Ancora sulla psichiatria…

Ancora sulla psichiatria...Ho già accennato al movimento psichiatrico e a quello anti-psichiatrico (cfr. Il manifesto del delirio). In quell’articolo riportavo un passo del testo Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia di Carl Whitaker. Sempre nel post, si parlava dell’esistenza di due grandi ’scuole’ di pensiero: da una parte coloro che ritengono la malattia mentale la semplice disfunzione di un sistema e che, perciò, non avrebbe nessun significato ma andrebbe solo ‘corretta’, dall’altro coloro che ritengono che ogni malattia mentale assuma un significato, un senso per la persona che quella malattia stessa manifesta. Il primo approccio è l’approccio ‘psichiatrico’, per cui la cura dello scompenso è legata all’assunzione di una sostanza con capacità terapeutiche. Il secondo approccio è legato alla cosiddetta anti-psichiatria e fa riferimento all’opposizione per metodi di cure che prevedano l’uso massivo di farmaci o l’internamento del paziente in strutture cosiddette ‘istituzioni totali’ sottoposti a cure coatte (come poteva avvenire negli istituti psichiatrici).

Come accennato, in realtà, a ben pensarci, questo secondo tipo di approccio è molto più rivoluzionario di quanto considerato fino a questo punto. Infatti, nel primo caso, il focus dell’attenzione è legato al portatore della malattia mentale che si trova così, solo, di fronte ai suoi deficit, alle sue mancanze che vanno corrette. Dall’altra, c’è tutto un movimento ‘sociale’ che cerca di strappare il primato della malattia mentale dal singolo per ricollocarlo nella giusta dimensione: la dimensione sociale. La dimensione di sistema. Allora, e il capovolgimento di prospettiva è totale, non è il singolo ad avere una malattia da curare, quanto il portavoce di un sistema di relazioni che non funzionano. Dovremmo, dunque parlare di relazioni patologiche. Non più persone. Ma se il focus della malattia non è più sul singolo, giocoforza non è più il singolo da curare, ma il sistema intero nella quale il singolo si trova.

Questo approccio sociale, è stato fondamentale nel cambiare poi gli interventi che si volevano attuare nella comprensione del disagio mentale. Non aveva senso isolare una persona malata, in una istituzione totale (un’istituzione cioè, che sovraintendeva a qualsiasi aspetto della vita pratica di un indivduo come potevano essere i manicomi), ‘curarla’ e contenerla, perchè nessuna cura poteva prescindere dalla considerazione del contesto più vasto nella quale quella persona stessa era cresciuta.

Che senso avevano, in questa nuova prospettiva, gli istituti psichiatrici?

Nessuno. Basaglia stesso in proposito diceva: Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (…); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo. (Franco Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, 1964).

Parole che, a distanza di quasi 50 anni, fanno decisamente ancora riflettere.

A presto…

Fabrizio

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Il manifesto del delirio…

Il manifesto del delirio...Mi imbatto in quello che lo stesso autore intitola: il mio sistema delirante “il manifesto di Whitaker”. Vi riporto integralmente il pezzo che mi ha incuriosito:

Durante i molti anni dedicati alla cura dei pazienti schizofrenici, ho sviluppato un particolare concetto di salute. Mi sono convinto che il cittadino socialmente adattato, l’individuo culturalmente integrato, sia, fondamentalmente, un ipocrita. Partecipa ad un gioco socialmente disonesto, fingendo che il proprio punto di vista coincida con quello degli altri, che l’altruismo sia un valore importante e che le persone politicamente disoneste siano solo eccezioni.

Io sono convinto che siamo tutti disonesti, né più né meno di qualsiasi uomo politico. Predichiamo bene e razzoliamo male, fingendo di non voler essere il centro del nostro mondo. Nascondiamo con cura la nostra vita privata e mostriamo di noi stessi solo una facciata sociale, artificiale e sostanzialmente ipocrita.

Sono anche convinto che la psicopatologia sia in realtà prova di salute psicologica .(La sottolineatura è mia. Nel libro è in corsivo.)

L’individuo che ha pensieri che appaiono distorti è una persona che sceglie di combattere dentro di sé una guerra dichiarata, piuttosto che arrendersi alla schiavitù sociale. Il suo sistema delirante e le sue allucinazioni sono la conseguenza diretta di questa battaglia contro la sua situazione esistenziale e contro lo stress che deve sopportare per non diventare una non-persona, una specie di automa sociale. Gli schizofrenici sono individui patologicamente risoluti a vivere all’altezza della propria immagine del mondo. Soffrono di un eccesso di integrità. Sono stati allenati ad essere capri espiatori: eroi o furfanti, immolano se stessi nel tentativo di cambiare il mondo, e di sconvolgere il sistema che li irretisce in modo tanto ipocrita.

Penso che la depressione, che viene considerata una patologia individuale, sia in realtà la risposta alla concreta percezione della patologia negli altri. E’ il riconoscimento dell’inutilità di qualsiasi sforzo per alleviare il dolore del mondo. L’attacco maniacale è la contro mossa fondamentale di essere altruisti. [1]

Più che delirante, questo manifesto, assolutamente condivisibile, mi sembra si possa inserire in quel filone di critica concettuale che vede contrapposte due grandi ‘scuole’: da una parte coloro che ritengono la malattia mentale la semplice disfunzione di un sistema e che, perciò, non avrebbe nessun significato ma andrebbe solo ‘corretta’, dall’altro coloro che ritengono che ogni malattia mentale assuma un significato, un senso, per la persona che quella malattia stessa manifesta. Il primo approccio è l’approccio ‘psichiatrico’, per cui la cura dello scompenso è legata all’assunzione di una sostanza con capacità terapeutiche. Il secondo approccio è legato alla cosiddetta anti-psichiatria e fa riferimento all’opposizione per metodi di cure che prevedano l’uso massivo di farmaci o l’internamento del paziente in strutture cosiddette ‘istituzioni totali’ sottoposti a cure coatte (come poteva avvenire negli istituti psichiatrici). Uno dei più grandi rappresentanti di questo ultimo approccio in Italia fu Franco Basaglia, promotore della legge 180, che portò alla chiusura degli istituti psichiatrici e alla concezione di un diverso approccio alla salute mentale. Altro punto su cui volevo soffermarmi, e che ho sottolineato con il colore arancione, riguarda la considerazione del fatto che la depressione non sia da considerarsi come patologia individuale. Come potete vedere, è un cambio di prospettiva notevole che non pone più l’accento sul singolo come malato, ma sulla rete di relazioni.

È un tema abbastanza complesso sul quale dovremo necessariamente tornare. Voi, intanto, che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 68

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