Quanti giochi dovrebbero avere i bambini?

Quanti giochi dovrebbero avere i bambiniCapita, lavorando con bambini e coi loro genitori, che vengano chiesti consigli su come affrontare quelle che nelle descrizioni appaiono come vere e proprie piccole emergenze quotidiane che riguardano soprattutto la gestione dei rapporti tra genitori e figli. Come fare se…? Come comportarsi quando…? Cosa rispondere se…?  Vi ho spesso detto come non reputi opportuno entrare nell’area dei consigli, perché starei implicitamente accogliendo il fatto che i genitori stessi non siano in grado di occuparsi dei propri bambini, e che non siano, in ultima analisi, dei bravi genitori. Uno degli aspetti che viene riportato più spesso riguarda la non obbedienza dei figli i quali, secondo i genitori, non sembrano intenzionati ad obbedire neanche quando vengono levati loro, per punizione, qualunque tipo di giocattolo. Via la Playstation, via la Wii, via le Psp, via la tv, via il pc, ecc. Ora già da questo lungo elenco si potrebbe iniziare una riflessione sull’abbondanza di giochi e distrattori dai quali i bambini sembrano costantemente circondati nella loro quotidianità. Questo fa sorgere un altro interrogativo legato ai giochi: che valore hanno i giochi nell’educazione di un bambino? Come detto, i genitori si lamentano di non essere ascoltati nonostante levino per punizione tutti i giochi dalle mani dei figli. Il vero quesito sarebbe: perché i bambini hanno così tanti giocattoli? Sono necessari al loro sviluppo? Qual è il senso di una punizione che leva un gioco quando sanno di poter contare su un’altra infinità di giochi pronti a rimpiazzare e non far rimpiangere il gioco sottratto o perduto? Per illustrare meglio il valore e la complessità che il gioco ha per un bambino vi riporto un brano (trovate i riferimenti bibliografici in fondo alla pagina) che mi sembra perfetto per illustrare ciò di cui parlavo:

Spesso i sensi di colpa ci inducono a riempire i nostri figli di cose materiali. Le case di oggi straripano di giocattoli, vestiti, divertimenti. (…) Il risultato è che i bambini crescono con l’idea che le cose siano a loro disposizione e debbano essere costantemente rinnovate. Si comportano come se avessero assolutamente bisogno di qualcosa, facendo leva senza volerlo sul nostro timore di non dar loro abbastanza, che si tratti di cose materiali o di tempo, attenzione, amore. Vogliamo compensarli per quello che ci pare di non aver dato, e diamo loro oggetti. Ma così facendo rischiamo di privare il bambino di un’esperienza necessaria. Quando vogliono qualcosa, i bambini hanno la sensazione di averne bisogno. Ma noi, come adulti, siamo in grado di discernere ed attraverso il nostro atteggiamento anche il bambino impara a distinguere tra desiderio e bisogno; è importantissimo che riesca a farlo, perché rischia altrimenti di essere sempre in balia di bisogni estremi, che non potranno mai essere soddisfatti del tutto. L’abitudine ad ottenere ed a buttare via facilmente, inoltre, priva il bambino dell’idea che esista qualcosa di speciale. Se il giocattolo si rompe, per risparmiargli un dispiacere viene immediatamente sostituito, ma così il bambino non fa l’esperienza di soffrire per la perdita di qualcosa e di superare poi il dolore. Così i giocattoli non possono assumere un significato emotivo e il bambino non impara da affezionarsi profondamente a qualcosa. Ne risente anche il suo senso della realtà, la presa di coscienza che, se si rompe qualcosa, è danneggiato ed è possibile che non funzioni più. Un’altra conseguenza positiva del fatto di non ottenere sempre quello che si vuole e di sentirsi dire ogni tanto no da un genitore, è la capacità di sopportare uno spazio vuoto. (…)

Se gli spazi vengono riempiti all’istante, non c’è posto per la creatività. Se un bambino ha un giocattolo per tutte le occasioni, non userà la sua immaginazione per inventare nuove combinazioni, per trasformare un oggetto in un altro. Una scatola sarà solo una scatola, invece che una potenziale casa di bambole, un pezzo di legno resterà in giardino senza poter diventare la bacchetta di un direttore d’orchestra, un fucile o qualunque altra cosa suggerisca la fantasia. Il fatto di avere sempre a disposizione l’oggetto specifico rischia di sviluppare solo i lati più concreti, a scapito della capacità simbolica, dell’inventiva, dell’immaginazione. Inoltre, cosa ancora più importante, viene riportata la sensazione che lo spazio vuoto sia intollerabile. Stiamo dicendo a nostro figlio che non avere è terribile, che senza soddisfazione è perduto. In fondo gli stiamo trasmettendo l’idea che lui è quello che ha. Se il bambino lega la propria importanza a quello che possiede, la sua immagine di sé sarà sempre a repentaglio. Tollerando di non avere, invece, acquista più fiducia in se stesso e più consapevolezza di essere la persona che è, con un suo carattere, che è la cosa più preziosa di tutte, che nessuno gli può togliere. È questo senso del proprio valore, di essere apprezzati per quello che si è che aiuta a sopravvivere nei periodi di avversità. [1]

Credo sia esaustivo nel raccontare quella che è la complessità e l’intreccio di diversi piani (educativi, relazionali, oggettuali e simbolici) che da sempre accompagnano lo sviluppo del bambino attraverso il gioco. E’ importante prestare attenzione a questi aspetti perché anche su questi si basa la crescita e lo sviluppo del bambino. Forse allora sarà più proficuo che ci si metta a parlare con loro per spiegare perché non compreremo tutti i giocattoli visti a casa dall’amichetto piuttosto che accontentarlo acriticamente pur di non vederlo piangere. Anche per l’adulto è un importante passaggio, perché, cresciuti nell’idea che tutto sia accessibile e comprabile, deve implicitamente contenere l’idea di essere ‘cattivo’ nel non accontentare il proprio figlio. Insomma una sfida evolutiva per tutti i membri della famiglia coinvolti. Un altro esempio di come la complessità entri anche nelle cose più quotidiane della nostra vita.

Come al solito fatemi sapere che ne pensate e se qualche genitore volesse raccontare la sua esperienza può contattarmi tramite blog, email (fabrizioboninu@gmail.com) o telefono (3920008369).

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Phillips, A. (2003), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano

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graziella
10 anni fa

gentile dott. Boninu,
leggendoLa non ho potuto fare a meno sorridere. Appare chiaro che nel suo ambulatorio riceve persone di un certo grado sociale. Temo che non sia valido per tutti il discorso dei troppi giocattoli… ma tornando al tema di base: se i genitori lavorano e non sono sempre con i propri figli, dovrebbero avere la possibilità di affidare i propri piccoli ai loro nonni. Tante volte la loro riluttanza a farlo non ha motivi reali. Molto spesso i bambini trascorrono le ore extrascolastiche tra svariati sport, fino al rientro a casa, all’ora di cena. Tutto ciò non li abitua alla compagnia reale, a socializzare, anche in famiglia. Se fossero liberi di ‘razzolare’, magari in compagnia dei nonni, non cercherebbero la finta socializzazione dei giochi al cellulare & c. Siamo noi a dover abituare i bambini ad ascoltarci. Quanti sono i genitori che si prendono del tempo per giocare con i propri figli? Quanti leggono con loro o, per loro? Quanti raccontano ai bambini delle storielle anche mentre guidano … e i giochi, sempre in macchina, con le iniziali a scelta per ciò che si vede fuori dai finestrini? Siamo noi genitori che non abituiamo i ragazzi ad ascoltarci/are. E piuttosto si vedono mamme intente come e anche peggio dei bambini a tamburellare col cellulare. Per quanto riguarda il disfarsi dei giocattoli poi, sono le mamme che stabiliscono di buttarli via. Perché ci si affeziona ai vecchi giocattoli! Cordiali saluti, Graziella, Genova.

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