Viviamo in un mondo decisamente interconnesso, un mondo nel quale molti dei rapporti e delle relazioni sociali finiscono per passare tramite mediatori quali messaggi o social network. È difficile negare il peso che la mediazione di questi mezzi di comunicazione sta oramai avendo sulle nostre vite quotidiane: rapporti che prima avvenivano solamente faccia a faccia, ora avvengono quasi esclusivamente filtrati da specifiche connessioni: e-mail, messaggi, Whatsapp, social network, eccetera. Questo tipo di comunicazione, spesso definita comunicazione 2.0, ha enormi ripercussioni all’interno della nostra società, sia perché ha modificato e ampliato le possibilità di interazione tra le persone, mediandole appunto, sia perché ha provocato, nella ricchissima messe di possibilità di contatto, una dispersione sulle possibilità di contatto tra le persone.
Queste nuove modalità comunicative non potevano non coinvolgere il mondo della psicologia. Lo psicologo, persona inserita all’interno del contesto sociale nel quale vive (o perlomeno così lo si immagina!), può ricevere diverse possibilità di contatto sotto forme e con modi completamente diversi. Vi posso parlare della mia esperienza personale: durante la settimana ricevo mail, messaggi su Facebook, tantissimi messaggi su Whatspp (questi ultimi sostanzialmente dai miei pazienti). Aggiungete a tutto questo l’opzione di richiedere un percorso di consulenza psicologica online e vi renderete facilmente conto di quante possibilità di contatto esistano.
Questa frammentazione può creare difficoltà o perplessità, e molti colleghi tendono ad ostacolare e scoraggiare modalità di contatto che non siano la semplice interazione telefonica diretta, rifiutando il contatto tramite messaggi, tramite social network o Whatsapp da parte dell’utenza.
Mi sono trovato perciò a riflettere circa l’opportunità di accogliere o meno questo tipo di interazione e la riflessione ha avuto un esito opposto. La premessa che mi si è chiarita, e che ho sempre considerato prioritaria, è che il compito principale dello psicologo debba essere quello di cercare di capire e accogliere le richieste da parte dell’utenza. Nell’infinito novero di possibilità che le persone possono utilizzare in questo momento, esiste anche la possibilità che mi contattino tramite diversi e ‘non tradizionali’ (ma quotidiani) canali di comunicazione. E di questo non posso non tenere conto.
Sono consapevole del fatto che un contatto di questo tipo, mediato e meno diretto di una telefonata, possa essere considerato ‘deficitario’. Ma, in accordo con il primo principio della comunicazione postulato da Paul Watzlawick, la possibilità, cioè, che non si possa non comunicare, è anche dalla scelta del primo contatto che si possono avere informazioni preziose sulle dinamiche relazionali che quella persona privilegia rispetto ad altre che tende magari a non utilizzare. Se una persona preferisce contattarmi la prima volta in maniera scritta, credo stia trasmettendo informazioni circa la preferenza ad avere una modalità più distante, mediata, piuttosto che un contatto diretto. La consapevolezza di queste informazioni possono giocare un ruolo molto importante all’interno della terapia stessa, marcando un contesto relazionale che dall’essere distante può essere ricalibrato in prossimo, utilizzando questi aspetti per costruire riflessioni che portino la persona ad interrogarsi sul significato che la distanza relazionale gioca nella sua vita.
Per questo motivo sento di avere difficoltà nell’osteggiare la modalità di approccio che i pazienti scelgono di avere con me. Se è vero che questa frammentazione di comunicazione può essere difficoltosa per il professionista, che si trova a dover gestire una molteplicità di possibili interazioni comunicative, è altrettanto vero che questo costituisce comunque un ponte comunicativo tra lo psicologo e l’altro ed è un ponte comunicativo particolarmente importante all’interno delle relazioni sociali della nostra società.
La capacità evolutiva e di cambiamento dovrebbero essere connaturate alla nostra professione. Non so cosa Freud direbbe di messaggi su Whatsapp, né di status di Facebook. Non so neppure come potrebbe reagire di fronte a questo commistione all’interno del setting terapeutico. Non lo so e non credo sia importante. Il mondo (fisico, tecnologico, sociale e relazionale) è profondamente cambiato dal tempo nel quale il geniale capostipite di tutti noi costruì la sua rivoluzionaria ipotesi circa il funzionamento dell’animo umano. Immagino che, così come lui fu rivoluzionario a suo tempo, costruendo e costituendo un punto di cesura enorme tra un prima e un dopo, allo stesso modo dovremmo essere rivoluzionari noi, non attenendoci a schemi costruiti per un mondo oramai profondamente modificato e facendo nostri gli strumenti che questa società inizia a farci avere a disposizione.
Starà, ovviamente, alla capacità del singolo professionista, affiancato da una rigorosa etica che lo aiuti ad evitare abusi ed eccessi, far sì che restino mezzi nelle sue mani evitando che, di contro, lo trasformino in un semplice mezzo nelle loro.
Che ne pensate?
A presto,
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