Il post di oggi è dedicato ad una clientela particolare: i bambini. Lavorare con i bambini non è sempre facile e non è scontato che si possa fare con le stesse tematiche o con le stesse modalità con le quali si lavora con gli adulti. La differenza più rilevante può essere dovuta al fatto che un adulto in terapia di solito è più consapevole della relazione che si sta costruendo. Questa consapevolezza è, naturalmente un pregio, ma può diventare un’aspetto in più di cui tenere conto nel momento in cui subentrano paure, ansie, timori che possono inficiare la stessa relazione terapeutica. Un bambino è, invece, per sua stessa natura molto più immediato, più istintivo, può essere più aperto e pronto al dialogo (o al gioco!) senza tante paure. Ovviamente possono essercene anche nel caso dei bambini, ma a causa di questa immediatezza è il caso di prestare particolare attenzione a come lavoriamo con loro.
Come sarebbe meglio lavorare con i bambini? Il tema non è facile soprattutto per la delicatezza delle persone coinvolte nel trattamento. È assolutamente necessario cercare di riflettere su quelle che sono le prerogative dei bambini nel lavoro terapeutico. Una delle indicazioni viene fornita dal noto psicoterapeuta Luigi Cancrini: nessun operatore sociale (e, dunque, nessuno psicoterapeuta) dovrebbe accettare di rispondere a quesiti specialistici relativi ad un bambino senza esaminarlo nel vivo della relazione che egli ha con il suo ambiente. Nessuna decisione andrebbe presa relativamente ad un bambino, di conseguenza, senza tenere conto in via prioritaria dell’effetto che essa avrà sul contesto in cui il bambino è posto [1]. Secondo l’autore sarebbe necessario lavorare con un bambino cercando di osservarlo nella sua interazione con l’ambiente nel quale si muove. Per diverse ragioni, è spesso difficile che uno psicologo possa recarsi fisicamente in casa di ogni suo piccolo paziente. Questo limite può essere superato con un primo incontro che preveda la partecipazione dei genitori. L’incontro con i genitori permette infatti di delineare le ‘modalità di funzionamento’ della famiglia stessa, e permette di farsi un quadro delle dinamiche della famiglia.
Un’altro aspetto al quale sarebbe bene prestare attenzione riguarda il sintomo stesso che quel bambino porta in terapia. Un secondo consiglio sulla psicoterapia dei bambini riguarda la doppia importanza del sintomo che non è solo causa di sofferenza, ma anche, e spesso soprattutto, di un arresto pericolosissimo del suo processo di crescita e di socializzazione: disturbando o bloccando la relazione con genitori e insegnanti su cui si basa tanta parte del suo sviluppo emotivo; rendendo difficile l’insostituibile rapporto con i coetanei e con la scuola; creandogli intorno un clima che favorisce (invece di contrastare) le sue tendenze regressive [1]. In questo passaggio l’autore sottolinea l’importanza del sintomo come comunicatore di disagio e di blocco per la crescita del bambino. Naturalmente ogni sintomo ha una valenza e una funzione ben precisa che con un buon lavoro sarebbe necessario chiarire. E’ importante tenere sempre bene a mente come l’insorgenza del sintomo sia causa di blocco nel bambino stesso e possa, poi, ripercuotersi sui diversi ambiti della sua vita (scuola, coetanei, ecc).
L’autore propone anche le possibili soluzioni a situazioni di questo tipo:
– Interventi rapidi e inizialmente centrati sul sintomo;
– Misure di socializzazione che facciano leva sulla consapevolezza degli adulti che si occupano di lui a proposito della necessità di non farlo ‘restare indietro’: puntigliosamente insistendo, con l’aiuto anche di interventi specifici: nel caso in cui il ritardo è giustificato anche da cause di ordine neurologico; sulla necessità di farlo crescere il più possibile;
– Sviluppo di un clima collaborativo e di uno ‘spirito di squadra’ fra tutti gli adulti che di lui, a vario titolo, sì occupano, compresi, ovviamente, i genitori la cui competenza primaria non andrebbe mai posta in discussione. [1]
Punto nodale, così come nel lavoro con gli adulti, rimane quello di accogliere in un primo momento il sintomo e lavorare a partire da quello. Solo in un secondo momento si può estendere il lavoro cercando di riflettere e di comprendere come si è arrivati allo stesso sintomo. La peculiarità del lavoro con i bambini riguarda il fatto che il lavoro deve necessariamente passare per una inclusione delle figure significative del bambino stesso, e per una maggior coordinazione tra gli adulti che si occupano di lui. Questa è una delle aree più problematiche dell’intervento psicologico, laddove, spesso, esistono discrepanze tra gli obiettivi degli adulti coinvolti. Uno dei casi più emblematici, a questo riguardo, è l’esempio in cui i genitori del bambino stiano separandosi in maniera conflittuale.
Queste sono solo alcune riflessioni scaturite dal lavorare coi bambini. Ribadisco come sia necessario prestare particolare attenzione nel lavorare con loro: equivale ad offrire, se possibile, ancora più comprensione, tatto, attenzione, empatia e rispetto nell’entrare nel loro mondo.
Che ne pensate?
A presto…
[1] Cancrini, L. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pag. 195
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Ho aspettato molto tempo per leggere qualcosa di così bello e interessante.
Grazie!
si dovrebbero organizzare corsi per i neo genitori oltre ai corsi prematrimoniali.
Non tutti i genitori si rendono conto dell’influenza che esercitano sui propri figli agendo essi stessi ancora troppo come figli
Anche i nonni dovrebbero poter essere guidati a confrontarsi sul loro rapporto con la nuova generazione.
Spesso gli adulti frenano la crescita del bambino e non ne hanno percezione