Prospettiva nuova

Un giorno qualunque di lavoro. Nuovo appuntamento. Dopo l’incontro con i genitori, conosco finalmente Giorgia, 15 anni, spinta alla terapia dalla sua difficoltà, sempre crescente, di affrontare uno qualunque dei vari impegni della sua vita quotidiana senza ansia. Giorgia si presenta molto bene, sembra apparentemente tranquilla, anche se vari segnali parlano del suo stato di disagio anche nel momento in cui la incontro.

Ovviamente il tema sul quale incentra tutto il colloquio è l’ansia e lei non riesce a non parlare di quanto penoso sia partecipare a qualunque cosa, data la difficoltà a viversela in modo sereno. Mi parla approfonditamente della scuola, della frustrazione che prova ogni volta che viene interrogata quando, pur pronta, non riesce che a spiccicare un terzo di quello che sente di sapere e in un modo del tutto terribile rispetto a come lo ripeteva solo il giorno prima, nell’intimità della sua camera. Oppure dell’ansia che la assale ogni volta che la sua squadra (Giorgia gioca a pallavolo) deve affrontare una partita con una squadra avversaria. O ancora alle uscite con gli amici, soprattutto se nel gruppo sono presenti persone nuove o con le quali ha poca confidenza oppure se uno dei membri del gruppo propone di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che, lei teme inesorabilmente, non saprà affrontare e permetterà a tutta l’inadeguatezza che sente di avere di manifestarsi appieno.

Sto li, con lei, ad ascoltare con interesse quello che mi racconta, pensando sempre più spesso, mano a mano che lei si addentra nei dettali di quanto invalidante senta l’ansia, a quanto questo ritratto possa essere parziale e monotematico

Ad un certo punto, come spesso mi capita di fare in terapia, sposto completamente il focus su un tema opposto rispetto a quello che il paziente mi porta come predominante. In questo caso: chi è Giorgia quando non ha ansia? Cosa le piace fare, cosa la rilassa quando capita che si senta bene? Questa domanda inizialmente spiazza Giorgia, che da tempo non si soffermava a pensare a chi fosse senza la sua fastidiosa compagna ansia. Lo spiazzamento iniziale lascia ben presto posto ad un nuovo focus e Giorgia inizia raccontarsi, a spiegare chi sia, e a dirmi cosa faccia di Giorgia… Giorgia.

Come ogni persona, inizialmente disabituata a raccontare qualcosa di sé, Giorgia inizia a riflettere su quali siano le attività che la caratterizzano, cosa le piace e cosa non le piaccia, quali attività le procurino piacere e quale invece aumentino il senso di disagio. Questo  spostamento le permette di pensarsi come qualcosa di più articolato, di più complesso rispetto al quel ritratto unidirezionale di Giorgia-con-l’ansia che da tempo caratterizza il suo racconto di sè.

Il cambio di prospettiva risulta, perciò, molto interessante perché permette alla persona di iniziare a guardarsi con occhi diversi e non più focalizzati solo su quella che è la problematica per la quale è venuta in studio. E spesso le persone sono completamente disabituate a percepirsi in questa maniera, aderendo completamente all’idea che siano solo il disturbo che manifestano.

Ritornando a Giorgia possiamo affermare come ormai si identificasse nella persona che ha una difficoltà legata all’ansia, dimenticando di ricordarsi quali altri aspetti si trovavano in lei e non riuscendo quindi ad integrare il disagio con le risorse che ognuno di noi possiede. Sono sicuro che vi starete chiedendo se questo fa passare l’ansia. Ovviamente no, ma questa nuova prospettiva, questa nuova integrazione può servire a riequilibrare la visione che noi abbiamo di noi stessi, rendendola più vera, sfaccetta e complessa. In poche parole più completa. Il tema che viene portato in terapia è quello che preoccupa di più la persona in quel momento storico della sua vita. Ma se il disagio diventa l’unico aspetto di noi stessi nel quale ci identifichiamo, e che tendiamo a mostrare agli altri, diventa difficile integrarlo con le risorse e le possibilità che sono insite in ognuno di noi.  

Ed è solo con la riscoperta della molteplicità dei nostri aspetti che può iniziare un percorso terapeutico.  

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto,

Fabrizio Boninu

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Gli adolescenti in terapia

adolescenzaL’argomento di questo post nasce da una considerazione circa la presunta differenza tra il comportamento degli adolescenti nella vita quotidiana e in terapia. Mi spiego meglio. Dalla mia posizione professionale la cosa più macroscopica che mi trovo spesso a dover fronteggiare quando un adolescente arriva in terapia è la discrepanza tra come lo stesso adolescente è raccontato dai suoi genitori e come invece si comporta durante la seduta stessa. E, in generale, durante la durata del lavoro con me. Nella professione, quando ho a che fare con un minore, il primo colloquio è organizzato con i genitori del ragazzo stesso di modo che possa farmi un’idea dell’organizzazione familiare.

Durante questo primo colloquio capita spesso che i genitori facciano del proprio figlio un quadretto non proprio edificante. Immaginatevi la sorpresa quando al posto dell’essere selvaggio descritto dai genitori viene in seduta un ragazzo educato, rispettoso, attento, spesso molto sensibile e in grado di relazionarsi con un adulto. Ovviamente, questa discrepanza potrebbe essere legata al fatto che il nostro sia un primo incontro. Nel momento in cui acquisirà più confidenza, penso, vedrò anche io quegli aspetti deleteri che mi hanno descritto i suoi genitori. Invece no, la ‘magia’ continua anche dopo la prima seduta e il lavoro continua, talvolta attraversando temi complessi, ad essere piacevole e produttivo. Come è possibile questa discrepanza? Come possono essere così diversi da un ambiente all’altro? Ho trovato a questo proposito interessante un passaggio del testo dello psicoterapeuta Pietropolli Charmet che vi riporto: 

Alla temperatura relazionale adatta al suo temperamento, la fragilità narcisistica dell’adolescente di oggi diventa una risorsa impensabile in altri contesti e a diversi climi relazionali. Ne posso portare devota testimonianza professionale: gli adolescenti fragili che ho incontrato in questi anni di consultazioni durante le crisi evolutive -anche di una certa gravità per i rischi che comportavano, se ritenevano di potersi fidare dell’interlocutore, se cioè lo ritenevano adatto a condividere la loro verità, assumevano nei confronti della relazione responsabilità elevatissime, ed erano capaci di sincerità e generosità relazionali altissime, quasi commoventi soprattutto non sapendo come ricambiare tanta fiducia e creatività relazionale. Non è un’esperienza solo di qualche psicologo particolarmente esperto o seduttivo, ma fa parte del bagaglio di esperienze di qualsiasi adulto sia stato disponibile ad ingaggiare una relazione con un’adolescente alla ricerca di adulti competenti. Si avvera in questi casi un evento relazionale quasi sorprendente, del tutto impensabile se ricondotto all’afasia simbolica che lo stesso adolescente presenta in classe, in gruppo, in famiglia o in palestra. Nella relazione investita affettivamente, l’adolescente fragile sfoggia una sensibilità strepitosa ed una capacità introspettiva che rendono ragione della sua fragilità, e che gli regalano un contatto intenso e veritiero con alcune rappresentazioni mentali profonde, generalmente inaccessibili, perché scomode da pensare e fonti di malessere per chi non si abituato a mantenere un contatto con i contenuti più profondi della propria mente. È molto probabile che sia questo il motivo che rende sorprendenti certi prodotti creativi dell’adolescente fragile, che sembrerebbero incompatibili con lo stile comunicativo trasandato e scontato con cui si esprime nella quotidianità scolastica e familiare; e che, del tutto inopinatamente, sono prodotti espressivi di qualità. [1]

Ma allora cosa contribuisce a costruire quella che l’autore chiama temperatura relazionale adatta? Una delle grandi doti che è necessario avere è la capacità di ascolto e l’interesse per quello che l’altro condivide. Sono due ingredienti fondamentali e per niente scontati nelle relazioni in generale e nelle relazioni con adolescenti in particolare. In un momento della loro vita nel quale stanno cambiando, è necessario che abbiano una figura adulta di riferimento che possa aiutarli a far venire fuori quanto di non detto caratterizza le loro vite perché, pensano spesso, ‘tanto di me che gliene importa’. Quando si accorgono quanto a qualcuno gliene importi di loro, si può avere in cambio una relazione che ha risvolti sorprendenti e che consente di aprire spiragli inediti sulla loro storia. Ripeto, non è una magia e non credo di avere poteri magici. Anzi, spesso, paradossalmente, chiedo loro quale magia avvenga in studio che non sia possibile replicare all’esterno dello studio stesso. Questo li obbliga a pensare come quello che hanno appena sperimentato con me possa essere replicato anche fuori. Li costringe ad uscire dalle risposte più scontate, come ‘ma qui è diverso‘ o ‘ma tu sei uno psicologo‘, e permette loro di autorizzarsi a far si che ciò che hanno costruito con me sia possibile anche in altri contesti. In questo caso le possibilità di condividere la loro storia è decisamente molto più probabile e porta a risultati insperati.

Chi volesse condividere le esperienze con adolescenti (genitori, fratelli, nonni, professionisti) è invitato a farlo (mail: fabrizioboninu@gmail.com oppure telefono 3920008369). Se poi volessero parlare gli stessi protagonisti di questo post… beh, non potrebbero farmi un regalo migliore. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pietropolli Charmet, G. (2008), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 106- 108

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Complicato o complesso?

complicato‘Come riesci a fare il tuo lavoro? Ascoltare ogni giorno tutte quelle persone che ti parlano dei loro problemi, ricordarti tutto, riuscire ad aiutarle deve essere una cosa complicata!’.

Oppure: ‘ Si, dottore, fare quello che mi dice sembra una bella cosa. Solo credo che per me farlo sia complicato!’

Coloro che mi seguono, sanno della mia ‘battaglia’ per l’uso appropriato delle parole con le quali descriviamo la nostra vita, dal momento che credo, e ne sono sempre più convinto, che il modo in cui raccontiamo le cose plasmi le cose stesse. Dall’attenzione che riservo alle parole, mie e delle persone con cui lavoro, è nata questa riflessione, una riflessione sul mio lavoro e sul rapporto che si costruisce con la persona che mi si siede davanti. Tornando all’inizio, molti definiscono il mio lavoro complicato. Eppure complicato non credo che sia il termine più adatto a descrivere quello che succede in terapia. Il mio lavoro è complicato? Oppure è ‘solo’ complesso?

Ma come, direte, questi due termini non sono sinonimi? Apparentemente molto vicini, in realtà questi due termini non indicano specificamente la stessa cosa. Complicata è una realtà che, benché contorta, siamo in grado di prevedere nelle sue conseguenze, della quale possiamo immaginare un esito, che presenta delle soluzioni possibili ed immaginabili e alla quale ad alcune premesse corrispondono alcune derivazioni. Complesso, invece, ha a che fare con la possibilità che tutte le conseguenze siano ipoteticamente possibili data una situazione di base, che ci siano dei risultati che non possiamo ragionevolmente prevedere  indicare. Proviamo a fare degli esempi che ci aiutino a capire la differenza: riparare una macchina è complicato, crescere un figlio è complesso. Riparare una macchina ha a che fare con un lavoro (a me ignoto, sia chiaro!) che produce delle conseguenze prevedibili. Se ho problemi al cambio, agendo sui meccanismi dei quali il cambio è costituito, ragionevolmente mi aspetto un esito: che il cambio funzioni. Crescere un figlio è complesso perché non è un processo così lineare e preciso. Per quanto io possa impegnarmi per crescerlo ‘bene’, ci sono una serie di fattori e di variabili intervenienti che possono avere conseguenze non previste e non prevedibili che rendono qualsiasi tipo di esito ugualmente probabile. Se potessimo riassumerlo con un’immagine, sarebbe così:

 complex-and-complicated

Nelle complessità interviene qualcosa che nel complicato non interviene: la non prevedibilità. Se realtà complicate sono grosso modo prevedibili, i sistemi complessi non hanno questa caratteristica: sono difficilmente prevedibili, data una premessa non necessariamente avremo le conseguenze attese, non sono ripetibili. Aggiustare una macchina abbiamo visto come sia complicato. Riuscire a fare le previsioni del tempo è, invece, complesso. Presi in considerazione un insieme di dati (temperatura, vento, pressione atmosferica, ecc.), che costituiscono le premesse, è pressoché impossibile fare previsioni del tempo affidabili sul lungo periodo, visto che i fattori che entrano in gioco sono elevatissimi e che qualsiasi fattore può riverberare le sue conseguenze su tutti gli altri fattori andandoli a modificare. Immaginate quanto la complessità possa aumentare nel momento in cui l’oggetto con cui ci stiamo relazionando non è un anticiclone ma una persona che ha, oltretutto, la capacità di riflettere su stessa ed è consapevole di quello che sta portando avanti.

Per questo dico che le relazioni tra persone non sono complicate: sono complesse. Seguire una persona in terapia non è complicato, è complesso. Aggiungerei che è molto complesso, proprio per la serie di variabili che entrano in gioco. Per questo motivo e con queste premesse non posso approcciare realtà così diverse con lo stesso stile mentale. Una realtà complessa costringe a considerare con attenzione aspetti ai quali non si presta attenzione in una realtà complicata: in terapia non mi posso aspettare come andrà a finire. Posso lavorare verso una direzione, ma nulla mi può far pensare che quella direzione verrà intrapresa e quella meta raggiunta. Posso e devo immaginare le conseguenze di quello che sto facendo, ma quello che poi succederà lo saprò nel momento stesso in cui è successo. E le conseguenze di questo cambiamento, saranno comprensibili solo alla luce di quello che avverrà più avanti, in una continua catena di cambiamenti, correzioni, errori che costituiscono la base della nostra stessa esistenza.

Spero mi abbiate seguito fino a questo punto, perché consapevole che quello che sto facendo non è un discorso semplice, e comprendo che quello che dico possa sembrare arduo. Ma credo che faccia la differenza porre attenzione sui termini che utilizziamo, perché da essi dipende il racconto della realtà che ci costruiamo. Il punto è che troppo spesso sottovalutiamo come la nostra capacità narrativa influisca sul nostro stesso mondo, come possa modificare la nostra percezione e come questa sia influenzabile a partire dal modo che scegliamo per narrarla.  Sono, in altri termini, consapevole che sia un discorso molto complicato.

O molto complesso?  

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il Piccolo Principe e la relazione terapeutica

landscape-1431634997-il-piccolo-principe-con-la-volpeChi di noi non ha letto il Piccolo Principe? Considerato, riduttivamente, uno dei testi fondamentali della letteratura per ragazzi, credo sia uno dei testi più complessi per la molteplicità dei punti di vista dal quale può essere colto. Letto per la prima volta a scuola, l’ho ripreso diverse volte nel corso degli anni, trovandoci sempre suggestioni diverse. Ho come l’impressione che il libro cresca insieme a me, che non sia statico e finito ma mi permetta, in spazi e tempi diversi, di cogliere riferimenti e muovermi tra suggestioni che nella lettura precedente non avevo colto. Tra le varie riletture diventavo (come ormai saprete!) psicologo specializzandomi, poi, in psicoterapia familiare. L’ho (per caso?) ripreso in mano qualche giorno fa per rileggerlo, curioso di capire cosa mi avrebbe comunicato in questa fase della vita. E, ovviamente, non sono stato deluso. Tralasciando la complessità dei riferimenti sempre presenti nel testo, la suggestione in questa lettura è stata nel rapporto tra il bambino e la volpe, associando la descrizione di questo rapporto, alla costruzione della relazione terapeutica.

In generale, in ogni relazione abbiamo l’incontro di due mondi che si incontrano. La peculiarità della relazione terapeutica è forse quella che quest’ultima ha (o dovrebbe avere!) come fine la maggiore coscienza di se stessi. La relazione terapeutica è particolare perché uno dei capisaldi è la non totale reciprocità nel rapporto, aspetto che la differenzia da un rapporto amicale. È una relazione nella quale dovrebbero svolgere un ruolo determinante diversi fattori: la capacità di costruire una relazione, l’accoglienza del terapeuta, la presenza di empatia, la mancanza di giudizio per le vicende del paziente, la pazienza, la responsabilità. E forse vi starete chiedendo: come si lega questo con la storia del Piccolo Principe? Proviamo a vederlo assieme.

Ad un certo punto nella storia, il piccolo principe incontra nel suo percorso una volpe (che poi diventa LA volpe, ma ci arriveremo…) e inizia un dialogo con l’animale. Inizialmente il piccolo principe chiede alla volpe di giocare con lui, ma la volpe gli risponde che non lo può fare perché non è addomesticata e, nella sua infinita saggezza istintuale, chiede al piccolo di addomesticarla. Il piccolo principe chiede alla volpe cosa significhi addomesticare. La volpe gli risponde che vuol dire creare dei legami. Spiegando ancora:

“Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremmo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”

Primo passo nella relazione è proprio quella dell’addomesticamento, la possibilità cioè di stabilire una relazione. La relazione terapeutica può essere basata, inizialmente, sul bisogno, sulla necessità. Da questo primo movimento può nascere, con costanza, fiducia e impegno, una relazione basata sull’importanza e non più esclusivamente sull’urgenza. Altro elemento presente in questo passo è l’unicità nella relazione, il momento nel quale si ha il passaggio dall’essere una volpe tra le volpi per diventare LA volpe con la quale si intrattiene un rapporto, un riconoscimento reciproco del ruolo che ognuno di noi assume per l’altro. Questo passaggio è necessario nel momento in cui, come dice la volpe, “non si conoscono le cose se non si addomesticano”, non si riesce a comprendere una realtà con le quali non si è riusciti a stabilire una relazione. L’addomesticamento è un processo a doppio senso, non interessa solo uno dei due membri, per quanto la relazione terapeutica sia apparentemente sbilanciata dal disvelamento su un lato (il paziente) e un disvelamento minore dall’altro (il terapeuta). Ma la creazione del legame è reciproca. Ed è unica. L’unicità nella/della relazione è un principio fondamentale. Il paziente è consapevole che ogni terapeuta veda altre persone, ma deve avere la sicurezza che al momento in cui noi siamo con lui, siamo totalmente presenti e centrati sulla relazione che in quel momento abbiamo nel rapporto con lui:

“(…) Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

La relazione ha la capacità di significare il nostro mondo. All’interno della relazione le cose acquistano un diverso valore e un campo di grano, che non ricordava nulla alla volpe, diventa significativo nel momento in cui viene associato al colore dei capelli del bimbo. È la relazione col piccolo principe a dare senso al grano. Così, nella relazione terapeutica, è la relazione stessa la base del cambiamento di senso del mondo del paziente

Uno degli aspetti più rilevanti per l’addomesticamento è sicuramente la pazienza:

Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”

L’avvicinamento è costante e graduale. La relazione, qualunque essa sia, è inizialmente fondata sulle parole. Ma da subito, ad un livello che non riusciamo neanche a capire e spiegare, possono intervenire fattori non legati esclusivamente alla comunicazione verbale. Sappiamo subito, a pelle, se una persona può piacerci oppure no. È un aspetto inconscio che nella relazione terapeutica è basato anche sulla fiducia, sull’empatia, sull’accoglienza, sulla mancanza di giudizio.  

Altro aspetto rilevante nello strutturare la relazione terapeutica è la costanza:

“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai ancora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”

Come accennato, la costanza è una parte rilevante nella strutturazione della relazione terapeutica. È necessario il rispetto di alcune regole nella costruzione della relazione, che all’inizio appaiono costrittive ma che strutturano la costruzione relazionale della stessa. È necessario prepararsi il cuore prima dell’incontro? Io credo di si, credo sia necessario ‘sintonizzare’ il proprio cuore con quello della persona che deve venire. E questo ha a che fare con l’unicità nella relazione terapeutica stessa:

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente,” disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora per me unica al mondo”.

Nessuna rosa/persona è uguale all’altra, e solo il suo addomesticamento, la costruzione di una relazione con essa, permette di dare un significato a quella rosa/persona.

Ma qual è il fine della relazione terapeutica? Io credo che l’obiettivo sia la costruzione di una maggiore consapevolezza della persona e la si può ottenere accompagnando la persona stessa nell’esplorazione del suo mondo interiore, l‘anima

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”

La costruzione del rapporto può avvenire anche in maniera non verbale, ma istintuale e inconscia, senza mediazione visiva o linguistica. Chiave di accesso per questo mondo è una delle doti fondamentali del terapeuta l’empatia, la capacità cioè di relazionarsi intimamente con l’altro, avvicinandosi al suo sentire, accogliendolo e comprendendolo, dando la possibilità all’altro di far emergere e condividere la sua realtà interiore.  

All’interno della relazione terapeutica altro spazio fondamentale è la responsabilità

Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa”  

Ho fatto mia questa frase. Mi sento pienamente responsabile, anche a distanza di tempo, delle rose che ho avuto la fortuna di incontrare in tutti questi anni di professione. Ho cercato di stabilire una connessione con ognuna di loro, addomesticandole e venendone addomesticato. 

Anche nella relazione terapeutica può arrivare, come in ogni relazione, il momento di separazione, un momento nel quale il cammino di due persone può portarle ad allontanarsi l’una dall’altra. È un momento importante, spesso etichettato come triste:

“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”.
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe…
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

Ci si può focalizzare su due momenti alla fine della relazione: il momento della perdita, il fatto che le cose ‘stiano finendo’, ma ci si può concentrare anche sulla gratitudine dell’incontro, sull’essersi trovati. Le persone tendono a focalizzare la loro attenzione sul primo aspetto, scordandosi di quanto ci si è arricchiti nell’incontro. Anche questo essenziale è invisibile agli occhi ed è il concetto stesso di perdita che altera l’idea dell’incontro. Non c’è perdita, né di relazione, né di tempo. D’altronde:

“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”

E se il tempo che abbiamo dedicato loro le ha rese così importanti non si comprende dove sia la perdita!

Poi soggiunse: 
“Và a riveder le rose. Capirai che la tua è unica al mondo” [1] 
E sono sempre più convinto che ognuna delle rose che ho (e mi hanno) addomesticato sia unica al mondo.

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Antoine De Saint-Exupéry (1949), Il Piccolo Principe, Bompiani, Milano pp. 91-98

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#Iononriparo (2)

just-love

–  Attaccare continuamente l’autoconsapevolezza del reprobo, tramite l’istigazione alla confusione, all’incertezza e all’insicurezza, la promozione di ogni dinamica di autosqualifica e l’imposizione di immagini degradate precostituite. Si lede in questo modo nelle persone omosessuali un diritto umano cruciale: quello di potersi valorizzare nelle forme affettive amorose che più corrispondono alla propria autenticità. Si impedisce al diverso di esprimersi alla pari con gli altri: è la strada maestra per raggiungere anche tutti gli altri obiettivi. In questo modo si impedisce al deviante – e ai suoi familiari – ogni alternativa esistenziale, sociale, etica e prima ancora psicologica. Egli deve vedere davanti a sé solo la distruzione di ogni prospettiva e del futuro, una completa mancanza di speranza e di senso, perdendo ogni sfiducia e aspettativa di bene.

–  Impedire in tutti modi che il soggetto elabori una visione alternativa positiva di sé e della propria affettività: ogni tecnica deve essere impiegata per rendere il soggetto incapace di operare un distacco dalla visione negativa in cui è cresciuto. Egli deve trovarsi così senza punti di riferimento, bandito e disprezzato dalla comunità di appartenenza, squalificato eticamente e psicologicamente e dunque leso nel proprio Sé. Deve arrivare ad autoaccusarsi di negare i valori di correttezza, di seguire le leggi di Dio, della natura, dell’ordine fecondo del mondo.

– Sottoporre le persone omosessuali – e la loro famiglie – a predizioni negative catastrofiche, imputando loro un destino maligno e infelice; e lanciare profezie di sventura perché fatalmente sia avverino. D’altronde, è facile fare profezie negative sul triste destino degli oppressi, perché distruggere le possibilità è assai più facile che costruirne. Ecco perché in questi testi c’è un’insistenza drammatica sulla disperazione e la negatività di ogni cosa che riguarda il gay, così come una massificazione deterministica. Perché se venisse fuori che tante sono le possibilità e le forme di vita, allora vorrebbe dire che differenti sono i destini che le persone omosessuali possono avere. E, dunque, è possibile sottrarsi al percorso nefasto che si vorrebbe loro imporre come destino. Addirittura, è possibile vivere serenamente. Che fine farebbero, allora, le minacce alle profezie apocalittiche così facilmente sollecitate? [1]

Divisione, contrapposizione, espulsione, istigazione, patologizzazione sono solo alcune delle caratteristiche di questo tipo di teorie che basano il loro successo sulla divisione tra una (presunta) normalità da perseguire e un’anormalità da colpire e ostracizzare. Questo bisogno di etichettamento porta a non considerare la storia dell’individuo, le sofferenze che, spesso per la colpevole repressione sociale che ancora circonda le scelte sessuali individuali, caratterizzano la sua vita e anzi, approfittando di questa debolezza e di questo bisogno di (presunta) normalità, cerca di instillare il bisogno di accettazione nel paziente insistendo su quanto potrebbe essere migliore una scelta sessuale che sia socialmente approvata e non repressa ed ostacolata e come questo potrebbe significare minore sofferenza per il soggetto stesso. Quest’ultimo, affidandosi e fidandosi del suo terapeuta, ritiene che una scelta di questo tipo possa essere preferibile e possa evitare alcune sofferenze sebbene sia una scelta che  si accompagna alla repressione e al rinnegare i propri istinti più naturali, più ‘normali’ proprio perché innati

É contro questo tipo di deriva patologizzante che ci siamo impegnati, mettendoci anche la faccia, per ribadire la scorrettezza di questo tipo di pratiche. Pressioni di questo tipo sono profondamente scorrette qualunque sia il tema, dal momento che il terapeuta non ha il compito di dire al suo paziente cosa debba fare/essere, quanto di cercare di capire con lui quali scelte siano più adatte nella sua vita.  E, non dimentichiamolo, costituisce una violazione profonda del Codice Deontologico degli Psicologi il quale, all’articolo 3, sancisce come lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale.

Insomma ancora una volta il rispetto della persona che ci si siede davanti dovrebbe venire prima di tutte le nostre considerazioni personali, morali o religiose che siano. Questa attenzione è premessa per me indispensabile per svolgere con correttezza e attenzione il delicato lavoro che abbiamo scelto di portare avanti. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure commentando il post.  

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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#Iononriparo (1)

just-loveQualche tempo fa io e la mia collega Carla Sale Musio, aderendo alla campagna nazionale di sensibilizzazione sul tema, abbiamo pubblicato la foto con la scritta #iononriparo. Molti contatti ci hanno chiesto cosa volesse dire quel cartello, a cosa si riferisse e cosa non riparassimo. La maggior parte delle persone pensava fosse legato al fatto che ‘non ripariamo i matti’, e che semplicemente aiutiamo le persone ma non le aggiustiamo. Sicuramente è vero che, nel senso letterale del termine, non ‘ripariamo’ nessuno, ma in realtà il focus di quella campagna era molto più specifico e si riferiva alla netta contrarietà che noi, e moltissimi altri colleghi, nutriamo nei confronti delle cosiddette teorie riparative nei confronti dell’omosessualità. Grazie a questa foto, mi sono reso conto che poche persone conoscono queste posizioni e sarebbe forse il caso di cercare di capire cosa siano e su quali princìpi si basino. Le cosiddette teorie riparative, dette anche terapie di conversione, sono terapie che hanno come finalità la negazione dell’orientamento sessuale dell’individuo e il suo riorientamento verso una sessualità percepita come normale, quindi sostanzialmente ed esclusivamente la sessualità eterosessuale. Le terapie di conversione basano la loro efficacia sulla repressione del proprio desiderio primario per l’assecondamento di un desiderio sessuale considerato più ‘normale’ o socialmente accettato. Gran parte di queste teorie sono sostenute da psicologi o terapeuti fortemente legati ad organizzazioni religiose, ottica che necessariamente altera da principio il lavoro con la persona omosessuale. Queste posizioni sono fortemente osteggiate dalle associazioni di psicologi e psichiatri, sia americani che europei, in quanto forzerebbero la terapia con il paziente verso esiti imposti socialmente e contribuirebbero all’associazione omosessualità=malattia, associazione rinnegata da tempo da tutte le più importanti organizzazioni internazionali di psicologi, nonché dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Quali sono i princìpi sui quali queste teorie si basano? Quali sono le premesse che fondano questa classificazione tra una sessualità ‘accettata’ e una invece inaccettabile e da modificare? Questo lavoro è basato sulla disanima fatta nel testo Curare i gay?(in fondo al post, come sempre, trovate tutti i riferimenti bibliografici) che ha provato a classificare i presupposti metodologici dei quali questo tipo di teorie si fa forte:

– Contrapporre in modo rigido identità maschile e femminile, dentro l’unico ordine naturale possibile, quello eterosessuale. Dunque tutto ciò che si discosta da questo schema binario non può che essere patologia o peccato, più spesso tutti e due.

– Sottoporre l’omosessualità di cui il soggetto è malato a ogni sorta di denigrazione e squalifica – psicologica, etica, religiosa – e precludere al soggetto stesso ogni bene e valore in cui pure il soggetto crede e che gli viene imputato di negare per definizione a priori.

– Contrapporre in modo insanabile il bene e il male, secondo una logica “tutto o nulla”.

– Espellere l’omosessualità dall’Ordine dell’umanità: essa non esiste se non come patologia, chi vuole farne un’identità si contrappone ai principi e alle forme eterne in cui si incarna il progetto di Dio per l’umanità.

– Legittimare, non condannandolo, l’odio sociale, il disprezzo fino all’ostracismo, fino agli attacchi fisici – a partire dalla riprovazione fino all’espulsione da parte della propria famiglia; se il deviante è soggetto all’isolamento e all’emarginazione, che implica la mancanza di ogni supporto, questo è una conseguenza del suo essere. 

– Instaurare un vero e proprio processo di patologizzazione basato sulla disumanizzazione delle persone omosessuali, per arrivare a contestarne l’esistenza. Tale processo si svolge attraverso varie tappe: separare “gli omosessuali” da “i normali”; indicarne le tappe di una progressiva degenerazione; evidenziarne i segni patologici affinché i sani possano esercitare il proprio acume diagnostico; eliminare tutto ciò che contrasta con questa visione, fino a leggerne i segni positivi come contro reazione compensatore fraudolenta; costruire una visione catastrofica deterministica del loro destino; evitare sempre di analizzare il contesto in cui diversi sono costretti a vivere. Viene instaurato un circolo vizioso autogiustificantesi: dal metaforico si passa al corpo e poi al simbolico e quindi al comportamento. Dal disordine del desiderio si passa alla immoralità del comportamento, al danno provocato al proprio fisico, rintracciando in esso i segni che dicono la morbosa malvagità del gay, e poi di nuovo si giunge alla condanna psicologico-morale, stabilita definitivamente in sede etico-religiosa: i gay sono moralmente disonesti perché oggettivamente disordinati.

– Strutturare così un perfetto meccanismo di circolarità paranoica, che genera generalizzazione (“tutti gli omosessuali sono uguali”, cioè malati, ma anche “tutti i gay sono uguali”, cioè perversi), personalizzazione (ciò che vedo dei comportamenti è proprio come la persona è), insensatezza (per essere così devono per forza avere qualcosa di sbagliato), deresponsabilizzazione (se sono così è solo colpa loro). Quando si fa fatica a trovare ciò che si cerca, lo si suppone, e allora scatta il delirio di riferimento e di persecuzione: è il grande complotto della lobby gay, la congiura degli insospettabili corrotti contro gli innocenti.

 

– CONTINUA –

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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Tre diversi modi di essere in terapia (3)

Dopo aver visto le prime due posizioni, vediamo la terza ed ultima possibilità esposta da Whitaker:

Un terzo modello può essere definito come ridare potere al paziente o alla famiglia. Questo approccio è utile quando l’adulto si sente debole, desideroso di appartenere, è prostrato dal fallimento, vorrebbe far parte di una squadra, riassumere la responsabilità di se stesso, ma non sa come fare. Il terapeuta diventa quindi un padre, che esorta, chiede, crede che il paziente sia in grado, se si sforza, di adattarsi allo stress. In questo caso il compito del terapeuta consiste nel richiedere al paziente di acquistare forza, senza offrirgli però un sostegno diretto, come fa un allenatore di una squadra di calcio quando incoraggia i giocatori ad aumentare la loro capacità aerobica, a mettercela tutta, a essere spontanei e a prendere iniziative. Il terapeuta deve avere potere e controllo solo su alcuni aspetti limitati della vita del paziente – essenzialmente sulla durata e sul tipo di esercizio da fare, sul luogo e l’ora dell’allenamento. Se questo metodo è successo il paziente continua a ‘tenere in gioco la palla’, sarà gratificato da sui progressi. Vi è comunque un periodo iniziale, nel quale ‘l’allenatore’ deve forzare il ‘giocatore’ a riprendersi il potere: il terapeuta deve spingere il paziente a definire il suo gioco, la propria partecipazione, a scegliere con lui la più congeniale, che può dargli soddisfazione con il minor dispendio di energie. A quel punto l’allenatore, il terapeuta, diventa un tifoso, che si rallegra per i progressi e i sogni del paziente.

Questa è quella che Whitaker stesso definisce come posizione paterna, una posizione che riguarda la possibilità di intervento supportiva del terapeuta nei confronti del paziente. In questo caso più che la dipendenza, il problema può essere quello legato allo sprono da parte del terapeuta che, almeno inizialmente, deve, proprio come nella metafora dell’allenatore, motivare il proprio giocatore e obbligarlo a costruire e tracciare il proprio percorso. Per quanto si ripeta spesso che la terapia dovrebbe essere un accompagnare il paziente all’interno del suo stesso percorso, si palesa una posizione che in terapia è spesso necessario tenere, almeno nelle prime fasi iniziali del processo stesso.

L’autore utilizza il termine di ‘forzatura’, che appunto, perlomeno inizialmente, è necessario utilizzare affinché il paziente possa riappropriarsi della sua posizione. Dovendo superare un insieme di automatismi che ormai conosce bene, il paziente deve essere spinto verso una nuova prospettiva. Il lavoro è molto delicato perché il terapeuta deve sapere dove fermarsi dal momento che, se imponesse la sua visione al paziente, starebbe, come nella prima posizione, assumendo per vero lo stereotipo che, all’interno della relazione terapeutica, sia lui quello che sa come fare. Incorrerebbe, in questo caso, nella stessa posizione di onnipotenza che spesso porta la terapia a falsi avanzamenti e continue ricadute del paziente stesso.

Come dice lo stesso Whitaker: Il meta-problema, in tutte queste forme di psicoterapia, è come far si che il terapeuta impari a perfezionare il proprio ruolo terapeutico, senza diventare schiavo né della dipendenza del paziente, né delle proprie fantasie di potere. Il pericolo che corre il terapeuta è simile a quello che corre una madre: è quasi impossibile modificare il proprio ruolo e porsi su un piano di parità con qualcuno che, un tempo, era nostro figlio! 

Perfezionare il ruolo di psicoterapeuta richiede una difficile fusione tra la capacità di essere persona e la capacità di entrare in un ruolo e credo sia una di quelle cose che, con una espressione inglese, viene definita lifelong learning , qualcosa per imparare la quale occorra tutta una vita. Credo che l’importante sia avere la consapevolezza della delicatezza ed importanza del proprio ruolo nei confronti della vita dell’altro. Solo così è possibile evitare di cadere nella trappola dei propri stereotipi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 174

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Tre diversi modi di essere in terapia (2)

Abbiamo già visto una delle diverse posizioni che possono essere assunte all’interno del rapporto psicoterapeutico. Dopo aver visto un primo orientamento, quello che vedeva un terapeuta esperto e un paziente ‘dipendente’ vediamo un secondo orientamento. Il brano che vi riporto è tratto, come nel primo post, dal testo Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, di Carl Whitaker e ve lo riporto integralmente:

Un secondo orientamento psicoterapeutico è basato sull’offerta di un modello di ristrutturazione. Di solito questo si fonda sull’intuizione, la comprensione, l’analisi e sul tentativo di dimostrare che il terapeuta conosce il segreto di una vita migliore. Considerando il fatto che la sofferenza e l’impotenza rendono il paziente insicuro, l’apprendimento di queste nuove tecniche può essere molto utile. Il rischio è, ancora una volta, che il fascino della dipendenza e della mancanza di iniziativa prenda il sopravvento, trasformando il paziente in un adolescente che si dibatte oscillando fra il suo bisogno di dipendere e il suo desiderio di essere indipendente, fra la paura di perdere il proprio senso di identità e quella di soffocare la propria creatività. [1]

Questa posizione sembra molto più equilibrata rispetto alla posizione vista con il primo esempio. In questo caso il terapeuta non si fa conquistare dal fascino della posizione che il paziente cerca di attribuirgli (tu sai come fare!) ma si preoccupa semplicemente di fornire un ‘modello di ristrutturazione’, un modello alternativo a quello che è il modello del paziente.

Se, volendo esemplificare, il paziente si raccontasse come vittima della malevolenza della moglie, e che attorno a questo tutta la sua vita ha assunto dei contorni tragici, scopo della terapia potrebbe essere quello di introdurre un nuovo punto di vista che possa permettere al paziente di ristrutturare la propria immagine e non vedersi solo, come nel’esempio, vittima della moglie. Si tratterebbe in questo secondo caso, di capire cosa, per esempio, ha fatto si che questo marito accettasse la malevolenza della moglie e quale significato avrebbe questo per lui. Questa nuova lettura può aprire prospettive interessanti perché permette di scardinare storie ormai sedimentate nelle quali spesso ci riconosciamo senza avere più la possibilità di metterle in discussione.

Anche in questo caso è necessario prestare particolare attenzione alla posizione del terapeuta dal momento che questo lavoro oscilla tra il bisogno di smarcare il paziente e renderlo indipendente e il bisogno del paziente di coltivare la dipendenza nel rapporto. Questa posizione può essere elaborata accogliendo le richieste del paziente, ma utilizzando qualunque richiesta stessa per lavorarci assieme in terapia, dotarla di significato e renderla esplicita nella relazione terapeutica stessa. Nel momento in cui questo viene esplicitato nel rapporto infatti, è possibile lavorarci col paziente ed è possibile che il paziente stesso, grazie alla consapevolezza acquisita, possa utilizzarlo come strumento di una nuova cognizione di se. 

– Continua –

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 173

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Tre diversi modi di essere in terapia (1)

tre diversi modi di essere in terapiaIl post di oggi ha a come obiettivo quello di cercare di delineare quelle che sono le diverse ‘tendenze’ all’interno di un percorso di terapia. Molti spesso credono che ci sia un solo modo di fare terapia, come se uno psicoterapeuta, una volta che ha imparata una tecnica, la potesse pedissequamente applicare ad ogni persona con la quale ha la fortuna di trovarsi a lavorare. In realtà la ‘materia’ della psicoterapia, la persona o il gruppo con cui si lavora, è materia liquida, complessa, ed è per questo che non si può fare a priori una definizione o una delineazione di quello che succederà in terapia, data la costruzione stessa del rapporto terapeutico che non può essere inquadrato in regole o in classi. E’ possibile, ed è questo che proviamo a fare oggi, cercare di delineare uno ‘stile’ di terapia, un modus operandi che il terapeuta applica all’interno del suo lavoro. Questo post è basato sulle posizioni e sulle considerazioni dello psicoterapeuta americano Carl Whitaker che nel suo bellissimo libro Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, cerca di delineare alcune riflessioni su cosa voglia dire essere uno psicoterapeuta e su come questo mestiere debba interagire con l’altro. Vi riporto i tre modi con cui Whitaker cerca di delineare degli ‘stili di terapia:

Il primo è l’eliminazione del sintomo. Il paziente la famiglia arrivano in uno stato di carenza emotiva, simili a bambini indifesi, insicuri ed incapaceidi agire, per mancanza di nutrimento, di forza, di opportunità di crescita. La risposta più ovvia a questi sintomi è l’offerta di nutrimento  e di cure di una madre affidataria. Il rapporto che si crea è molto simile a quello di un maestro che incoraggia il bambino a leggere, studiare, a imparare, a creare, stimolandolo sempre di più ad apprendere. Uno dei problemi principali che derivano da questo atteggiamento è la sindrome ‘mamma sa tutto’.

Il terapeuta escogita sempre nuovi trucchi per cambiare le cose, ma finisce per far perdere completamente al paziente la libertà di prendere iniziative. Questo significa che il paziente e la famiglia diventano sempre più dipendenti e dubitano sempre di più di se stessi, mettendo il genitore affidatario nella temporanea ma gratificante situazione di essere un Dio onnipotente. A quel punto il genitore affidatario deve trovare il sistema per risolvere una situazione simile, per molti aspetti, a quella che di un bambino nel distaccarsi dalla famiglia, in un’età in cui ha ancora bisogno di dare e di ricevere affetto. [1]

Il primo modo è il modo in apparenza più semplice. Si tratta di delineare all’interno della relazione chi sa (il terapeuta) e chi non sa (il paziente). Chi sa deve prodigarsi affinché chi non sa abbia una soluzione al problema per il quale è venuto e ha iniziato una terapia. Questo porta a due conseguenze entrambe pericolose se non maneggiate con consapevolezza dal terapeuta: chi non sa ottiene una soluzione a sua misura, ma indirettamente riceve la conferma che se non ci fosse stato l’intervento del terapeuta non avrebbe saputo come fare e quindi rinforza in se stesso l’idea di non ‘saper fare’ autonomamente.

Il terapeuta può, invece, crogiolarsi nel ruolo di colui che ‘sa come/cosa fare’, crederci in blocco e passare dalla posizione aperta di terapeuta (ti aiuto ad aiutarti) alla posizione chiusa di guru (fai come ti dico). In questa posizione la libertà del paziente è messa a dura prova, perché penserà di avere sempre bisogno del supporto del terapeuta per poter procedere, mentre l’onnipotenza del terapeuta ne uscirà rafforzata perché si alimenterà di un nuovo caso nel quale i suoi consigli hanno apparentemente risolto la situazione. Credo che questo, se il terapeuta non è consapevole di ciò che sta avvenendo, non sia un buon modo di fare terapia per varie ragioni: non si rende indipendente il paziente all’interno delle sue scelte e si coltiva la disparità di ruolo all’interno della relazione terapeutica (io terapeuta so vs. tu, paziente non sai).

– Continua –

[1]Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 173

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