Bambini: la differenza di classe (sociale)…

Bambini la differenza di classe socialeIl post di oggi riguarda un argomento che è sotto gli occhi di tutti ma del quale spesso fingiamo di non accorgerci e di non notare. Il tema è un argomento scabroso dal momento che riguarda le differenze di sviluppo tra bambini a seconda della classe di reddito a cui appartiene. La riflessione è scaturita dalla lettura di un passo del testo Il vaso di Pandora[1] La tesi che si sostiene è che il bambino cresca per imitazione del modello che viene proposto dagli adulti per lui importanti in quella prima fase di vita. Questo rapporto avrebbe conseguenze sul successivo sviluppo del bimbo e anche sullo sviluppo di alcune patologie. Secondo gli studi di Hollingshead e di Redlich si riscontrerebbe un’alta incidenza di disturbi di tipo nevrotico nelle classi sociali più alte, un’alta incidenza di disturbi psicopatici nelle classi sociali più deboli. Ovviamente, trattandosi di una tesi per il quale lo sviluppo del bambino avviene fondamentalmente per imitazione, il modello che viene fornito al bambino può essere diverso a seconda di quelli che sono i mezzi e gli strumenti che hanno gli adulti stessi. E se si dovesse far un raffronto con le differenze tra bambini di classi sociali diverse, potremmo notare come queste siano dovute alle competenze degli adulti significativi. Come abbiamo visto, alcuni studi dimostrano infatti come i disturbi psichiatrici siano distribuiti diversamente a seconda della classe sociale. Questa diversa distribuzione avrebbe delle influenze anche linguistiche e sulla costruzione del sé del bambino. I bambini  che che vivono in un ambiente proletario o sottoproletario apprendono dai loro genitori e utilizzano nella loro interazione un codice (linguistico) ‘ristretto’, povero di riferimenti alle emozioni vissute e di tendenza alla simbolizzazione. In termini interattivi ciò corrisponde evidentemente allo sviluppo di una patologia di tipo piuttosto comportamentale che nevrotico. Il contrario accade, evidentemente, per bambini che vengono addestrati ad utilizzare un codice ‘elaborato’: soprattutto se vivono all’interno di famiglie in cui l’uso ampio e consensuale di meccanismi di difesa basati sulla rimozione (…)li spinge alla ricerca di formulazioni allusive e di elaborazioni simboliche del loro vissuto. Cosa vuol dire questo? Sostanzialmente si tratta di verificare come nelle classi sociali più alte ci sarebbe una diversa sensibilità all’utilizzo di un linguaggio che possa aiutare a definire i propri stati emozionale. Questo permetterebbe al bambino di apprendere a riferirsi a queste realtà emozionali in termini simbolici e di poterle astrarre. Per questo motivo, tale capacità appresa potrebbe essere alla base, nel caso di sviluppo di patologie, ad un decorso nevrotico piuttosto che psicotico o comportamentale, che sarebbe invece la ‘strada patologica’ di bambini che non sono stati abituati a fare questo da adulti che, probabilmente, non avevano le risorse necessarie per farlo neanche con se stessi. Questi studi sono di matrice americana, e descrivono una realtà sociale per certi versi diversa dalla nostra. Credo che questa riflessione fosse interessante se prendiamo in considerazione il fatto che non esiste un modello puro ma che stiamo parlando di tendenze utili per la descrizione. Se è vero che le classi possono fare la differenza sullo sviluppo, è anche vero che oggi viviamo circondati da tutta una serie di stimoli che potrebbe attenuare queste tendenze.

Voi che ne pensate?

 A presto…

Fabrizio

[1] Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pag. 163

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Ancora sulla psichiatria…

Ancora sulla psichiatria...Ho già accennato al movimento psichiatrico e a quello anti-psichiatrico (cfr. Il manifesto del delirio). In quell’articolo riportavo un passo del testo Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia di Carl Whitaker. Sempre nel post, si parlava dell’esistenza di due grandi ’scuole’ di pensiero: da una parte coloro che ritengono la malattia mentale la semplice disfunzione di un sistema e che, perciò, non avrebbe nessun significato ma andrebbe solo ‘corretta’, dall’altro coloro che ritengono che ogni malattia mentale assuma un significato, un senso per la persona che quella malattia stessa manifesta. Il primo approccio è l’approccio ‘psichiatrico’, per cui la cura dello scompenso è legata all’assunzione di una sostanza con capacità terapeutiche. Il secondo approccio è legato alla cosiddetta anti-psichiatria e fa riferimento all’opposizione per metodi di cure che prevedano l’uso massivo di farmaci o l’internamento del paziente in strutture cosiddette ‘istituzioni totali’ sottoposti a cure coatte (come poteva avvenire negli istituti psichiatrici).

Come accennato, in realtà, a ben pensarci, questo secondo tipo di approccio è molto più rivoluzionario di quanto considerato fino a questo punto. Infatti, nel primo caso, il focus dell’attenzione è legato al portatore della malattia mentale che si trova così, solo, di fronte ai suoi deficit, alle sue mancanze che vanno corrette. Dall’altra, c’è tutto un movimento ‘sociale’ che cerca di strappare il primato della malattia mentale dal singolo per ricollocarlo nella giusta dimensione: la dimensione sociale. La dimensione di sistema. Allora, e il capovolgimento di prospettiva è totale, non è il singolo ad avere una malattia da curare, quanto il portavoce di un sistema di relazioni che non funzionano. Dovremmo, dunque parlare di relazioni patologiche. Non più persone. Ma se il focus della malattia non è più sul singolo, giocoforza non è più il singolo da curare, ma il sistema intero nella quale il singolo si trova.

Questo approccio sociale, è stato fondamentale nel cambiare poi gli interventi che si volevano attuare nella comprensione del disagio mentale. Non aveva senso isolare una persona malata, in una istituzione totale (un’istituzione cioè, che sovraintendeva a qualsiasi aspetto della vita pratica di un indivduo come potevano essere i manicomi), ‘curarla’ e contenerla, perchè nessuna cura poteva prescindere dalla considerazione del contesto più vasto nella quale quella persona stessa era cresciuta.

Che senso avevano, in questa nuova prospettiva, gli istituti psichiatrici?

Nessuno. Basaglia stesso in proposito diceva: Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (…); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo. (Franco Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, 1964).

Parole che, a distanza di quasi 50 anni, fanno decisamente ancora riflettere.

A presto…

Fabrizio

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Cos’è la psicoterapia?

Cos'è la psicoterapiaAbbiamo già cercato di delineare cosa sia la psicoanalisi (Cos’è la psicoanalisi? pubblicato il 29.03.12) vediamo ora di cercare di caratterizzare meglio cosa sia la psicoterapia, in cosa si avvicini e in cosa si differenzi dalla psicanalisi.

Essenzialmente possiamo definire la psicoterapia come qualunque tipo di trattamento dei disturbi psichici, per via psicologica attraverso l’interazione verbale tra il terapeuta e il paziente. Più in particolare si tende a considerare psicoterapie i trattamenti psicologici alternativi alla psicanalisi. La differenza sostanziale sta nell’obbiettivo: nel corso degli ultimi cinquanta anni, considerato l’aumento di richiesta di trattamento psicoterapico in ampi strati sociali della popolazione, si è passati da una psicoterapia “non mirata” (la psicoanalisi) a psicoterapie “mirate”. Mentre  la psicoanalisi non mira a eliminare il sintomo presentato dal paziente ma a modificare la struttura di fondo, risalendo all’infanzia ed elaborando le “fasi” di evoluzione della personalità, le psicoterapie, attualmente, mirano a eliminare il sintomo o il disturbo di personalità, “elaborandolo” e “spiegandolo con tecniche diverse. Data la maggiore focalità del trattamento la durata di una psicoterapia, di qualsiasi orientamento, è più breve delle terapie analitiche”. [1]

Vediamo di analizzare meglio le somiglianze e le differenze delle due discipline. Innanzitutto il peso principale risiede nel transfert all’interno della relazione. Nella psicoanalisi il transfert ha una valenza che chiamerei più emozionale mentre nella psicoterapia assume un ruolo che definirei più relazionale. Nella psicoanalisi il transfert serve per far si che il paziente trovi presentificati, per così dire oggettivati, non solo le sue esperienze rimosse ma anche i suoi desideri e i suoi fantasmi inconsci. Se per il paziente il transfert si presenta come un sintomo per il terapeuta diviene, invece, il terreno privilegiato della terapia. Nello spazio del transfert, l’analizzato non solo rievoca ma anche rivive il rimosso. [2] Giocano un ruolo di scambio in entrambi gli approcci ma forse con una sfumature diverse. Nella psicoanalisi il transfert serve per rivivere nella psicoterapia per relazionarsi. Altro aspetto che mi preme sottolineare è che la psicoterapia sarebbe mirata mentre la psicoanalisi sarebbe più generale e riguarderebbe l’intera vita dell’individuo non concentrandosi, quindi, esclusivamente sul sintomo. Questa definizione è, secondo me, in parte da stemperare perché se è vero che la psicoterapia ha l’avvio dal trattamento di un determinato simbolo, è anche vero che da questo inizio possono prendere l’avvio terapie più ampie che possono anche durare di più nel tempo. Vero è che, comunque, genericamente la psicoterapia è temporalmente più breve rispetto alla psicoanalisi che può durare anche diversi anni. Un altro aspetto che possiamo prendere i considerazione è il ruolo del terapeuta all’interno della terapia. Nella psicoanalisi classica il terapeuta ha un ruolo di catalizzatore emotivo del paziente, un ruolo se vogliamo, passivo rispetto alla storia del paziente stesso. L’immagine classica è del paziente sdraiato con dietro il terapeuta che lo ascolta quasi in silenzio. Il ruolo del terapeuta all’interno della psicoterapia è più attivo, dal momento che il presupposto è che il terapeuta, entrando a far parte del sistema con il paziente, gioca con lui un ruolo all’interno del processo terapeutico. L’uso dei termini attivo e passivo non denota in nessun modo una differenza di ‘valore’ (è meglio uno rispetto all’altro approccio), quanto una differenziazione sostanziale sia del comportamento che delle premesse concettuali del rapporto tra terapeuta e paziente. Volendo riassumere i punti di differenza avremmo:

  1. L’uso del transfert;
  2. La durata della terapia;
  3. Maggior ampiezza del lavoro psicoanalitico;
  4. Diverso coinvolgimento del terapeuta. 
Come tutte le schematizzazione, anche questa, parziale, è solo esemplificativa. Un ultimo pensiero. Abbiamo sottolineato le differenza ma mi piace pensare che abbiano in comune il benessere della persona che si trova a dovervi ricorrere.
Che ne pensate?

 A presto…

Fabrizio

[1] Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Roma, Carocci, pag. 289

[2] Vegetti Finzi, S. (1986), Storia della Psicoanalisi, Mondadori, Milano, pp. 48-49

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Trasloco su Blog Therapy…

Trasloco su Blog Therapy...Vi segnalo e vi invito a leggere l’intervista che il collega Enrico Maria Secci, autore e curatore di BlogTherapy ha pensato di fare a me e ai miei colleghi di blog Carla Sale Musio col suo blog Io non sono normale: IO AMO e Caterina Steri ed il suo Gocce di Psicoterapia. Se cliccate sui nomi dei vari blog, in arancio, sarete reindirizzati sui rispettivi lavori. Con una iniziativa lodevole per l‘intento di includere, Enrico ha pensato di proporre a tutti noi una sorta di intervista nell’ottica di costruire una rete tra coloro che si occupano di psicologia con blog sulla piattaforma di Tiscali. Le nostre risposte permetteranno alle persone che ci seguono così numerose di poterci conoscere meglio e conoscere meglio anche le ragioni che ci hanno spinto a creare, a seguire e a coltivare il nostro spazio virtuale nel quale cerchiamo di far crescere, con voci diverse, una maggiore consapevolezza e una maggiore attenzione verso la nostra professione e verso vari aspetti della vita e delle relazioni di ciascuno di noi. Come detto, ognuno declina il tema con le sue diverse sensibilità e con le sue diverse prospettive ma ciò che colpisce è la possibilità di aggregare queste diverse voci per aumentare una pluralità di pensiero che non solo manca ma che sembra addirittura disincentivata. Per questo l’iniziativa di Enrico mi sembra così importante.

Detto questo, vi segnalo appunto la mia intervista. Non conosco le date di pubblicazione degli altri interventi, quindi se volete conoscere quelle delle mie colleghe, vi invito a prestare attenzione a BlogTherapy. Naturalmente, spero che anche il promotore risponda alle domande e permetta ai suoi numerosi lettori di conoscerlo meglio.

Fatemi sapere che pensate di questa iniziativa!

 

A presto…

Fabrizio

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Canta che ti curi…

Canta che ti curi...L’articolo che volevo segnalarvi oggi riguarda i possibili effetti benefici della musica sull’uomo. Un libro uscito recentemente negli Stati Uniti, La tua playlist ti può cambiare la vita, degli psicologi Galina Mindlin, Don Durousseau e Joseph Cardillo, sostiene come la nostra playlist, la serie di canzoni contenute in un lettore mp3, possa essere utilizzata per stimolare tutta una serie di rispondenze da parte del nostro cervello. Potremmo addirittura usare la canzone giusta al momento giusto. Gli autori individuano quattro grandi aree chiamate ‘sentirsi meglio’, ‘euforia’, ‘darsi da fare’ e ‘calmarsi’. Per ognuna di queste aree individuano delle canzoni che agevolerebbero il cervello nel far questo. Scopriamo così che per sentirsi meglio potremmo ascoltare Like a rolling stone di Bob Dylan, mentre se volessimo una buona dose di euforia potremmo scegliere tra Beat it di Michael Jackson oppure Thunder road di Bruce Springsteen e così via. Insomma il potere terapeutico della vostra musica preferita potrebbe non essere legato ad una questione di gusti personali, ma ad una vibrazione della musica stessa con il nostro cervello.

Spiega l’articolo che ritmo, armonia, risonanza e sincronia sono fra l’altro termini musicali che vengono sorprendentemente usati anche nello studio del cervello. E che i ritmi del cervello, viceversa, sono organizzati con gli stessi principi della musica. Noi stessi, dicono, siamo musica: “La prima musica codificata nella nostra memoria è proprio la prima vibrazione che ci ha generato: il ritmo delle nostre prime cellule”.

Insomma, un motivo in più per concederci il nostro disco preferito. Magari scegliendo di stimolare, nel frattempo, uno stato d’animo piuttosto che un altro! L’articolo è di Repubblica (03.01.12) ed è a firma di Angelo Aquaro.

Eccovi il link: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/01/03/news/musica_anti_stress-27522931/

A presto…

Fabrizio

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Somewhere

SomewhereSempre a proposito della possibile vita di una star dietro lo scintillio che noi tutti vediamo, vi volevo segnalare un bel film sul tema. Il titolo è Somewhere (2010), della regista Sofia Coppola. Il film è stato insignito del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film racconta la storia di Johnny Marco, una stella del cinema, che vive in un hotel di Los angeles e del quale seguiamo, durante il film, parte della vita ed il viaggio in Italia per ritirare un premio. Credo sia un film emblematico sulla solitudine che circonda molte di queste persone che sembrano essere state baciate dalla fortuna di fare un lavoro che le rende popolari. Al netto del fatto di vivere in un meraviglioso albergo, guidare una meravigliosa macchina, essere riconosciuto dalle persone quando si sposta, quello che sembra caratterizzare la vita del protagonista è la costante solitudine o comunque la difficoltà di costruire un rapporto che si possa definire tale. In molte scene è sempre solo anche quando si circonda, o è circondato da moltissime persone. Oppure colpisce come in molte sequenze a farla da padrone sembra essere il silenzio, anche quando il protagonista si trova insieme ad altri. La rappresntazione è molto bella e credo miri al cercare di far scorgere come spesso, dietro vite ammirate da tutti ci sia una vita solitaria, fatta anche dal silenzio e dalla mancanza di contatti. Potreste forse obiettare che nella vita di tutti noi ci sono momenti di questo tipo. Naturalmente è così, ma tendiamo, complice la iperappresentazione che la vita di personaggi famosi hanno nella nostra quotidianità, a dimenticare questa ovvietà pensando che questo tipo di persone vivano una vita completamente altra rispetto alla nostra. Ed è su questo meccanismo che può basarsi la proiezione del quale parlavamo nel post …with somebody who loves me… (21.02.12). Ovviamente non credo che la vita di queste persone sia solo questo. Credo, però, che sia anche questo. E faremmo meglio a tenerlo in mente. Nel momento in cui possiamo vedere ed essere consapevoli che esista anche questo aspetto in vite con le quali faremo volentieri scambio, forse il lucicchio stesso potrà essere sostituito da uno sguardo più consapevole, più completo e più complesso sulle loro ma soprattutto sulle nostre vite.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Il manifesto del delirio…

Il manifesto del delirio...Mi imbatto in quello che lo stesso autore intitola: il mio sistema delirante “il manifesto di Whitaker”. Vi riporto integralmente il pezzo che mi ha incuriosito:

Durante i molti anni dedicati alla cura dei pazienti schizofrenici, ho sviluppato un particolare concetto di salute. Mi sono convinto che il cittadino socialmente adattato, l’individuo culturalmente integrato, sia, fondamentalmente, un ipocrita. Partecipa ad un gioco socialmente disonesto, fingendo che il proprio punto di vista coincida con quello degli altri, che l’altruismo sia un valore importante e che le persone politicamente disoneste siano solo eccezioni.

Io sono convinto che siamo tutti disonesti, né più né meno di qualsiasi uomo politico. Predichiamo bene e razzoliamo male, fingendo di non voler essere il centro del nostro mondo. Nascondiamo con cura la nostra vita privata e mostriamo di noi stessi solo una facciata sociale, artificiale e sostanzialmente ipocrita.

Sono anche convinto che la psicopatologia sia in realtà prova di salute psicologica .(La sottolineatura è mia. Nel libro è in corsivo.)

L’individuo che ha pensieri che appaiono distorti è una persona che sceglie di combattere dentro di sé una guerra dichiarata, piuttosto che arrendersi alla schiavitù sociale. Il suo sistema delirante e le sue allucinazioni sono la conseguenza diretta di questa battaglia contro la sua situazione esistenziale e contro lo stress che deve sopportare per non diventare una non-persona, una specie di automa sociale. Gli schizofrenici sono individui patologicamente risoluti a vivere all’altezza della propria immagine del mondo. Soffrono di un eccesso di integrità. Sono stati allenati ad essere capri espiatori: eroi o furfanti, immolano se stessi nel tentativo di cambiare il mondo, e di sconvolgere il sistema che li irretisce in modo tanto ipocrita.

Penso che la depressione, che viene considerata una patologia individuale, sia in realtà la risposta alla concreta percezione della patologia negli altri. E’ il riconoscimento dell’inutilità di qualsiasi sforzo per alleviare il dolore del mondo. L’attacco maniacale è la contro mossa fondamentale di essere altruisti. [1]

Più che delirante, questo manifesto, assolutamente condivisibile, mi sembra si possa inserire in quel filone di critica concettuale che vede contrapposte due grandi ‘scuole’: da una parte coloro che ritengono la malattia mentale la semplice disfunzione di un sistema e che, perciò, non avrebbe nessun significato ma andrebbe solo ‘corretta’, dall’altro coloro che ritengono che ogni malattia mentale assuma un significato, un senso, per la persona che quella malattia stessa manifesta. Il primo approccio è l’approccio ‘psichiatrico’, per cui la cura dello scompenso è legata all’assunzione di una sostanza con capacità terapeutiche. Il secondo approccio è legato alla cosiddetta anti-psichiatria e fa riferimento all’opposizione per metodi di cure che prevedano l’uso massivo di farmaci o l’internamento del paziente in strutture cosiddette ‘istituzioni totali’ sottoposti a cure coatte (come poteva avvenire negli istituti psichiatrici). Uno dei più grandi rappresentanti di questo ultimo approccio in Italia fu Franco Basaglia, promotore della legge 180, che portò alla chiusura degli istituti psichiatrici e alla concezione di un diverso approccio alla salute mentale. Altro punto su cui volevo soffermarmi, e che ho sottolineato con il colore arancione, riguarda la considerazione del fatto che la depressione non sia da considerarsi come patologia individuale. Come potete vedere, è un cambio di prospettiva notevole che non pone più l’accento sul singolo come malato, ma sulla rete di relazioni.

È un tema abbastanza complesso sul quale dovremo necessariamente tornare. Voi, intanto, che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 68

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Il telefono no…

Il telefono no...Cosa direste se vi dicessi che le persone associano l’emozione di una perdita profonda per un oggetto che fino a 20 anni fa nemmeno esisteva come lo conosciamo oggi? Che sto scherzando? Ebbene no. Stando all’articolo che vi segnalo questi sono i sentimenti che un gruppo di persone ha associato alla perdita del proprio telefonino. Segnala, sicuramente, una delle tendenze preponderanti della nostra epoca. Come siamo legati al cellulare? L’articolo riporta uno studio fatto su un gruppo di persone che hanno detto di non poter sopravvivere alla perdita del telefonino. Ormai siamo talmente abituati a questo tipo di tecnologie che le consideriamo estensione di noi stessi. E la loro perdita è vissuta come se perdessimo una parte di noi. Sarebbe interessante estendere il discorso e considerare che cosa definisca ed entri a far parte nella costruzione della nostra identità. Tema su cui potremmo riflettere in un futuro post. L’articolo è del Corriere della Sera (27.07.11) ed è di Elena Meli

Questo il link: http://www.corriere.it/salute/11_luglio_22/cellulare-perdita-disperazione-meli_bff1e256-b3c0-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml

Sono quasi sicuro che, se rivolgessi a voi la stessa domanda, probabilmente mi rispondereste allo stesso modo!

A presto…

Fabrizio

 

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– CRISI –

- CRISI -Tagli. Tasse. Default. Crisi epocale. Crisi di modelli sociali. Crisi della democrazia. Chi di noi può salvarsi dal fuoco di fila dei mezzi di comunicazione che, ogni giorno, non smettono di ribadire quanto siamo sull’orlo del baratro di una crisi non facilmente prevedibile nelle sue conseguenze? Tutti i giorni, il nostro risveglio è accompagnato da un bollettino di guerra che ci ricorda come la nostra condizione finanziaria sia sempre più legata ad una sequela di pessime notizie che ci riguardano o ci riguarderanno a breve.

Ma sono solo informazioni finanziarie? Come volete possa reagire l’animo umano di fronte a realtà di questo tipo? Questo continuo stillicidio di notizie catastrofiche per cui noi, a parte fare i sacrifici di cui tutti parlano, non abbiamo nessuna responsabilità diretta, causa un continuo senso di precarietà, di insicurezza che non può non farci stare male. In questo scampolo d’estate sembra che la gara sia a chi spara l’aggiornamento più catastrofico, su chi preveda lo scenario più inquietante, su chi azzeccherà la previsione peggiore di tutti.

E noi?

E noi a gestire un senso di scontento, uno sconforto, una tristezza che, spesso, possono essere i prodromi di veri e propri episodi depressivi. Il sentirsi minacciati nelle certezze e sicurezze, non può non avere conseguenze nefaste su di noi. Il fatto, poi, che i nostri ‘piccoli’ guai siano associati a scenari così foschi non può che incrementare il nostro senso di sfiducia generale. Altro fattore potenzialmente molto pericoloso, in questo cocktail micidiale, è la durata. Questo tipo di notizie sono infatti in prima pagina da mesi. Ribadiscono giornalmente come le borse di tutto il mondo brucino centinaia di miliardi di euro, come siano in picchiata, come non ci sia accordo politico su come fronteggiare la situazione.

E noi?

Sempre più piccoli, sempre più precari, sempre più instabili. Sempre più vacillanti. Sempre più alla ricerca di uno sprazzo di luce, un barlume di speranza che non faccia affievolire ulteriormente la possibilità di sentire che non tutto è perduto. Non so se tutto questo catastrofismo sia fondato. Non so quanto di vero ci sia in queste previsioni. So, però, quanto non sia positivo far intravedere il baratro e non una strada alternativa. Questo è il terreno fertile in cui possono nascere e crescere episodi di tipo depressivo. Naturalmente ciò che descrivo è un innestarsi su istanze personali. Mi spiego meglio: è come se l’incertezza, la paura da cui ci sentiamo circondati quotidianamente (e che in questo post sto associando soprattutto a crisi di tipo economico. Ma, credo, ci sarebbero numerosi altri esempi con cui si ottiene lo stesso risultato!) risuonasse familiare a delle aree che già erano in noi. Aree che, per svariati motivi, non ci potevamo permettere di maneggiare senza sentirci minacciati. E, risuonando in noi, queste aree possono dar vita ad un vero e proprio circolo vizioso che, come vi dicevo, può atterrirci, può sovrastare tutte le parti vitali del nostro Io che si trovano accerchiate da queste istanze depressive. Quale può essere la soluzione? Credo che una delle soluzioni più semplici, e alla portata di tutti, sia la condivisione. Condivisione delle nostre paure, dei nostri timori, delle nostre incertezze. Delle parti ‘deboli’ di noi che, abituati a non riconoscercele, non sappiamo maneggiare neanche quando diventano parti centrali. Il momento in cui le nostre paure prendono il sopravvento: li il catastrofismo ha vinto. In quel momento la nostra vitalità, la nostra creatività sono in maggiore difficoltà. Cerchiamo un amico, un parente, un orecchio che possa condividere con noi i nostri timori. E prestiamo maggiore attenzione alle paure degli altri. Magari sono anche le nostre. Avremmo sconfitto anche l’egoismo che, da sempre, caratterizza i momenti dominati dalle insicurezze. Questo è un enorme periodo transitorio. Dal quale, non è detto, non possa nascere qualcosa di buono.

È vero: forse le borse continueranno a cadere. Ma il fardello delle nostre paure ci sembrerà un po’ più leggero. E noi potremmo dire di conoscerci meglio. Vi sembra tutto perduto?

A presto…

Fabrizio

 

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Lontano da chi?

Lontano da chiEccoci ad un altro tema di attualità. Di brutta attualità. Avrete sicuramente sentito o letto della strage in Norvegia. Per chi non sapesse, un uomo di nome Breivik ha fatto esplodere una bomba in pieno centro ad Oslo e si è messo a sparare all’impazzata su un gruppo di persone che si trovavano su un isola. In tutto è responsabile della morte di 85 persone. Quando capitano casi di cronaca di questo tipo, che generano sgomento e incredulità, mi chiedo come sia possibile succedano cose del genere. Cosa può spingere un uomo a compiere massacri così cruenti su persone sconosciute?

Ovviamente non so nulla del caso specifico dal momento che non ho conoscenza diretta della persona che ha compiuto la strage. Non so, perciò, delle possibili cause personali che possano averlo spinto a tanto. Mi ronzano, però, idee e noto delle somiglianze, ricorrenti in diversi casi, che volevo condividere con voi. Una delle cose che più mi colpiscono è quella che definirei esternalizzazione del male. Con questo termine mi riferisco al fatto che, quando capitano fatti particolarmente efferati di cronaca, il primo aspetto in risalto riguardi il diversificare il colpevole da noi con qualche segno distintivo che lo renda differente. Credo sia un meccanismo protettivo, tranquillizzante. Nel momento in cui avvertiamo il male troppo vicino a noi, cerchiamo in qualche modo di scostarlo, di allontanarlo. Di esternalizzarlo, appunto. Questo meccanismo è noto, in psicanalisi, col termine di proiezione. E’ un meccanismo di difesa per cui sentimenti o caratteristiche proprie, sentite come inaccettabili, vengono proiettate all’esterno, su cose o persone. Questo meccanismo di esternalizzazione non sempre è applicabile. Nel momento in cui non c’è nulla che possa diversificare il colpevole da noi, come, per esempio, nel caso norvegese (non è zingaro, o nero, o povero, o straniero ecc..) allora interviene la salute mentale. “È malato” ci diciamo. Così che noi, ‘sani’, possiamo sentire quello che è successo lontano da noi.

E, se invece, non fosse così lontano? Non fraintendetemi, non credo che ognuno di noi sia un potenziale serial killer. Semplicemente, credo che ognuno di noi abbia delle parti oscure, delle parti non risolte che, in particolari situazioni, possano avvitarsi e ingigantirsi, dando vita ad idee persecutorie che vengono poi agite in fatti simili. Sebbene siano in molti a non conoscere queste parti oscure di se non sono, per fortuna, molti ad agire in maniera così cruenta. Penso dipenda dal fatto che le cause che possono esacerbare questi conflitti interiori debbano essere pesanti e prolungate nel tempo. Ma quali sono queste parti oscure che possono entrare in gioco? Credo riguardino la soppressione di sentimenti che vengono ritenuti non adatti. O mostruosi. Per esempio la rabbia e l’odio sono sentimenti non del tutto tollerati nella nostra società. Il disprezzo, l’avversione non possono essere manifestati e sono in qualche modo censurati. Repressi. Anche in questo passaggio spero non ci siano fraintendimenti. Non credo che ognuno di noi, per evitare che nascano conflitti, dovrebbe andare a disprezzare l’altro, o odiarlo apertamente. Tutt’altro. Credo la conoscenza anche di questi nostri aspetti possa farceli gestire meglio. Il rischio, altrimenti, credo sia che con un sostrato adatto (poca apertura mentale, rete sociale debole, famiglia assente, gruppo di amici, nessuna empatia, fattori ideologici), renda questa conoscenza deficitaria di se stessi facile terreno di coltura per propensioni ‘anti’ (antisociali, anti razziali, ecc.) e che, unite a protettive convinzioni ideologiche, possano sfociare in fatti del genere.

Altra ridondanza: sembrano sempre più numerosi atti di questo tipo. Se da una parte può esserci un desiderio di emulazione, amplificato dal tempo che i mass media dedicano a questo tipo di eventi (e con particolari sempre più macabri) credo che questa accentuazione sia dovuta anche ad una generale disgregazione della funzione sociale. Porre sempre l’accento sul singolo (sulle sue potenzialità, sulle sue esigenze, sui suoi desideri) fa si che il singolo si senta autorizzato a perseguire qualunque cosa per lui necessaria. Nessun problema sorge quando le mete che il singolo si pone sono socialmente riconosciute. Ma se, in una logica distorta o persecutoria, la meta diviene sterminare il maggior numero possibile di persone, allora l’accento posto sul singolo si trasforma in un totale fallimento per la società.

Credo che un primo passo verso una possibile soluzione possa essere quello di iniziare a considerare queste parti di noi, maneggiarle e accettarle di modo da conoscerle, non reprimerle e non proiettarle sugli altri come se non ci appartenessero. Un lavoro personale, non necessariamente con professionisti, unito alla ricucitura di alcuni strappi sociali (maggiore attenzione alle esigenze del gruppo, interesse collettivo che si colloca su quello particolare, sostegno alla genitorialità e alla famiglia) possono essere fattori depotenzianti il verificarsi di simili tragedie.

P.s.: Certo, se a tutto questo si aggiungesse una legislazione molto più severa sulle armi, forse avremo fatto un ulteriore passo verso una diminuzione di analoghe sciagure.

A presto...

Fabrizio

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