Tre diversi modi di essere in terapia (3)

Dopo aver visto le prime due posizioni, vediamo la terza ed ultima possibilità esposta da Whitaker:

Un terzo modello può essere definito come ridare potere al paziente o alla famiglia. Questo approccio è utile quando l’adulto si sente debole, desideroso di appartenere, è prostrato dal fallimento, vorrebbe far parte di una squadra, riassumere la responsabilità di se stesso, ma non sa come fare. Il terapeuta diventa quindi un padre, che esorta, chiede, crede che il paziente sia in grado, se si sforza, di adattarsi allo stress. In questo caso il compito del terapeuta consiste nel richiedere al paziente di acquistare forza, senza offrirgli però un sostegno diretto, come fa un allenatore di una squadra di calcio quando incoraggia i giocatori ad aumentare la loro capacità aerobica, a mettercela tutta, a essere spontanei e a prendere iniziative. Il terapeuta deve avere potere e controllo solo su alcuni aspetti limitati della vita del paziente – essenzialmente sulla durata e sul tipo di esercizio da fare, sul luogo e l’ora dell’allenamento. Se questo metodo è successo il paziente continua a ‘tenere in gioco la palla’, sarà gratificato da sui progressi. Vi è comunque un periodo iniziale, nel quale ‘l’allenatore’ deve forzare il ‘giocatore’ a riprendersi il potere: il terapeuta deve spingere il paziente a definire il suo gioco, la propria partecipazione, a scegliere con lui la più congeniale, che può dargli soddisfazione con il minor dispendio di energie. A quel punto l’allenatore, il terapeuta, diventa un tifoso, che si rallegra per i progressi e i sogni del paziente.

Questa è quella che Whitaker stesso definisce come posizione paterna, una posizione che riguarda la possibilità di intervento supportiva del terapeuta nei confronti del paziente. In questo caso più che la dipendenza, il problema può essere quello legato allo sprono da parte del terapeuta che, almeno inizialmente, deve, proprio come nella metafora dell’allenatore, motivare il proprio giocatore e obbligarlo a costruire e tracciare il proprio percorso. Per quanto si ripeta spesso che la terapia dovrebbe essere un accompagnare il paziente all’interno del suo stesso percorso, si palesa una posizione che in terapia è spesso necessario tenere, almeno nelle prime fasi iniziali del processo stesso.

L’autore utilizza il termine di ‘forzatura’, che appunto, perlomeno inizialmente, è necessario utilizzare affinché il paziente possa riappropriarsi della sua posizione. Dovendo superare un insieme di automatismi che ormai conosce bene, il paziente deve essere spinto verso una nuova prospettiva. Il lavoro è molto delicato perché il terapeuta deve sapere dove fermarsi dal momento che, se imponesse la sua visione al paziente, starebbe, come nella prima posizione, assumendo per vero lo stereotipo che, all’interno della relazione terapeutica, sia lui quello che sa come fare. Incorrerebbe, in questo caso, nella stessa posizione di onnipotenza che spesso porta la terapia a falsi avanzamenti e continue ricadute del paziente stesso.

Come dice lo stesso Whitaker: Il meta-problema, in tutte queste forme di psicoterapia, è come far si che il terapeuta impari a perfezionare il proprio ruolo terapeutico, senza diventare schiavo né della dipendenza del paziente, né delle proprie fantasie di potere. Il pericolo che corre il terapeuta è simile a quello che corre una madre: è quasi impossibile modificare il proprio ruolo e porsi su un piano di parità con qualcuno che, un tempo, era nostro figlio! 

Perfezionare il ruolo di psicoterapeuta richiede una difficile fusione tra la capacità di essere persona e la capacità di entrare in un ruolo e credo sia una di quelle cose che, con una espressione inglese, viene definita lifelong learning , qualcosa per imparare la quale occorra tutta una vita. Credo che l’importante sia avere la consapevolezza della delicatezza ed importanza del proprio ruolo nei confronti della vita dell’altro. Solo così è possibile evitare di cadere nella trappola dei propri stereotipi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 174

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