Il compito degli educatori

Cuore-Mary

E’ più facile insegnare che educare,
perché per insegnare basta sapere,
mentre per educare è necessario essere
– Alberto Hurtado –

 

Quando accadono fatti di cronaca nera che coinvolgono bambini o adolescenti, vengono citate, tra le cause di quello che succede, la mancanza di figure educative che possano in qualche modo porre freno alla deriva apparentemente senza fine di questi fatti terribili. Chi è un educatore oggi? Il termine è veramente molto vago e potrebbe delineare tutti coloro che si occupano a vario livello di persone che abbiano bisogno di una guida. Sicuramente è un educatore il genitore, è un educatore l’insegnante, è un educatore l’allenatore sportivo.

Secondo il dizionario Treccani, l’educatore è colui il quale ‘educa, e soprattutto chi per vocazione o per professione compie l’ufficio di educare i giovani’. Punto principale di questa definizione è il termine educare: l’etimologia del termine deriva dal latino e-ducere, letteralmente condurre fuori, ma anche trarre da e sottolinea il lavoro maieutico di portare fuori l’adulto dal ragazzo, di riuscire ad insegnargli a come diventare grande. Se non ci sono dubbi sul fatto che gli adulti abbiano questo immenso potere, ce ne sono invece tanti sul come si fa l’educatore. 

Gli insegnanti o i formatori continuano a fare interventi caratterizzati dalla tendenza a spiegare, a moraleggiare, puntando esclusivamente sugli argomenti logici o sugli sforzi informativi. Siamo portati con i soggetti in età evolutiva ad esortare e a fare la predica. Ci convinciamo che il fulcro della nostra missione sia consigliare, offrire suggerimenti o soluzioni. Come educatori tendiamo sempre prima di tutto ad insegnare, argomentare, persuadere; per allontanare la complessità e la sofferenza possiamo rassicurare, simpatizzare, consolare, sostenere; quando il disagio in noi aumenta allora attendiamo a sottrarci, cambiare argomento, scherzare, distrarre; infine quando gli allievi non corrispondono più alle nostre aspettative allora etichettiamo, ridicolizziamo, umiliamo, giudichiamo, critichiamo, biasimiamo, diamo ordini, minacciamo… Magari in nome di una cultura democratica.

Siamo insomma disposti a fare di tutto per fuggire dal compito arduo dell’ascolto delle emozioni e delle storie dei nostri interlocutori. I bambini, i ragazzi che hanno difficoltà ad accettare l’altro, così come quelli che vivono l’esperienza di essere considerati diversi, sono soggetti che hanno massimamente bisogno di un ascolto attivo. Dietro la rabbia, l’arroganza, il disprezzo, l’onnipotenza che sottendono i comportamenti razzisti violenti, ci sono a ben vedere sentimenti che tendono ad essere mascherati, negati e trasformati nel loro contrario: la solitudine che spinge alla coesione compensativa del gruppo violento, l’impotenza che si tramuta in arroganza onnipotente, la paura che diventa il coraggio nei confronti dei più deboli magari perché provenienti da altrove. E ascoltare, per un educatore, non significa certo accettare schemi violenti a manipolatori, bensì favorire una circolarità dell’ascolto, promuovere nel gruppo classe la possibilità di lasciare esprimere e legittimare sentimenti, punti di vista, storie di vita che hanno una loro radicale originalità. [1]

Il punto che reputo importante del passo che vi ho riportato è la difficoltà che spesso gli adulti hanno nel rapportarsi con la realtà emotiva dell’altro. Presi come siamo dal voler imporre, con difficoltà riusciamo (se ci riusciamo!) a fermarci ad ascoltare la realtà dei ragazzi, condividerne la visione del mondo, comprendere le scelte, supportarne le paure. Il confronto coi ragazzi, e parlo per esperienza diretta, richiede, prima di entrare in contatto con l’altro, l’entrare in contatto profondo con se stessi, con le proprie paure, con la propria visione del mondo. Ed è un terreno  nel quale non ci piace avventurarci, specie se diamo per scontato che diventando adulti abbiamo anche acquisito il potere di non dover più confrontarci con parti di noi che non ci piacciono e che non hanno necessità di essere rinvangate.

Il confronto coi ragazzi invece ci porta spesso su quel terreno e faremmo di tutto per evitarlo. Più evitiamo questo confronto, più ci irrigidiamo nei confronti del bambino/ragazzo, più questo sente la nostra distanza rendendo questo un circolo vizioso che si alimenta di continuo, diventando problematico spesso durante l’adolescenza, età nella quale tutte le dinamiche appaiono particolarmente amplificate. Come si spezza il cerchio? Con l’ascolto, un ascolto attivo, un ascolto partecipe, un ascolto interessato, che faccia sentire l’altro coinvolto in quello che ci riguarda. Un ascolto che parta dal nostro stesso ascolto, dalla conoscenza, dalla comprensione e dall’accettazione di quello che noi sentiamo e proviamo. Solo in questo modo potremmo metterci a disposizione per l’altro. Non è sicuramente una cosa facile: dopotutto anche a noi è stato insegnato di crescere mettendo da parte quanto più possibile la nostra realtà emotiva.

Solo recuperando quello che ci appartiene possiamo utilizzarlo come ponte per comunicare con chi, in fondo, vuole essere aiutato a tirare fuori  e a capire come maneggiare quello che sta faticosamente iniziando a sentire. 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, pag. 185

 

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Alunni, insegnanti & Facebook

Alunni, insegnanti & FacebookEccoci nuovamente a settembre. L’inizio di un nuovo anno scolastico porta sempre con sé un misto di paure e desideri. Lavoro spesso con ragazzi che frequentano le scuole e mi capita di interagire anche con i loro insegnanti. Il rapporto tra questi due ruoli è sempre stato complesso e delicato nella nostra società per la funzione che svolgono ma, negli ultimi tempi, si è aggiunto un fattore nuovo, i social network come Facebook o Twitter, che rendono il quadro ancora più complesso. Avendo a che fare con persone che si occupano di scuola, capita  di sapere che i ragazzi chiedano di interagire in tanti modi, così che possano avere un contatto diretto con, per esempio, gli insegnanti. Hanno la mail personale, spesso formano con altri studenti gruppi su Whatsapp che consentono di comunicare con tutti i membri della classe, hanno i contatti di Facebook tramite i quali possono interagire con gli insegnanti stessi.

Da questa disponibilità nasce il dilemma: questa possibilità di contatto aiuta od ostacola il rapporto tra alunni e docenti? Credo che l‘interazione possa essere particolarmente proficua per entrambi gli attori in gioco sempre che si sia consapevoli dei mezzi che vengono utilizzati e, soprattutto, che vengano osservate alcune semplice regole da ambo le parti: entrambi dovrebbero per esempio prestare attenzione a non sovrapporre il proprio profilo scolastico con quello privato: quest’ultimo dovrebbe, a mio avviso, essere distinto da quello che si usa per scuola. La sovrapposizione e mescolanza di profilo pubblico e privato ingenera una serie di confusioni che non sono facilmente gestibili nell’ambito di un rapporto come quello tra alunni ed insegnanti.  

Altro fattore che gli insegnanti dovrebbero prendere in considerazione riguarda lo sbilanciamento di potere nel rapporto tra loro e gli alunni. Il rapporto infatti non è paritario, ed è impossibile che lo diventi nel momento in cui sono amici su Facebook. La relazione è sbilanciata da una serie di disparità, prima fra tutte quella per cui un professore, per lavoro, giudica il suo alunno. Sarebbe più proficuo, quindi, non giocare a fare gli amici dei propri allievi: i ragazzi possono trovare amici tra i coetanei; se ricercano la presenza di un adulto è perché desiderano qualcuno che, affiancandoli, possa aiutarli nelle loro scelte

Da questo punto ne consegue un altro: se i professori e gli alunni condividessero la bacheca di Facebook questo probabilmente potrebbe portare ad una minore libertà e ad una minore spontaneità nel comportamento dei ragazzi. Tanto per fare un esempio: come potrebbero dei ragazzi scherzare su un professore della loro scuola se uno stesso insegnante della scuola è presente e legge le loro bacheche? Anche se virtuale, la bacheca di Facebook (o di Twitter, o di Instagram ecc) è uno spazio privato anche se nell’era della condivisione totale andrebbe ridefinito il significato delle parole privato o pubblico. Proprio questa possibile confusione potrebbe ingenerare fraintendimenti complicati da gestire rispetto al ruolo, alla professione, al pubblico e al privato, al rapporto che si può costruire tra alunni e insegnanti.

Quale soluzione può esserci? Ostracizzare il mondo virtuale come luogo di comunicazioni non rientra nei miei obiettivi (sarebbe abbastanza strano screditare un aggettivo che compare nel nome del mio sito!), ma credo sia necessario trovare un modo per interagire che possa permettere ad entrambi gli attori in gioco di far si che l’esperienza sia positiva. Se per esempio i ragazzi potessero accedere ad una pagina di discussione con gli insegnanti che fosse solo professionale, si potrebbe creare uno spazio di incontro ulteriore tra alunni ed insegnanti. 

La materia è attualmente discussa e diverse sono le correnti di pensiero. Alcune scuole nel mondo sono arrivate a vietare per regolamento questo tipo di realtà: (qui un articolo che si occupa della materia). In Italia non si hanno ancora notizie di scuole che abbiano fatto passi di questo tipo. Insomma una materia in divenire, che rende necessario riflettere circa una maggiore consapevolezza nell’utilizzo di questi mezzi. 

Come sempre se ci fossero insegnanti o ragazzi o genitori che volessero/potessero condividere la loro esperienza possono farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Cosa chiedono gli insegnanti alla scuola?

Cosa chiedono gli insegnanti alla scuolaDopo il post Cosa chiedono i genitori alla scuola?  è venuto il momento di affrontare l’altro punto di vista quello degli insegnanti. Il rischio, se non si prendono in considerazione più punti di vista in gioco, è il fatto che ogni soggetto del contenzioso è convinto che la responsabilità sia completamente dell’altro senza valutare che questo gioco disfunzionale si alimenta con il contributo di tutti, perché ognuno fa qualcosa che non dovrebbe fare e non fa ciò che dovrebbe fare. [1] Uno dei primi e più importanti errori di valutazione è proprio questo: essere convinti che la responsabilità di ciò che succede all’interno di un sistema come quello scolastico, sia di una e non invece delle parti. Come attori in gioco sullo stesso piano, andrebbe tenuto presente, infatti, che ogni singola parte gioca un ruolo fondamentale nella definizione del tutto e che qualunque azione, anche la più lieve possibile, produce delle conseguenze sulle altre parti del sistema stesso. Torniamo al tema: cosa chiedono gli insegnanti ad un genitore? Sostanzialmente di essere sicuro e fiducioso delle scelte che compiono la scuola nel suo complesso e i singoli insegnanti (…) nei confronti di suo figlio e soprattutto di essere riconosciuta capace di leggere altro rispetto a ciò che il genitore sa del proprio figlio perché la realtà della classe, che è condizione di confronto e a volte anche di scontro, è diversa da quella di casa, e perciò i comportamenti del singolo alunno possono essere molto diversi da come il genitore se li immagina. I docenti sono stanchi di non essere creduti solo perché dicono qualcosa di diverso da quello che i genitori vorrebbero sentirsi dire sul proprio figlio. [1]

Questo passaggio è molto importante perché contiene una delle critiche maggiori che i genitori rivolgono agli insegnanti quando viene fatto notare loro che il figlio, all’interno del contesto scolastico, non è quel docile agnellino che loro sono abituati a vedere in casa. Questo rilievo provoca spesso, nei genitori, un senso di spaesamento, come se fossero stati messi di fronte al fatto che non conoscono il loro figlio. La reazione può essere diversa, ma quella tipica non è mettere in discussione la veridicità di quello che viene loro detto, quanto il fatto che l’insegnante non capisca, non riesca a leggere tra le righe del loro figlio. Ma se lo fraintende così tanto, o non lo conosce o non lo capisce, come può quello essere un buon insegnante? E come può una scuola seria accettare nei suoi ranghi un insegnante così poco capace di leggere i suoi alunni? Insomma,  il passo per una squalifica ben più ampia è veloce e può portare non solo ad estremizzare le posizioni ma anche a cercare alleati (gli altri genitori i cui figli avranno le stesse possibilità di non essere conosciuti bene!). Un punti nodale che dovremmo sempre tenere a mente riguarda, secondo me, il considerare sempre il sistema all’interno dei quali gli individui si muovono.

Se è vero che vostro figlio può essere il bambino più bravo del mondo in casa, è vero che a scuola, all’interno di un sistema più ampio e ben più complesso, si trovi ad affrontare e a reagire ad aspetti che a casa non possono succedere. D’altronde non c’è niente di più facile che pensare alle innumerevoli variabili all’interno del mondo scolastico che possono tramutare un bambino tranquillo in un bambino più complesso da gestire: altri compagni, contesto competitivo, continue richieste, compiti, esposizione, prestazione ecc. Quale bambino potrebbe comportarsi perfettamente come in un ambiente domestico? Il punto allora è: quanto possiamo accettare di non conoscere nostro figlio? Purtroppo le conseguenze di questa scoperta, apparentemente non piacevole, può portare a prendercela con la scuola che, pensiamo, non sappia capire o non sappia valorizzare il nostro ragazzo. Fermarsi e considerare tutti i possibili fraintendimenti, può essere particolarmente risolutorio nel momento in cui, invece di accusare o di delegare, ci si ferma a capire il nostro ruolo in tutto questo. Certo non è un compito facile, ma se lo si affronta dal punto di vista strutturato, può veramente far percepire la possibilità che si possa costruire un vero e proprio patto formativo che preveda l’interazione e l’integrazione dei diversi attori in gioco: scuola-genitori-ragazzi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pp. 20-23

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Cosa chiedono i genitori alla scuola?

Cosa chiedono i genitori alla scuolaCome vi avevo raccontato in un post di qualche tempo fa (La complessità sui banchi di scuola(1) e (2)), tra le varie esperienze di quest’anno, ho avuto modo di lavorare in una scuola di Cagliari per cercare di intercettare e risolvere il clima di compromissione collaborativa che si stava instaurando tra la scuola e i genitori dei ragazzi. Mi sono accorto, per la prima volta dall’interno, di quanto fosse complesso e sfaccettato il mondo scolastico, di quante problematiche potessero essere insiti i rapporti tra le parti, di quale ruolo comunicativo dovesse essere tenuto presente per cercare di comprendere come gestire al meglio la comunicazione tra le varie parti che compongono il sistema nella sua interezza. Ovviamente sono emerse con forza, e non potevano non farlo, anche le aspettative sui ruoli, sia da parte degli insegnanti nei confronti dell’istituzione scuola e dei genitori dei loro alunni, sia, inevitabilmente, dei genitori verso la scuola.

Più volte mi sono ritrovato a pensare cosa volessero le parti l’una dall’altra, tenendo conto di quelle che sono le rappresentazioni da entrambe le parti. Separatamente i genitori pensano che gli insegnanti non abbiamo genericamente più voglia di fare, non abbiano entusiasmo, siano presi troppo dalla loro vita personale per occuparsi bene di ciò che succede a scuola. L’accusa che gli insegnanti muovono più spesso ai genitori è quella di non volerli più educare, di aver abdicato al loro naturale ruolo educativo e di demandare questo ad istituzioni esterne (scuola in primo luogo, ma anche sport ecc…) e, nell’offerta proposta dagli altri, di non essere mai allineati con la scuola ma anzi piuttosto critici. Ho letto un interessante libro su queste tematiche. L’autrice, Manuela Rosci si occupa di problematiche legate al mondo della scuola nella Regione Lazio e cura il sito www.lascuolapossibile.it.  Secondo l’autrice entrambi i ruoli, quello del genitore e dell’insegnante sono due ruoli educativi (…) svolti da persone che sono alle prese con il loro mondo interiore, con le loro interpretazioni di ciò che è il bene del proprio figlio/del proprio alunno. E’ proprio questa l’essenza della relazione: entrambi, genitori e docenti, hanno aspettative e fanno scelte per e sulla stessa persona (figlio/alunno). Il rischio potrebbe essere quello di non andare nella stessa direzione o, meglio, di non riconoscere il valore dell’altro in questo “gioco” che è la crescita e la formazione dell’individuo. [1] 

L’autrice sostiene la necessità che genitori ed insegnanti concordino sullo stesso fronte dell’alleanza educativa un patto che dovrebbe sancire la convergenza verso temi comuni che possono essere condivisi e supportati da entrambi i lati del versante educativo. Ovviamente le parti, per il ruolo e le funzioni che rivestono, hanno un diverso approccio e hanno diverse richieste nei confronti della scuola. Cosa chiedono i genitori alla scuola? Cosa chiedono invece gli insegnanti? Vediamoli separatamente: un genitore chiede essenzialmente che i suoi figli siano “normali” e “funzionino bene” e che a scuola vada tutto liscio! Questa esigenza di sapere che i nostri figli stanno acquisendo “bene” e che stanno sviluppando sempre più capacità di relazionarsi “bene” con gli altri ci accompagna per tutto il percorso scolastico e il nostro atteggiamento potrà spostarsi lungo l’asse “sono molto tranquillo/sono molto ansioso per come procedono le cose”. In sintesi il genitore chiede alla scuola di essere rassicurato, di mantenere quindi uno stato di sicurezza che è dato, appunto, dal sentire le persone e l’ambiente scolastico sicuro e capace di assolvere a questo ruolo genitoriale. (…)

Ancora un genitore chiede alla scuola di essere all’altezza di suo figlio, di saperlo accompagnare, di sapergli dare quelle cose che servono nella vita e, anche, di essere riconosciuti come genitori competenti, che fanno quello che possono e intendono scegliere per il figlio. Certo la fragilità dell’adulto di oggi, l’instabilità affettiva e professionale diffusa, la mancanza di prospettive possono ingenerare errori di valutazione su cosa è meglio fare, incapacità di operare scelte (che a volte vengono perfino lasciate ai figli), deresponsabilizzazione e attribuzioni di ‘colpe agli altri (“è l’insegnante che non lo capisce”, “è la scuola che non funziona!”) senza sentirsi parte integrante del gioco. [1]

L’analisi è secondo me, molto valida perché mette assieme molti dei possibili punti di vista: relazionale scuola-genitori, rassicurazione sulla formazione dei figli e sulla loro adeguatezza come genitori. Vedremo in un altro post il punto di vista degli altri attori in gioco, gli insegnanti.

Che ne pensate?

– Continua –

 [1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pp. 14-20

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Scuola, insegnanti & genitori…

scuola insegnanti e genitoriCiao Fabrizio…come tu sai sono un’insegnante di sostegno ormai da tanti anni. Approfitto di questo blog per chiederti quali sono le strategie che è meglio utilizzare per aiutare i genitori a rivolgersi con fiducia ad uno psicologo, dal quale potrebbero trarre enormi vantaggi sia in termini di aiuto nell’accettazione dell’handicap ma soprattutto per individuare percorsi agevoli ed efficaci nell’educazione dei ragazzi. Troppo spesso il nostro consiglio viene frainteso o visto come atto d’accusa. grazie e grazie soprattutto per aver messo a disposizione di tutti la tua professionalità e competenza. un bacio Gloria

Ciao Gloria..

Innanzitutto grazie per l’ottimo quesito. Ho già affrontato in parte l’argomento in un precedente articolo dal titolo Salute mentale e malattia…(08.03.11). La mia posizione è che dallo psicologo non ci vadano per niente i matti quanto persone che vogliono in qualche modo fare il punto sulla loro situazione. Il mio punto di vista non è però supportato dalla stragrande maggioranza delle persone per le quali vale sempre il sottotesto per cui, se ti rivolgi ad uno psicologo, c’è qualcosa che non va in te. Quindi credo di capire il problema che mi poni. Mi chiedi quali siano le strategie. Sinceramente, non credo ci sia una strategia per far capire alle persone quanto potrebbero giovarsi di questo tipo di percorso. Credo che una possibile strategia sia la fiducia nel rapporto che hai instaurato con loro. Voglio dire: se sanno con quanta dedizione ti occupi al tuo lavoro, se pensano a come consideri i tuoi allievi non lavoro ma persone, se conoscono la passione con la quale ti occupi dei loro problemi, non possono non vederti come un punto di riferimento anche in questioni extrascolastiche. Nel momento in cui tu, in base alla tua esperienza, dovessi fare una proposta del genere a dei genitori come pensi che potrebbero pensare che li stai giudicando? Anzi, forse ti saranno grati per avere saputo indirizzarli verso un possibile appianamento della situazione. La questione potrebbe sorgere, secondo me, nel momento in cui questo consiglio viene dato solo per scaricare su altri un presunto problema. In quel momento i genitori possono non sentirsi supportati e pensare che li si stia giudicando inadeguati e incompetenti.

Questo punto mi porta alla considerazione più ampia per cui dovrebbe esistere un lavoro di rete, di società che, lontano dal volere approfittare dei malesseri altrui, possa in qualche modo fungere da fattore di indirizzamento e di orientamento per varie persone. Questa eccessiva parcellizzazione delle mansioni porta a non volersi mai prendere carico di qualcosa che vada appena al di fuori delle nostre responsabilità. Forse, invece, è ora di assumere queste nostre responsabilità per far si che il nostro passo in più possa, in qualche modo, aiutare l’altro.

Questo è uno dei motivi principali che mi ha spinto a creare questo blog: la possibilità che si potesse far rete, che persone con esperienze diverse potessero mettere in gioco ognuno il suo punto di vista mossi da una visione comune. Dovremmo cercare di renderci conto delle enormi potenzialità che l’affrontare una questione da molteplici punti di vista grazie all’integrazione piuttosto che alla frammentazione degli interventi potrebbe portarci.

A presto…

Fabrizio 

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