Il quoziente intellettivo è un mito da sfatare

Il quoziente intellettivo è un mito da sfatareIl post di oggi ha come tema quello che è considerato come il maggior strumento della misurazione del QI. Per chi non lo sapesse la sigla QI sta per quoziente intellettivo, e misura quello che è il livello di intelligenza di una persona. Nella foto di apertura potete vedere come  la maggior parte delle persone si collochi intorno ad un punteggio vicino al 100. Questo punteggio è ottenuto attraverso una serie di test standardizzati che misurano ognuno una particolare abilità (mnemonica, visiva, organizzativa, sequenziale, ecc,). Da sempre questo strumento è stato visto e considerato come uno strumento assolutamente parziale della misurazione dell’intelligenza umana. Non tiene, per esempio conto delle influenze socio ambientali che possono influenzare il tipo di punteggio che si ottiene. Se una persona ha un ragionamento molto pratico e ‘materiale’, avrà difficoltà ad astrarre. Questo abbasserebbe il suo punteggio generale del QI ma potrebbe far dire che la persona è più o meno intelligente?

Questo ci porta alla difficoltà stessa di spiegare l’intelligenza. La definizione più condivisa descrive l’intelligenza come una generale funzione mentale che, tra l’altro, comporta la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e apprendere dall’esperienza. Non riguarda solo l’apprendimento dai libri, un’abilità accademica limitata, o l’astuzia nei test. Piuttosto, riflette una capacità più ampia e profonda di capire ciò che ci circonda – “afferrare” le cose, attribuirgli un significato, o “scoprire” il da farsi. Già questa definizione apre scenari interpretativi che la misurazione del QI chiude. E’ possibile definire poco intelligente una persona che è perfettamente adattata al suo ambiente ma che per, gli standard, non ha un QI elevato? Prendiamo come esempio un contadino analfabeta. Se testassimo la sua intelligenza coi test, probabilmente avrebbe un punteggio molto basso. Questo ci porterebbe ad affermare che è una persona poco intelligente. Quella stessa persona, nata e cresciuta all’interno del lavoro e dell’ambiente nel quale vive, è invece assolutamente adatta, afferra le cose, gli attribuisce un significato e sa come muoversi per scoprire il da farsi. Magari, data la natura molto pratica e materiale della maggior parte dei suoi ragionamenti quotidiani, non sarà in grado di fare grandi astrazioni, ed è anche possibile che non riesca a comprendere il senso se qualcuno gli leggesse un testo. Questo lo rende non intelligente nel mondo all’interno del quale vive? No, perché all’interno del suo mondo è una persona estremamente adattata. Questa è una delle critiche più forti a quello che è il concetto di intelligenza. Intelligenza è anche la capacità di adattarsi e di sopravvivere, la capacità cioè di inserirsi all’interno di un ambiente ed utilizzare o sviluppare strategie che consentano appunto la nostra sopravvivenza  Se la capacità di astrazione non risulta fondamentale per questo, come potremo considerare una persona sprovvista come poco intelligente? Chi volesse approfondire il tema sulle controversie legate alla misurazione del QI può cliccare qui.

Alla luce di quanto fin qui detto, ho trovato particolarmente interessante l’articolo riportato dal Corriere della Sera riguardante appunto la messa in discussione del valore di questo tipo di misurazioni. In esso si riportano i risultati dello studio di Adrian Owen del Western’s Brain and Mind Institute, che in uno studio pubblicato sulla rivista Neuron ha appunto messo in discussione il valore del QI.  Lo studio di Owen è impressionante per il numero di persone coinvolte, ben centomila, che partecipando allo studio (sull’articolo potete trovare tutti i link che rimandano allo studio stesso) arrivano a fargli dire come nessuna componente da sola, tanto meno l’IQ, può spiegare tutte le capacità e l'”intelligenza” di un soggetto – spiega il ricercatore -. Dopo aver esplorato una tale mole di abilità cognitive, possiamo dire che le variazioni nelle performance sono imputabili a tre distinte componenti, ovvero la memoria a breve termine, il ragionamento e la capacità di verbalizzazione. Misurare l’intelligenza con un singolo test, qualunque esso sia, può dare perciò risultati fuorvianti.

L’autore avrebbe anche analizzato l’influenza dei videogiochi sul funzionamento del cervello (favorirebbero la memoria a breve termine ed il ragionamento) e sconfessato l’utilità dei cosiddetti brain training che non apporterebbero differenze significative sulle capacità generali. Vi segnalo che è in corso anche il nuovo studio sull’intelligenza: chi volesse saperne di più od iscriversi clicchi qui.

Insomma una serie di evidenze che quantomeno dovrebbero farci ridimensionare l’importanza che questo tipo di test hanno nella valutazione di abilità complesse tra le quali abbiamo l’intelligenza. E’ evidente come uno strumento di standardizzazione sia assurto a valutazione delle capacità, delle competenze, in ultima analisi del valore di una persona. E ci deve essere una stortura nel momento in cui uno strumento di misurazione raggiunge una tale potenza

L’articolo come vi dicevo è del Corriere della Sera.

Se voleste leggere l’articolo cliccate qui

Che ne pensate?

A presto

Fabrizio Boninu

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