsi a lavorare. In realtà la ‘materia’ della psicoterapia, la persona o il gruppo con cui si lavora, è materia liquida, complessa, ed è per questo che non si può fare a priori una definizione o una delineazione di quello che succederà in terapia, data la costruzione stessa del rapporto terapeutico che non può essere inquadrato in regole o in classi. E’ possibile, ed è questo che proviamo a fare oggi, cercare di delineare uno ‘stile’ di terapia, un modus operandi che il terapeuta applica all’interno del suo lavoro. Questo post è basato sulle posizioni e sulle considerazioni dello psicoterapeuta americano Carl Whitaker che nel suo bellissimo libro Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, cerca di delineare alcune riflessioni su cosa voglia dire essere uno psicoterapeuta e su come questo mestiere debba interagire con l’altro. Vi riporto i tre modi con cui Whitaker cerca di delineare degli ‘stili di terapia:

Il primo è l’eliminazione del sintomo. Il paziente la famiglia arrivano in uno stato di carenza emotiva, simili a bambini indifesi, insicuri ed incapaceidi agire, per mancanza di nutrimento, di forza, di opportunità di crescita. La risposta più ovvia a questi sintomi è l’offerta di nutrimento  e di cure di una madre affidataria. Il rapporto che si crea è molto simile a quello di un maestro che incoraggia il bambino a leggere, studiare, a imparare, a creare, stimolandolo sempre di più ad apprendere. Uno dei problemi principali che derivano da questo atteggiamento è la sindrome ‘mamma sa tutto’.

Il terapeuta escogita sempre nuovi trucchi per cambiare le cose, ma finisce per far perdere completamente al paziente la libertà di prendere iniziative. Questo significa che il paziente e la famiglia diventano sempre più dipendenti e dubitano sempre di più di se stessi, mettendo il genitore affidatario nella temporanea ma gratificante situazione di essere un Dio onnipotente. A quel punto il genitore affidatario deve trovare il sistema per risolvere una situazione simile, per molti aspetti, a quella che di un bambino nel distaccarsi dalla famiglia, in un’età in cui ha ancora bisogno di dare e di ricevere affetto. [1]

Il primo modo è il modo in apparenza più semplice. Si tratta di delineare all’interno della relazione chi sa (il terapeuta) e chi non sa (il paziente). Chi sa deve prodigarsi affinché chi non sa abbia una soluzione al problema per il quale è venuto e ha iniziato una terapia. Questo porta a due conseguenze entrambe pericolose se non maneggiate con consapevolezza dal terapeuta: chi non sa ottiene una soluzione a sua misura, ma indirettamente riceve la conferma che se non ci fosse stato l’intervento del terapeuta non avrebbe saputo come fare e quindi rinforza in se stesso l’idea di non ‘saper fare’ autonomamente.

Il terapeuta può, invece, crogiolarsi nel ruolo di colui che ‘sa come/cosa fare’, crederci in blocco e passare dalla posizione aperta di terapeuta (ti aiuto ad aiutarti) alla posizione chiusa di guru (fai come ti dico). In questa posizione la libertà del paziente è messa a dura prova, perché penserà di avere sempre bisogno del supporto del terapeuta per poter procedere, mentre l’onnipotenza del terapeuta ne uscirà rafforzata perché si alimenterà di un nuovo caso nel quale i suoi consigli hanno apparentemente risolto la situazione. Credo che questo, se il terapeuta non è consapevole di ciò che sta avvenendo, non sia un buon modo di fare terapia per varie ragioni: non si rende indipendente il paziente all’interno delle sue scelte e si coltiva la disparità di ruolo all’interno della relazione terapeutica (io terapeuta so vs. tu, paziente non sai).

– Continua –

[1]Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 173

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Il compito degli educatori

Cuore-Mary

E’ più facile insegnare che educare,
perché per insegnare basta sapere,
mentre per educare è necessario essere
– Alberto Hurtado –

 

Quando accadono fatti di cronaca nera che coinvolgono bambini o adolescenti, vengono citate, tra le cause di quello che succede, la mancanza di figure educative che possano in qualche modo porre freno alla deriva apparentemente senza fine di questi fatti terribili. Chi è un educatore oggi? Il termine è veramente molto vago e potrebbe delineare tutti coloro che si occupano a vario livello di persone che abbiano bisogno di una guida. Sicuramente è un educatore il genitore, è un educatore l’insegnante, è un educatore l’allenatore sportivo.

Secondo il dizionario Treccani, l’educatore è colui il quale ‘educa, e soprattutto chi per vocazione o per professione compie l’ufficio di educare i giovani’. Punto principale di questa definizione è il termine educare: l’etimologia del termine deriva dal latino e-ducere, letteralmente condurre fuori, ma anche trarre da e sottolinea il lavoro maieutico di portare fuori l’adulto dal ragazzo, di riuscire ad insegnargli a come diventare grande. Se non ci sono dubbi sul fatto che gli adulti abbiano questo immenso potere, ce ne sono invece tanti sul come si fa l’educatore. 

Gli insegnanti o i formatori continuano a fare interventi caratterizzati dalla tendenza a spiegare, a moraleggiare, puntando esclusivamente sugli argomenti logici o sugli sforzi informativi. Siamo portati con i soggetti in età evolutiva ad esortare e a fare la predica. Ci convinciamo che il fulcro della nostra missione sia consigliare, offrire suggerimenti o soluzioni. Come educatori tendiamo sempre prima di tutto ad insegnare, argomentare, persuadere; per allontanare la complessità e la sofferenza possiamo rassicurare, simpatizzare, consolare, sostenere; quando il disagio in noi aumenta allora attendiamo a sottrarci, cambiare argomento, scherzare, distrarre; infine quando gli allievi non corrispondono più alle nostre aspettative allora etichettiamo, ridicolizziamo, umiliamo, giudichiamo, critichiamo, biasimiamo, diamo ordini, minacciamo… Magari in nome di una cultura democratica.

Siamo insomma disposti a fare di tutto per fuggire dal compito arduo dell’ascolto delle emozioni e delle storie dei nostri interlocutori. I bambini, i ragazzi che hanno difficoltà ad accettare l’altro, così come quelli che vivono l’esperienza di essere considerati diversi, sono soggetti che hanno massimamente bisogno di un ascolto attivo. Dietro la rabbia, l’arroganza, il disprezzo, l’onnipotenza che sottendono i comportamenti razzisti violenti, ci sono a ben vedere sentimenti che tendono ad essere mascherati, negati e trasformati nel loro contrario: la solitudine che spinge alla coesione compensativa del gruppo violento, l’impotenza che si tramuta in arroganza onnipotente, la paura che diventa il coraggio nei confronti dei più deboli magari perché provenienti da altrove. E ascoltare, per un educatore, non significa certo accettare schemi violenti a manipolatori, bensì favorire una circolarità dell’ascolto, promuovere nel gruppo classe la possibilità di lasciare esprimere e legittimare sentimenti, punti di vista, storie di vita che hanno una loro radicale originalità. [1]

Il punto che reputo importante del passo che vi ho riportato è la difficoltà che spesso gli adulti hanno nel rapportarsi con la realtà emotiva dell’altro. Presi come siamo dal voler imporre, con difficoltà riusciamo (se ci riusciamo!) a fermarci ad ascoltare la realtà dei ragazzi, condividerne la visione del mondo, comprendere le scelte, supportarne le paure. Il confronto coi ragazzi, e parlo per esperienza diretta, richiede, prima di entrare in contatto con l’altro, l’entrare in contatto profondo con se stessi, con le proprie paure, con la propria visione del mondo. Ed è un terreno  nel quale non ci piace avventurarci, specie se diamo per scontato che diventando adulti abbiamo anche acquisito il potere di non dover più confrontarci con parti di noi che non ci piacciono e che non hanno necessità di essere rinvangate.

Il confronto coi ragazzi invece ci porta spesso su quel terreno e faremmo di tutto per evitarlo. Più evitiamo questo confronto, più ci irrigidiamo nei confronti del bambino/ragazzo, più questo sente la nostra distanza rendendo questo un circolo vizioso che si alimenta di continuo, diventando problematico spesso durante l’adolescenza, età nella quale tutte le dinamiche appaiono particolarmente amplificate. Come si spezza il cerchio? Con l’ascolto, un ascolto attivo, un ascolto partecipe, un ascolto interessato, che faccia sentire l’altro coinvolto in quello che ci riguarda. Un ascolto che parta dal nostro stesso ascolto, dalla conoscenza, dalla comprensione e dall’accettazione di quello che noi sentiamo e proviamo. Solo in questo modo potremmo metterci a disposizione per l’altro. Non è sicuramente una cosa facile: dopotutto anche a noi è stato insegnato di crescere mettendo da parte quanto più possibile la nostra realtà emotiva.

Solo recuperando quello che ci appartiene possiamo utilizzarlo come ponte per comunicare con chi, in fondo, vuole essere aiutato a tirare fuori  e a capire come maneggiare quello che sta faticosamente iniziando a sentire. 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, pag. 185

 

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