Una nuova morte ‘famosa’ scuote il mondo reale e, di conseguenza, il mondo virtuale. L’ultimo episodio riguarda il famosissimo attore Robin Williams scomparso lo scorso 11 Agosto. Dal giorno in questione, come in moltissime altre occasioni del genere, sui social network abbiamo assistito al florilegio dei più vari stati: citazioni famose dai film interpretati dall’attore, immagini degli stessi film, immagini dei film con le frasi più rappresentative, appassionati stati dove si viene messi al corrente di quale film è stato più importante per la persona che lo posta.
Lungi da me l’idea di pensare che esista un modo giusto o sbagliato per celebrare la scomparsa di qualcuno, noto, però, un punto che mi colpisce: questa condivisione continua, questa sorta di incapacità a fermarsi un attimo e cercare di capire cosa veramente la scomparsa di una persona che giudichiamo tanto importante ha provocato in noi, testimonia ancora una volta di più sia la nostra incertezza a maneggiare un tabù come la morte, sia la nostra profonda difficoltà nel riuscire a contenere le nostre stesse emozioni. Non c’è quasi interruzione tra ciò che avviene e il modo in cui viene condiviso, nessun momento nel quale la persona possa pensare a cosa ciò che sta accadendo sta provocando in lui. Se ci fermassimo a pensare, credo che avremmo modo di sentire davvero quello che ci sta passando per la mente (e per il cuore!).
Questa continua rincorsa ad essere più veloci degli altri a commentare, più rapidi nel condividere status, più originali degli altri nello scrivere cose sulla nostra bacheca, mi porta a ritenere che più che contattare l’emozione per quello che sta avvenendo, stiamo cercando di allontanarla, di condividerla, di ‘scaricarla’, delegando alla spartizione con gli altri il peso stesso della nostra emozione.
Questo è comprensibile: una morte, per quanto possiamo pensare sia quella di una persona ‘lontana’ e non conosciuta, è invece molto dolorosa quando abbiamo la sensazione che quella persona ci abbia accompagnato in tanti rilevanti momenti della nostra vita, partecipandovi ed entrandovi a far parte a tutti gli effetti. Una persona che, come in questo caso, può averci fatto ridere, fatto piangere, fatto riflettere, fatto star male, una persona che, a sua insaputa (o forse per niente a sua insaputa!) ha partecipato alla vita di milioni di persone. Il dolore, per quanto appunto non sia una persona presente (dovremmo veramente iniziare a ridefinire i termini che utilizziamo quotidianamente!) è sentito, il dispiacere per la perdita della persona è forte perché percepito come perdita di qualcosa anche nostro.
Tutto questo, anziché farci fermare un attimo, attiva spesso, di contro, una reazione opposta: buttare fuori, scacciare, allontanare. Questo accade anche alla morte di persone conosciute personalmente, quando il funerale stesso diventa occasione per mettere assieme i dolori, per far sì che ognuno possa partecipare e condividere il dolore con gli altri.
Nell’era dei social network questa tendenza molto comune, la condivisione del dolore, è cambiata in maniera paradossale: è diventata una rincorsa, come dicevo prima, a mostrare agli altri quanto l’evento ci abbia colpito ma, il momento stesso in cui lo mostriamo è il momento in cui abbiamo più difficoltà ad entrare in contatto con ciò che sentiamo: ‘l’esposizione’ è l’istante di maggiore distanza dall’emozione provata. Non ci lasciamo che poco spazio per riflettere, per sentire cosa sia stato a provocare quel dolore. Nulla di tutto questo appunto, tutto è pubblico, tutto già dato in pasto a Facebook, tutto già espulso nel fiume di milioni di altri post che segnalano la ormai universale incapacità a fermarci a vivere privatamente un momento di dolore.
Questo è il punto da cui ripartire secondo me: il nostro dolore. Prima di mostrarlo in un post su Facebook, proviamo a fare quello che ci costa di più: condividerlo con noi stessi. Proviamo a stare su quello che proviamo, a cercare di capire il senso di quel dispiacere per la morte dell’attore famoso.
Credo sia uno dei pochi modi attraverso il quale un’esperienza dolorosa può trasformarsi in qualcosa di diverso e insegnarci aspetti nuovi di noi stessi. Altrimenti il rischio è che sembri solo l’ennesima occasione per mostrare agli altri ciò che in realtà abbiamo difficoltà a sentire.
Che ne pensate?
A presto…
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Salve Michela, bentornata. Innanzitutto grazie per il bellissimo commento. Non poteva focalizzare meglio il senso del mio post che non si proponeva di trovare ‘il modo migliore’ di relazionarsi alla morte, quanto una riflessione più generale della morte ai tempi della condivisione totale. Naturalmente esiste questo aspetto di condivisione che lei ha descritto così bene, ma mi colpisce molto un aspetto più esibito nel dolore, come se non ci fosse nessun raccoglimento ma tutto fosse espulso con una velocità tale da non farci neanche vivere il sentimento che la morte ci provoca. Nicola ha condiviso con lei il suo sgomento per la scomparsa di Robin Williams e da li è partito per dare un senso a quello che sentiva e a ciò che era successo. Se invece di parlarne con lei (o con le persone intorno) si fosse affacciato alla finestra e avesse urlato il suo stato d’animo avrebbe disperso quel sentimento non avendone che poca occasione di riflessione per se stesso. L’esempio non è dei migliori ma credo renda bene l’idea dello spargimento del suo sentire che temo avvenga spesso sui social network, mezzi che ci mettono in comunicazione con tanti ma veramente in contatto con pochi.
Gentile Dott. Boninu,
Spero di riuscire ad esprimere in modo chiaro e con tanto rispetto per il contenuto del suo post, le mie riflessioni e il perché non mi trovo stavolta del tutto d’accordo con quanto lei ha scritto. Forse parto solamente da un punto di vista diverso e quindi arrivo a una diversa panoramica.
E’ vero che l’emozione, anche verso la morte, venga spesso spettacolarizzata, più che espressa per dare voce a una lettura del proprio cuore. Nel momento stesso in cui i media riportano un fatto inerente una persona nota, anche triste come la sua morte, il mezzo stesso non garantisce certamente che la notizia passi attraverso il cuore di chi la diffonde. Ma non credo che sia giusto farci interpreti dell’impatto emotivo che questa possa suscitare in chi viene a conoscenza di questa notizia. Le dico ciò anche perché il mio figlio minore, di 13 anni, alla notizia della morte dell’attore R. Williams, c’è rimasto molto male. Avevo visto il suo film “L’attimo fuggente”, proprio la sera prima, e avevo colto l’occasione di parlare con lui delle bellissime frasi che l’attore diceva ai suoi alunni e ne abbiamo discusso il senso. Ebbene, mi fece riflettere una frase di mio figlio che forse noi adulti pensiamo spesso, ma dette da un ragazzino hanno una valenza diversa, che induce un adulto a una più profonda riflessione. Così mi sono dovuta chiedere cosa volesse dire precisamente, Nicola, quando, pur essendo triste quando ha appreso la notizia, con le parole “Certo, è una cosa veramente triste, ma mi chiedo perché si parli tanto alla televisione della morte di una persona famosa, quando nel mondo, tutti i giorni, muoiono tante persone, e nessuno se lo ricorda, oppure sono persone normali, non famose…” . La notizia della morte di Robin Williams ha dato spunto, in famiglia, di parlare anche della tragicità di un gesto insano come il suicidio, con la pietas umana inevitabile in un contesto di così tanta profonda sofferenza da indurre a togliersi la vita. Ma Nicola ci ha spinto oltre, e credo che la stragrande maggioranza delle persone, pur con le modalità peculiari del loro modo di sentire, abbiano proprio riflettuto sul senso dell’esistenza e del grande valore della buona salute, in una triste circostanza come questa. E’ chiaro che essendo stata la morte di un personaggio pubblico, tanti hanno voluto lanciare il loro messaggio, tramite quei mezzi che sono altrettanto pubblici, come se con questa modalità fosse più raggiungibile al “mittente” la missiva o il pensiero di cordoglio, di speranza, o di grande emozione che, se condivisa, forse ha anzi un maggiore rilievo. Come tanti palloncini lanciati insieme in aria…
Personalmente, rifletto con riserbo su certi temi così importanti ed attuali come la morte. Ma quando esprimo le mie riflessioni in famiglia, coi figli o con i nostri migliori amici, mi rendo conto di dare corpo a quelle emozioni che hanno occasione anche di suscitarne altre, o di fare esplorare anche il proprio sentire attraverso la condivisione, lo scetticismo, la paura e l’interesse ad esprimere la propria riflessione.
Parliamo spesso con il pronome “noi” quando esprimiamo un’opinione diffusa, o un modus operandi diffuso che vogliamo criticare e verso il quale sentiamo necessario esprimere la nostra non adesione. In realtà, vogliamo sottolineare a gran voce di essere “fuori dal coro”, pensando che pochi possano avere la prerogativa della consapevolezza di emozionarsi e leggersi dentro. Dovremmo, invece, ricordare che il fatto stesso che il dolore non fa differenza di genere, né di sesso, né di religione, né di colore della pelle, assume nella sua più totale, tragica potenza proprio nella morte, e che questa tocca qualunque famiglia, ogni individuo, con la malattia, sia del corpo che dell’anima, e sempre, inevitabilmente, come tappa finale alla chiusura del cerchio senza alcuna eccezione. Ecco perché il coro, qualche volta, non è un belare di pecore, ma un canto, di gioia o di pianto, di condivisione che emoziona perfino di più, facendoci sentire gocce di un unico grande mare, e figli di uno stesso destino. Perfino fratelli. Un cordiale, affettuoso saluto da Treviso, scusandomi qualora non avessi debitamente focalizzato il senso del suo interessante articolo, e fossi perfino andata fuori tema.
Quanto hai scritto è da un po’ che lo penso anch’io. Ma d’altra parte stiamo diventando talmente “sensibili” da avere paura di tutto quanto può farci male. E così la morte (e financo il suo pensiero) deve ssere “sconfitta” lasciandola passare in superficie. Quanto più ci è vicina tanto più dobbiamo fare i conti con la nostra morte: e spaventa! La morte oggi non è più una parte naturale, anche se dolorosa, della vita… ma un fallimento delle nostre aspettative di vita (quasi eterna) che la società di oggi ci promette.
Credo che sì, veramente sia necessario fermarci a sentire cosa la morte, anche del prossimo più lontano, dice alla mia mente, al mio cuore, che sentimenti ispira ….
Ricordo, la mia età me lo permette, quando la morte dell’anziana nonna era “preparata” da tutta la famiglia: lì attorno al letto le figlie, le nuore e, un po’ più lontani, gli uomini della casa(forse perché da sempre l’uomo è più indifeso verso questi sentimenti forti). Anche i vicini di casa aspettavano, magari pregando… i bambini nel cortile giocavano sottovoce. E poi quando avveniva tutto era già pronto: vestito, letto…E dopo c’era un tempo di lutto…
Penso che oggi viviamo negando la morte perché oggi è la PAURA che ci tiene schiavi.
Un’altra cosa: la morte, attraverso i media, entra ogni giorno nelle nostre case e noi -un po’ come i dottori che sempre a contatto con le sofferenze e la morte finiscono col diventare insensibili- così come l’informazione che un secondo dopo è già passata ad altro, spostiamo il nostro pensiero e anche la morte non ci tocca, non si ferma dentro di noi.
Salve Lisa, innanzitutto grazie per il suo intervento! Sono assolutamente d’accordo con quanto afferma sul senso di fallimento che la morte provoca nella nostra società. Ormai è una dimensione totalmente negata, come se non fosse parte integrante della nostra esperienza di vita. E’ anche vero che ci si è assuefatti alla sua rappresentazione ma da questo dovremo ripartire, dal prendere coscienza di cosa l’idea della morte provochi in noi. Spostare su altro l’attenzione è solo un altro modo per non soffermarci su qualcosa che ci incute un profondo sgomento. Grazie ancora, a presto Fabrizio