Gli analfabeti delle emozioni

Gli analfabeti delle emozioniIl post è una riflessione che parte dal bellissimo brano che Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista italiano, scrisse all’indomani dell’ennesimo caso di cronaca nera che vedeva, nella parte dell’assassino, giovanissimi. La riflessione parte da questo punto: qual è il mondo interiore di questi giovani? Eccovi il pezzo:

L’hanno trovata morta in un cascinale abbandonato, vicino alla sua abitazione. Ancora non sanno se il ragazzo che ieri notte ha confessato il delitto ha agito da solo o insieme ad altri, che per ora restano in quella cupa ombra dove la sessualità si mescola alla violenza, in quel cocktail micidiale che, a dosi massicce, la televisione quotidianamente distribuisce nell’indifferenza generale.

Quel che è certo è che una brava ragazza di 14 anni, che sabato scorso era uscita con le chiavi di casa e il suo cellulare, come fanno tutti i ragazzi della sua età, a casa non tornerà più. Ma come è fatto il mondo fuori casa?Non dico il mondo in generale, ma il mondo di questi ragazzi di cui ieri, in un lucido intervento su Repubblica, Marco Lodoli ha descritto il loro apparato cognitivo in questi termini: “I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film, sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio. (…)”. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi”.

A questa diagnosi (che posso tranquillamente confermare perché questi stessi ragazzi li ascolto quattro o cinque anni dopo, un po’ più evoluti ma non tanto, all’università) resta solo da aggiungere che carenti non sono solo i nessi “cognitivi”, verbalizzati con un linguaggio che più povero non si può immaginare, ma anche quelli “emotivi”, per cui viene da chiedersi se questi ragazzi dispongono ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenersi dal gesto. Esiste nella nostra attuale cultura e nelle nostre pratiche di vita un’educazione emotiva che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro passioni, la qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure il mondo emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sanno dare neppure un nome? Se così fosse, di fatti simili a questa tragedia avvenuta nel Bresciano aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di poter governare la propria vita senza un’adeguata conoscenza di sé. E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta a cercare l’anima o direttamente in farmacia nel tentativo di sedarla; ma faccio riferimento a quell’educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure, che mette al riparo da quell’indifferenza emotiva, oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono. E chi non sa sillabare l’alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore, si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico.

E tutto ciò perché? Perché manca un’educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby sitter, e poi a scuola, quando ascoltano parole che fanno riferimento a una cultura che, per esser tale, non può che esser distante mille miglia da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale. Oggi l’educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. Se la scuola non è sempre all’altezza dell’educazione emotiva, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale, anche una maturazione psicologica, l’ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il mondo giovanile. Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non è loro arrivata, da adolescenti non hanno incontrato, e nelle prossimità dell’età adulta hanno imparato a controllare, fa la sua comparsa il “gesto”, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che questi ragazzi non hanno scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con se stessi per afasia emotiva.

Si tratta di gesti che mettono in crisi la giustizia e, con la giustizia, la società che per tranquillizzarsi è sempre alla ricerca di un movente. E il movente in effetti non c’è, o se c’è è insufficiente, comunque sproporzionato alla tragedia, persino ignoto agli stessi autori. Cercarlo ci porta lontano, tanto lontano quanto può esserlo l’avvio della nostra vita, dove ci è stato insegnato tutto, ma non come “mettere in contatto” il cuore con la nostra mente, e la nostra mente con il nostro comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore. Queste “connessioni”, che fanno di un uomo un uomo, non si sono costituite, e perciò sono nate biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati, da non percepirli neppure come propri. Questo è il nostro tempo, il tempo che registra il fallimento della comunicazione emotiva e quindi la formazione del cuore come organo che prima di ragionare, ci fa “sentire” che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo.

UMBERTO GALIMBERTI, Gli analfabeti delle emozioni, La Repubblica, 5 ottobre 2002.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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I neuroni-specchio…

I neuroni-specchio...Il post di oggi riguarda un interessante articolo del Corriere della Sera che ha come tema i cosiddetti neuroni-specchio. Per chi non lo sapesse, i neuroni-specchio sono dei neuroni che si attivano sia quando un soggetto compie direttamente l’azione, sia quando l’azione viene osservata nel momento in cui viene compiuta da altri. Chiaramente la rispondenza sarà maggiore se si osservano individui della stessa specie dell’osservatore. Questo è ciò che spiega il nome neuroni specchio: essi sarebbero appunto degli specchi (neuronali in questo caso) nel quale si riflette l’azione degli altri. In altri termini possiamo dire che è come se i neuroni dell’osservatore rispecchiassero ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se fosse l’osservatore stesso a compiere l’azione.

A cosa servirebbero questi neuroni? Qual è lo scopo di ‘imitare’ a livello neuronale un’altra persona? Il fatto è che questo tipo di neuroni sarebbe fondamentale per il comportamento empatico e alla base dei processi di apprendimento dei comportamenti cosiddetti specie-specifici. Il comportamento empatico, la capacità cioè di avvicinarsi emotivamente ad un’altra persona e sentire di poter provare ciò che l’altra persona sta provando, sarebbero appunto regolati da questi neuroni che permetterebbero, tramite il rispecchiarsi delle funzioni neuronali dell’altro, di sentire effettivamente ciò che l’altro sta provando in quel determinato momento. Il discorso è molto complesso, e ancora oggetto di studio, anche se le evidenze sembrano propendere per questo tipo di ipotesi.

Tornerò più avanti con dei post su questo argomento specifico. L’articolo, introduttivo al tema, come vi dicevo, è del Corriere della Sera. Sotto potete trovare il link all’articolo. Una volta che aprite il link sul sito del Corriere, vi consiglio anche di guardare il video.

http://www.corriere.it/salute/11_settembre_12/video-neuroni-specchio_83dbefb4-da35-11e0-89f9-582afdf2c611.shtml

A presto…

Fabrizio

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Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (2)

Perché sembra che i ragazzi 'peggiorino' nelle scuole medie (2)Torniamo sul tema introdotto dal post Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (1) (per rileggerlo potete cliccare sul titolo in arancione) L’autrice parla di senso di inadeguatezza dovuto al cambiamento scolastico ma credo non sia errato pensare che questo senso di inadeguatezza sia più ampio è abbia a che fare con la generale inadeguatezza che si inizia a percepire in quella fase della nostra vita, sia a livello di preparazione ma anche e soprattutto con le inadeguatezze a livello prepuberale (si inizia a non essere più bambini ma neanche adulti), a livello di relazioni (non si possono più fare certi giochi, soprattutto tra maschi e femmine perché non più ‘adeguati’).

Insomma tutta una serie di manchevolezze che possono pesare nel momento di massimo cambiamento del soggetto interessato. Aggiungiamo a questo il fatto che i ragazzi spesso non hanno una grande capacità di lettura di quello che sta succedendo, non capiscono perché non possano continuare a fare ciò che , fino a poco tempo prima, era autorizzato e tollerato nel mondo degli adulti. Tutto questo è disorientante non solo per il ragazzo ma anche per le figure che gli stanno intorno: i genitori spesso si trovano spiazzati dal cambiamento del proprio figlio e non sembrano in grado di ‘fronteggiare’ tutto ciò che il mutamento stesso comporta. Anche gli insegnanti si trovano a fronteggiare una delle situazioni più tipiche senza avere il  tempo né la disponibilità per stare attenti alle singole esigenze dei ragazzi. Questo porta ad una contrapposizione spesso frontale tra i genitori e la scuola: i primi, frustrati dal peggioramento, e in considerazione di come andasse bene il figlio alle elementari, attribuiscono alla nuova scuola il ‘merito’ del peggioramento del figlio per una serie di ragioni ( personale non preparato, scarsa offerta formativa, poca motivazione degli insegnanti ecc); gli insegnanti, all’ennesima massa di ragazzi chiassosi, si lamentano che ormai nessun ragazzo sembra in grado di arrivare con una famiglia alle spalle che possa dargli quel contenimento che spesso viene demandato alla scuola stessa. Nel mezzo di tutto questo stanno i ragazzi, disorientati dall’ennesima doppia lettura (colpa della scuola o della famiglia?) che non permette in un nuovo ambito di capire cosa stia succedendo. 

Quali sono le soluzioni per affrontare tutto questo? L’autrice cita i diversi attori in gioco: per i ragazzi sarebbe utile cercare di imparare a stare sul senso di inadeguatezza che l’età inevitabilmente comporta. Non pretendere che tutto questo sparisca e ‘vada via’ senza lasciar traccia, quanto cercare di comprendere come questo periodo possa essere fondamentale nello sviluppo della persona adulta che un giorno quel ragazzo diventerà. Per gli insegnanti sarebbe necessario, tenuto conto delle effettive e pratiche difficoltà, cercare di prestare il massimo dell’attenzione per ciò che quei giovani adulti stanno cercando di comunicare all’interno del contesto scolastico stesso. Per i genitori iniziare a pensare che quello che si ha davanti non è la semplice ’emanazione’ di ciò che sono i genitori, ma una persona che inizia ad essere indipendente, autonomo, una persona con la quale, pian piano, cercare di relazionasi su basi nuove che ci vedano inevitabilmente coinvolti ma che permettano all’adulto che si trova nei nostri figli di poter emergere. 

Per tutti e tre gli attori in gioco dovrebbe valere la consapevolezza di quanto la realtà della quale stiamo parlando sia multisfaccettata e complessa e di quanto eccessive ipersemplificazioni (è colpa della scuola, è colpa degli insegnanti…) lungi dall’aiutare la ricerca di una soluzione, finiscano con il deresponsabilizzare le scelte che ognuno di noi porta avanti e di attribuire la causa di ciò che succede essenzialmente a ciò che fa l’altro. Solo cercando di capire il nostro ruolo e la nostra posizione all’interno della realtà possiamo essere d’aiuto nello stabilire un modus che riesca a portare alla comprensione della situazione stessa. Sono consapevole che non sia facile, ma credo sia necessaria questa presa di coscienza rispetto ad una delle realtà che viene percepita come tra le più problematiche all’interno della nostra società.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio 

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