Quando accadono fatti di cronaca nera che coinvolgono bambini o adolescenti, vengono citate, tra le cause di quello che succede, la mancanza di figure educative che possano in qualche modo porre freno alla deriva apparentemente senza fine di questi fatti terribili. Chi è un educatore oggi? Il termine è veramente molto vago e potrebbe delineare tutti coloro che si occupano a vario livello di persone che abbiano bisogno di una guida. Sicuramente è un educatore il genitore, è un educatore l’insegnante, è un educatore l’allenatore sportivo.
Secondo il dizionario Treccani, l’educatore è colui il quale ‘educa, e soprattutto chi per vocazione o per professione compie l’ufficio di educare i giovani’. Punto principale di questa definizione è il termine educare: l’etimologia del termine deriva dal latino e-ducere, letteralmente condurre fuori, ma anche trarre da e sottolinea il lavoro maieutico di portare fuori l’adulto dal ragazzo, di riuscire ad insegnargli a come diventare grande. Se non ci sono dubbi sul fatto che gli adulti abbiano questo immenso potere, ce ne sono invece tanti sul come si fa l’educatore.
Gli insegnanti o i formatori continuano a fare interventi caratterizzati dalla tendenza a spiegare, a moraleggiare, puntando esclusivamente sugli argomenti logici o sugli sforzi informativi. Siamo portati con i soggetti in età evolutiva ad esortare e a fare la predica. Ci convinciamo che il fulcro della nostra missione sia consigliare, offrire suggerimenti o soluzioni. Come educatori tendiamo sempre prima di tutto ad insegnare, argomentare, persuadere; per allontanare la complessità e la sofferenza possiamo rassicurare, simpatizzare, consolare, sostenere; quando il disagio in noi aumenta allora attendiamo a sottrarci, cambiare argomento, scherzare, distrarre; infine quando gli allievi non corrispondono più alle nostre aspettative allora etichettiamo, ridicolizziamo, umiliamo, giudichiamo, critichiamo, biasimiamo, diamo ordini, minacciamo… Magari in nome di una cultura democratica.
Siamo insomma disposti a fare di tutto per fuggire dal compito arduo dell’ascolto delle emozioni e delle storie dei nostri interlocutori. I bambini, i ragazzi che hanno difficoltà ad accettare l’altro, così come quelli che vivono l’esperienza di essere considerati diversi, sono soggetti che hanno massimamente bisogno di un ascolto attivo. Dietro la rabbia, l’arroganza, il disprezzo, l’onnipotenza che sottendono i comportamenti razzisti violenti, ci sono a ben vedere sentimenti che tendono ad essere mascherati, negati e trasformati nel loro contrario: la solitudine che spinge alla coesione compensativa del gruppo violento, l’impotenza che si tramuta in arroganza onnipotente, la paura che diventa il coraggio nei confronti dei più deboli magari perché provenienti da altrove. E ascoltare, per un educatore, non significa certo accettare schemi violenti a manipolatori, bensì favorire una circolarità dell’ascolto, promuovere nel gruppo classe la possibilità di lasciare esprimere e legittimare sentimenti, punti di vista, storie di vita che hanno una loro radicale originalità. [1]
Il punto che reputo importante del passo che vi ho riportato è la difficoltà che spesso gli adulti hanno nel rapportarsi con la realtà emotiva dell’altro. Presi come siamo dal voler imporre, con difficoltà riusciamo (se ci riusciamo!) a fermarci ad ascoltare la realtà dei ragazzi, condividerne la visione del mondo, comprendere le scelte, supportarne le paure. Il confronto coi ragazzi, e parlo per esperienza diretta, richiede, prima di entrare in contatto con l’altro, l’entrare in contatto profondo con se stessi, con le proprie paure, con la propria visione del mondo. Ed è un terreno nel quale non ci piace avventurarci, specie se diamo per scontato che diventando adulti abbiamo anche acquisito il potere di non dover più confrontarci con parti di noi che non ci piacciono e che non hanno necessità di essere rinvangate.
Il confronto coi ragazzi invece ci porta spesso su quel terreno e faremmo di tutto per evitarlo. Più evitiamo questo confronto, più ci irrigidiamo nei confronti del bambino/ragazzo, più questo sente la nostra distanza rendendo questo un circolo vizioso che si alimenta di continuo, diventando problematico spesso durante l’adolescenza, età nella quale tutte le dinamiche appaiono particolarmente amplificate. Come si spezza il cerchio? Con l’ascolto, un ascolto attivo, un ascolto partecipe, un ascolto interessato, che faccia sentire l’altro coinvolto in quello che ci riguarda. Un ascolto che parta dal nostro stesso ascolto, dalla conoscenza, dalla comprensione e dall’accettazione di quello che noi sentiamo e proviamo. Solo in questo modo potremmo metterci a disposizione per l’altro. Non è sicuramente una cosa facile: dopotutto anche a noi è stato insegnato di crescere mettendo da parte quanto più possibile la nostra realtà emotiva.
Solo recuperando quello che ci appartiene possiamo utilizzarlo come ponte per comunicare con chi, in fondo, vuole essere aiutato a tirare fuori e a capire come maneggiare quello che sta faticosamente iniziando a sentire.
Che ne pensate?
A presto…
[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, pag. 185
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Se può essere utile vedete anche “Caripadri”, un blog per padri separati.. C.
Carissimo Dott. Boninu. La ringrazio, come sempre, per toccare le corde più sensibili dell’interiorità umana, soprattutto dei nostri ragazzi. Parlare delle emozioni e farle parlare, nel vero ascolto dell’altro, non è impresa ardua, eppure la si rende spesso impossibile. Secondo me basterebbe togliere le briglie al pensiero, senza alcuna sorta di pregiudizi, cioè non avendo degli schemi mentali entro i quali accetto e oltre i quali non accetto l’altro. Vale a dire, condurre un rapporto, una relazione, una dualità, con la mente libera di farsi visitare e di visitare altre menti, come un fluido di emozioni lungo due canali comunicanti, con la fiducia che questa esperienza sia sempre arricchente. Ciò richiede un viaggio interiore in orizzontale, non in verticale. Abbassare il più possibile l’indice ed indicare col cuore le possibili, congeniali direzioni, senza la pretesa di poter scegliere per l’altro. Scrivere meno note, meno rapporti, meno valutazioni sulle persone, sentirsi importanti educatori e farlo sentire ai ragazzi, senza delegare sempre all’educatore vicino il compito mai svolto. Avere il coraggio di seguire meno asettici protocolli dove ciò che prevale sono i programmi, non le parti in gioco, non i protagonisti di tutta la scena. Chiedere il più spesso possibile: “Cosa ne pensi?”, “Cosa provi?”, “Cosa non ti va?”, “Cosa vorresti da un educatore?”, “Rispondo a ciò di cui hai bisogno?“, “Ti senti felice qui?”, “Mi racconti di te, dei tuoi sogni, delle tue aspettative?”… Credo che uno dei punti cruciali e critici del fallimento dell’esperienza delle emozioni consista nell’analfabetismo dell’intelligenza emotiva, la povertà di un linguaggio che dovrebbe essere più affettivo, conforme a un’affettività naturale per il piacere e la curiosità di conoscere l’altro. Un linguaggio, insomma che è possibile soltanto in un viaggio in cui si parte in due, mai da soli. Perché io mi completo con l’altro. Ciò implica che uno parli e l’altro ascolti, ma se è sempre la stessa persona a parlare, l’altro ascolta sempre più distrattamente, fino a non ascoltare più. Per questo tante teorie educative restano tali anche nella pratica: a senso unico. Un altro punto critico credo consista nella verticalità del porsi, soprattutto da parte degli educatori. Forse non è facile scendere i gradini di una piramide, misurarsi con un metro di grandezza orizzontale, assumere un’ampia visuale dovendosi “disturbare” per alzarsi in piedi e camminare per sedersi accanto, “abbassarsi” e guardare da vicino gli occhi dei giovani interlocutori, svestirsi dell’abito dell’adulto educatore, maestro, docente, di chi insegna sempre e non ha più nulla da imparare negli spazi preposti al suo ruolo. Non è facile mettere al proprio pari un bambino, un ragazzo, e meno che meno considerarlo addirittura una persona che va tutelata in ogni caso, perché fruitore spesso inconsapevole di diritti violati proprio dai suoi stessi educatori. La speranza è che, come gli uccelli e gli aquiloni, questi nostri figli, alunni, “discenti”, si librino più sereni di molti di noi, senza le zavorre adulte, ingombranti e pesanti, con le ali spiegate e con la leggerezza necessaria all’equilibrio spesso mancante negli adulti. Che ci guardino qualche volta dall’alto, sorvolando un mondo che possono migliorare, diventando migliori di molti di noi. Che la vita, insomma, riservi loro la parte migliore della migliore maestra, anche con pochi semi, magari per semplice, naturale impulso di sopravvivenza del meraviglioso universo emozionale. Pochi semi, dicevo, ma buoni. Un carissimo saluto, con tanta stima, da Treviso.