Facebook e il pregiudizio di conferma (1)

Facebook e il pregiudizio di conferma (1)Il post di oggi è dedicato ad un aspetto che colpisce sempre la mia attenzione e che penso accada soprattutto su internet. Mi sto riferendo alla polarizzazione delle posizioni espresse, il fatto cioè che diventiamo molto più rigidi su internet, e sui social network in particolare, rispetto ad una posizione che condividiamo. L’idea che sta alla base di questo ragionamento mi è venuta leggendo un libro che non si occupa di psicologia ma di cibo. Trovate i riferimenti bibliografici in fondo all’articolo.

Il nostro post comincia con un gioco, per comodità ho messo nella foto le carte che verranno utilizzate nell’esempio. L’unica differenza con il libro è che nel testo in questione, essendo in bianco e nero, si parla di carte chiare o carte scure, mentre io, avendo a disposizione i colori, parlo di carte blu o rosse:

Tengo nascoste in mano quattro comuni carte da gioco. Il dorso può essere chiaro o scuro e l’altro lato riporta una figura o un numero. (…) Ora dispongo le quattro carte davanti a voi, due coperte e due scoperte e faccio la seguente affermazione: Se una di queste quattro carte ha il dorso scuro (blu), allora è una figura. Voi non sapete se la mia affermazione è vera o falsa. Di due carte non conoscete il colore del dorso, mentre delle altre due non conoscete il valore. Il vostro compito è verificare la mia affermazione voltando le carte strettamente necessarie (e solo quelle). Potete voltare sia una carta di cui vedete il dorso per scoprire che valore ha, sia una carta di cui vedete il valore e volete conoscere il dorso. (…) Questo test è stato inventato nel 1966 dallo psicologo cognitivo Peter Wason. (…) Wason lo ha sottoposto a un gruppo di 128 adulti con un’istruzione universitaria. Il 46% delle persone ha risposto che avrebbe girato la carta con il dorso scuro (blu) e la donna di cuori. La seconda risposta più frequente è stata data dal 33%  delle persone intervistate. Queste ritenevano sufficiente voltare solo la carta con il dorso scuro (blu).Solamente il 5% degli intervistati ha dato la risposta corretta. (…) La risposta esatta è che insieme alla carta a dorso scuro, si deve girare il sette: affinché la mia affermazione sia vera, sul retro del sette  devo trovare un dorso chiaro (rosso). Se voltandola trovo un dorso scuro (blu) ho falsificato la mia teoria. (…)

Gli psicologi hanno inventato molte varianti a questo test, e hanno scoperto che mantenendo la stessa struttura logica ma cambiando la descrizione e il contesto si possono ottenere risposte diverse. La cosa interessante è chiedersi come mai così tante persone diano la risposta sbagliata. Secondo alcuni psicologi il motivo è da ricercarsi nel cosiddetto confirmation bias (la preferenza verso la conferma): il nostro cervello si fa un’idea di come funziona un certo fenomeno, e poi cerca degli esempi che avvalorino quell’interpretazione. Cerchiamo una “conferma”. dal punto di vista logico invece è fondamentale anche cercare di falsificare un’ipotesi: provare a vedere se è falsa. A quanto pare il cervello umano ha molte difficoltà ad accogliere questo punto di vista come “naturale”, ed è anche per questo, credo, che il modo di procedere della scienza e del metodo scientifico risulta di difficile comprensione ai più. (…) [1]

Forse a questo punto, vi starete chiedendo il perché vi ho riportato tutto questo e cosa c’entra tutto questo con Facebook. Il punto nodale di questo semplice esperimento, e di molti altri effettuati con lo stesso tema, è che noi tendiamo a dare ascolto alle cose che confermano piuttosto che a quelle che falsificano le nostre posizioni.

– Continua –

[1]Bressanini, P. (2010), Pane e bugie, Edizioni Chiarelettere, Milano, pp. 55-56

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Devo dire ai miei figli che mi voglio separare?

Devo dire ai miei figli che mi voglio separareLavoro spesso con adolescenti e con i loro genitori e capita che questi ultimi mi chiedano quale sia il modo migliore per affrontare una separazione. Ho notato come uno degli orientamenti più diffusi sia quello di cercare di nascondere il più possibile ciò che sta avvenendo in casa, convinti che questo sia il modo migliore per preservare la tranquillità dei figli da ciò che sta accadendo. Pur trovandolo un atteggiamento molto comprensibile da parte di genitori che sono già disorientati per quello che accade nella coppia genitoriale e non vogliono ‘infliggere’ le loro pene anche ai figli, ritenuti incolpevoli di ciò che sta avvenendo, non lo ritengo il modo più adatto per fronteggiare la situazione per diversi motivi:

  • presuppone che i figli non si accorgano di nulla; questa visione adultocentrica ipotizza che i ragazzi siano come del tutto inconsapevoli di ciò che li circonda e non siano in grado di accorgersi di ciò che avviene intorno a loro;
  • dal punto precedente deriva anche il pensiero che non possano comprendere ciò che sta succedendo, che tenerli fuori non possa che semplificare il problema e che, se dovessero venirlo a sapere, accrescerebbero ancora di più la problematicità della situazione;
  • si crea una sorta di autorizzazione alla menzogna emotiva, sostenendo una situazione che disorienta ulteriormente i ragazzi per la discrepanza tra ciò che viene mostrato e ciò che viene percepito in famiglia.

Ripeto: pur comprendendone le ragioni, trovo che questo modo di affrontare la situazione possa essere ancora più complesso da gestire. A maggior ragione se si parla di coppie con figli preadolescenti o adolescenti. A conferma di questa tesi, vi riporto il passo di un libro che, per l’appunto, si occupa del tema se sia meglio parlare di ciò che avviene in casa oppure cercare di mantenere un’impressione di unità nella famiglia: 

Sono davvero numerosi i casi in cui i due coniugi fingono di mantenere un alone di normalità all’interno della propria vita di coppia, illudendosi in tal modo di proteggere i figli. (…) a volte si scopre il tradimento di un coniuge, a volte entrambi si impegnano in relazioni extra coniugali mantenendo una vita comune sotto lo stesso tetto che è solo di facciata, spesso motivato dal fatto che ci sono figli.

A volte, invece, si resta sotto lo stesso tetto senza però conservare l’apparenza che tutto va bene. Così ogni giorno in casa scoppiano liti furibonde, di fronte agli stessi figli per i quali si decide comunque di non separarsi. È necessario che coppie così in crisi abbiano un supporto per fare chiarezza interiore. È naturale che a un figlio serva avere a disposizione un padre e una madre che vivono con lui sotto lo stesso tetto, ma tutto ciò deve anche prevedere un’unione sincera, intima e profonda tra i due coniugi. Se tale condizione non esiste, allora è bene che i due genitori comprendano le molte implicazioni emotive nelle quali i figli si trovano spesso intrappolati. Obbligare i figli a partecipare alla messinscena di una famiglia che sta insieme per convenienza, per routine oppure per evitare di affrontare la fatica di una crisi e di una separazione, significa imbastire la quotidianità sull’ordito della simulazione, della falsità, della verosimiglianza. E questo accade in un momento della vita dei figli in cui loro hanno soprattutto bisogno di verità, lealtà, sostanza e non forma. I figli di genitori che simulano sono spesso infastiditi  e arrabbiati dal ‘teatro’ al quale si trovano, loro malgrado, a fare da comprimari. È frequente sentir dire dalla voce di un adolescente: ‘molto meglio vivere con due genitori separati, piuttosto che partecipare alla messa in scena dei miei’. E la situazione si complica ulteriormente se i figli hanno il sospetto che i loro genitori abbiano avviato storie sentimentali parallele, condotte nella clandestinità. Proprio nel momento in cui devono investire sogni ed energie nella ricerca di un amore bello prezioso (…) si trovano tutti giorni a dover fare i conti con quello che resta della storia d’amore dei loro genitori. 
Insomma, è un bene che due genitori in crisi riflettano profondamente non solo su quello che sta succedendo alla loro coppia, ma anche sull’impatto che ciò comporta nel mondo dei pensieri e delle emozioni dei loro figli. A volte può succedere che l’unica via d’uscita consista proprio nel progettare una separazione che, pur tra gli innumerevoli problemi che implica nella vita di una famiglia, offre due innegabili vantaggi:
 
• anche affrontando una separazione, due genitori possono aiutare i figli a capire che l’amore è un valore troppo importante da difendere e che non può essere mascherato o sostituito con altro. Se si ha la certezza che una storia è finita, l’unico modo per difendere l’amore è smettere di confonderlo con ciò che non è;
 
• una separazione evita ai figli di convivere con madri e padri che spesso usano la relazione con loro come piattaforma sulla quale far convergere, invece, la loro incapacità di volersi bene. Un uomo e una donna che si separano devono avere chiaro che il loro impegno educativo dovrà farsi ancora più totale e coinvolto e che, mai e poi mai, il loro conflitto dovrà utilizzare l’educazione dei figli come campo di battaglia sul quale, invece, dovrà essere ricercato il massimo accordo possibile. [1]
 
Questo post è scritto pensando ad una coppia con figli adolescenti ma credo sia adatto anche a coppie che hanno figli più piccoli. La differenza potranno farla i genitori che si troveranno a dover calibrare al meglio possibile, in relazione all’età, alla personalità, alla sensibilità del proprio figlio, il modo con cui comunicare quello che sta accadendo. L’intento di questo passaggio non è quello di edulcorare la situazione, né di rende la realtà meno complessa da affrontare. Stabilisce semplicemente che la comunicazione possa avvenire anche sui cambiamenti dolorosi e traumatici che la famiglia si trova a dover vivere, e che questi passaggi non siano silenziati ma esplicitati e condivisi.
 
 
Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).
 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo, Feltrinelli, Milano, pp. 95-96 

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La macchina della verità funziona?

La macchina della verità funzionaIl post di oggi, basato su un articolo del Corriere della Sera (in fondo al post potete trovare il link diretto all’articolo), si occupa di un argomento particolare, il poligrafo, comunemente conosciuto col nome di macchina della verità. Chi non conosce questo strumento? Compare in moltissimi film, e ha lo scopo, sia nella finzione che nella realtà, di stabilire quando una persona stia mentendo. In realtà la scienza ha sempre avuto molto bene in mente i limiti di una simile rilevazione della verità. La macchina infatti basa i suoi meccanismi su quelli che sono i correlati fisici (le espressioni corporee) che vengono associate alla bugia. Misura per esempio il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la conduzione dell’elettricità sulla pelle oppure la sudorazione del soggetto. Questo si basa appunto sulla premessa che una persona che sta dicendo una bugia abbia un battito cardiaco accelerato o una maggiore conduttività cutanea rispetto a chi non sta mentendo.

In molti paesi del mondo, ed in particolar modo negli Stati Uniti, la macchina della verità è utilizzata come prova molto importante durante i processi. Molti professionisti si sono espressi circa la possibilità che fosse uno strumento fallace e abbastanza facile da ingannare. Solo adesso, grazie allo svolgimento di veri e propri test circa la sua predittività, si è arrivati a ritenerlo uno strumento quantomeno difficile da considerare attendibile. L’utilizzo di strumenti di precisione come il neuroimaging ci da infatti la possibilità di verificare quali aree del cervello siano coinvolte nel momento in cui la persona agisce. Brevemente il neuroimaging permette di verificare quali aree del cervello stiano lavorando maggiormente in un dato momento (misurando, per esempio, l’afflusso di ossigeno in quell’area oppure misurando il livello di consumo di glucosio per produrre energia). La prima scansione è ottenuta con l’utilizzo della tomografia a risonanza magnetica la seconda con l’utilizzo della TEP, tomografia ad emissione di positroni. Grazie all’utilizzo di questi strumenti è possibile vedere in vivo come stia funzionando il cervello stesso. Questi sono gli strumenti utilizzati che hanno portato a mettere in discussione l’attendibilità e l’efficacia del poligrafo. Lo studio è stato abbastanza semplice: 

(…) promosso dalle Università di Cambridge, Kent e Magdeburg dimostra infatti che talvolta il reo mette in atto, volontariamente, temporanei meccanismi di soppressione della memoria in grado di mandare in tilt qualsiasi tecnica, proprio perché le zone cerebrali chiamate in causa realmente si comportano come se non esistesse colpevolezza, anche quando non è così. I volontari osservati sono stati indirizzati a compiere finti crimini e a cercare di sopprimere successivamente il ricordo ed è risultato che alla vista di un dettaglio riconducibile all’episodio criminoso alcuni tra loro erano in grado di pilotare le reazioni del proprio cervello, impedendo all’area cerebrale che ricordava l’evento di «accendersi».

E’ stato possibile quindi verificare per la prima volta come alcuni soggetti siano in grado di ‘pilotare’ consapevolmente i propri ricordi ed impedire che l’area in cui hanno sede i ricordi (che ha dunque un maggiore afflusso di sangue o di glucosio nel momento del funzionamento) fosse rilevabile. D’altronde questa era una delle criticità maggiori del poligrafo fin dal suo esordio dal momento che se il soggetto non riteneva di aver compiuto un crimine, oppure non ricordava di averlo fatto, avrebbe potuto non attivava tutti quei correlati fisiologici che stanno alla base delle misurazioni del poligrafo stesso. Questa capacità di ‘spegnere’ alcune aree cerebrali può portare anche a mettere in discussione l’attendibilità del neuroimaging nella ricerca della verità. Se una persona può arrivare a modificare l’attività di alcune aree cerebrali, questa infatti non verrebbe rilevata neanche dalla tomografia o dalla TEP. Insomma, come tutti gli strumenti può essere fallace. Come riportato nell’articolo, la dottoressa Zara Bergström (…) specifica che gli strumenti di neuroimaging hanno un’assoluta attendibilità, ma il problema è a monte, ovvero nel comportamento cerebrale del sospettato e nella complessa psicologia umana, in grado di controllare la capacità mnemonica e accantonare i ricordi scomodi e non desiderati. Esistono paesi, come gli Stati Uniti, l’India e il Giappone, dove la scansione dell’attività cerebrale viene considerata valida come prova nei tribunali, con la pretesa di individuare con accurata precisione un’eventuale colpevolezza. Ma la sua fallibilità sta nel fatto che l’essere umano può realmente e intenzionalmente inibire un ricordo, comportandosi a tutti gli effetti come se la memoria del crimine venisse rimossa.

In altre parole bisognerebbe far si, dato il ridotto margine di conoscenza che ancora abbiamo su alcuni meccanismi neurologici, che prove di questo genere, data la non totale affidabilità, fossero ricomprese all’interno di un quadro di prove più ampio. Basare la colpevolezza o l’innocenza solo su questi strumenti potrebbe essere fonte di tragici errori processuali.

Intanto qui il link per l’articolo:

L’articolo, come detto, è del Corriere della Sera ed è firmato da Emanuela Di Pasqua. All’interno dell’articolo sono presenti i link che rimandano allo studio citato.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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