Condannati a rimanere svegli (2)

Naturalmente quello di cui sto parlando è un fenomeno particolarmente appariscente durante l’adolescenza, ma che in realtà interessa fasce di età sempre più ampie, spingendosi ben sopra la soglia dell’adolescenza. Non è infrequente venire a conoscenza di cinquantenni/sessantenni affetti dalla stessa smania digitale, persone per le quali il confine tra giorno e notte si è andato sempre più assottigliando in un presente continuo fatto di avvisi, notifiche e status. E noi stessi, se non siamo tra gli insonni, contribuiamo a questa continua massa di vampiri digitali, spedendo messaggi per i quali aspettiamo una rapida risposta, chiamando qualcuno pensando che non possa non rispondere, dando per scontato che l’altro sia li, immobile, disponibile e pronto a soddisfare qualunque nostro desiderio di contatto. Virtuale, si intende, che gli altri poi sono complicati.

Il risultato di tutto questo è che non si procrastina più ciò che potremmo fare dopo. Devo rispondere ad una mail? lo faccio subito, così non ci penso. ‘Fammi vedere chi ha messo mi piace/ha commentato quello che ho pubblicato oggi’. Ormai è pressoché impossibile separarsi dal proprio telefono, soddisfa mille desideri e lo fa istantaneamente. In cambio in fondo chiede poco, solo di essere ricaricato. Il costo che non riusciamo a cogliere è l’invadenza continua di campo nel nostro spazio, nel nostro tempo, nella nostra attenzione. Invadenza che ci portiamo sempre appresso e che, quando finalmente sentiamo di non dovere più correre, generalmente la notte, ci attira ancora e forse più inesorabilmente.

La soluzione? Non credo che ne esista una univoca. Il primo passo sarebbe quello di pensare ad una educazione digitale, fin da piccoli. Internet non è un grande gioco con poche o nessuna conseguenza sulla nostra vita reale. Fa parte di essa e, come tale, è necessario che venga insegnato ad usarlo. Non penseremmo mai di lasciare un bambino solo per ore con un coltello in mano mentre non ci poniamo gli stessi interrogativi nel lasciarlo per ore con un iPad. Così come abbiamo investito (tempo, attenzione, cura, ecc ) per insegnargli ad utilizzare un coltello, sarebbe auspicabile facessimo per la realtà virtuale. Non lasciarli soli fin da piccoli di fronte a questi strumenti equivale a prendersi cura di come si relazioneranno da adulti con quello strumento, vuol dire dedicare loro l’attenzione perché apprendano come muoversi. Così, come abbiamo fatto insegnando loro come usare un coltello: non glielo abbiamo lasciato in mano lamentandoci, in seguito, se si fossero feriti.

Altro accorgimento potrebbe essere semplice da dire e molto impegnativo da fare: ricavare spazi salvi durante la giornata, momenti nei quali consapevolmente rinunciamo ad avere accanto e ad utilizzare il telefono, momenti da realizzare soprattutto all’avvicinarsi della notte, nei quali questi strumenti andrebbero zittiti e messi via. Per assicurarci la possibilità di staccare la spina (da loro) ed, eventualmente, dedicarci anche ad altro. Volete capire se siete affetti da questa malattia anche non facendo le 4 di mattina ogni notte? Domani mattina, quando aprite gli occhi, fate caso se la prima cosa che vi viene in mente di fare è quella di accendere il telefono e controllare le notifiche. Accendere: sempre che lo spegniate di notte (non sia mai che qualcuno ci cerchi!). Se la risposta è affermativa non credo abbiate bisogno del certificato di un professionista! Sarebbe poi interessante capire dove queste dipendenze traggano nutrimento in tutti noi. Ma questo sarebbe decisamente un altro, lungo, discorso. E non vorrei faceste tardi leggendo questo post!

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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BAMBINI E INTERNET: CHE FARE (1) 

BAMBINI E INTERNET: CHE FARE (2)

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Condannati a rimanere svegli (1)

ragazzi non dormonoCinque. Con l’ultima persona che è venuta questa settimana, sono cinque le persone, tra quelle che vedo, per lo più ragazzi, che fanno le ore piccolissime di fronte ad uno schermo, sempre meno televisivo e sempre più connesso ad internet. Hanno ‘problemi nel prender sonno’, stanno svegli fino a tardissimo. Parlo delle 3, 4 o anche 5 del mattino, mentre il giorno dopo (in realtà il giorno stesso!) hanno incombenze da svolgere come, per esempio, andare a scuola. Immagino i loro volti illuminati di azzurro nel buio delle loro camere, mentre i genitori spesso non si accorgono che sono ancora svegli alle 4 di mattino, oppure se ne accorgono a posteriori, dai segni che notti insonni lasciano sulle loro giovani facce, segni che si estendono ad altri aspetti della loro vita: attenzione, relazione, ecc. Sembra una epidemia, una strana malattia esplosa con l’avvento di internet tascabile, con smartphone e dispositivi che si sono fatti sempre più portabili e indossabili, dispositivi che se, da un lato, ci hanno garantito un accesso enorme alle informazioni, dall’altro mietono le loro vittime tra i più giovani, ragazzi che, effettuato l’accesso, non riescono più a trovare l’uscita, restando eternamente dentro ad un mondo virtuale, dal quale hanno sempre più difficoltà a staccarsi. I dati continuano a confermare questa tendenza, questa inclinazione a spingersi sempre più a fondo nel mondo della notte, alla conquista di quel ‘tempo perso’ che, nella mente di molti, ormai rappresenta la notte. 

Quali sono le cause di questa ‘mancanza’ di sonno? Da una lato, dovremmo considerare l’iperstimolazione, sia mentale che fisica, che i ragazzi subiscono durante tutto il giorno con i loro mille impegni quotidiani, le mille attività nelle quali sono impegnati, attività che li obbligano a stare attivi, non lasciando loro nessuno spazio per la noia, per il non fare nulla, per stare anziché dover fare. Se è possibile che questi fattori abbiano influenzato la conquista della notte, non credo ne costituiscano, però, la causa. Ho provato allora ad allargare lo sguardo, indagare la multicausalità di un problema complesso. La notte è l’ultima frontiera di una società che va sempre più veloce, cerca di essere sempre più connessa, sempre più rapida, sempre più impegnata, sempre più indaffarata, sempre più sommersa di informazioni, sempre più collegata, sempre più relazionata. Una società che chiede continuamente di più, chiede più competenze, più attenzione, più prestazioni. Questo ha coinvolto anche il mondo virtuale che da svago, si è ben presto trasformato in un cappio che stringe sempre più colli a sé. 

Molti ragazzi, così occupati nella loro giornata, sentono di non riuscire a dedicare abbastanza tempo alla coltivazione della loro vita sociale, che nel frattempo si è moltiplicata e frammentata rendendo il seguirla un vero e proprio impegno. Aggiornare il proprio status su Facebook, pubblicare qualcosa su Twitter, condividere le proprie foto su Instagram (senza considerare l’impegno di guardare lo status degli altri su Facebook, seguire i propri contatti su Twitter, guardare cosa pubblicano gli amici su Instagram), diventa una sorta di lavoro, uno dei principali modi tramite il quale, sopratutto adolescenti, si trovano ad interagire con l’altro. Un mondo che non osano tralasciare proprio perché è tramite questo che riescono a rimarcare la loro presenza, arrivando, in parecchi casi, ad una vera e propria ossessione per la quale solo la partecipazione sancisce l’esistenza. Per molti di loro, poi, è più facile intraprendere relazioni in un mondo virtuale, mediato dalla tecnologia, piuttosto che nel mondo reale percepito spesso come difficile, complicato e duro.

Vi sarete forse accorti che non ho ancora citato il massimo dell’invadenza della comunicazione attuale: WhatsApp, con le sue chat, i suoi contatti, i suoi gruppi, le sue notifiche che, se lasciate attive, obbligano continuamente ad interagire. Le due spunte blu rendono perentoria la risposta, la presenza dello status ‘online’ rende impossibile esimersi dal rispondere. ‘Ma come, ti ho mandato un messaggio, l’hai visto e non mi hai risposto?’, ‘Eri online ieri notte e mi hai mollato’. È impensabile non esserci, non fornire una risposta nel momento in cui viene fatta una domanda, è impossibile (o meglio molto difficile) estraniarsi da un processo che ti vuole connesso e disponibile 24 ore su 24. Questo ci viene reclamato ogni giorno, tutti i giorni: come può essere messo in discussione la notte? Contando che molto spesso è la notte il momento nel quale molti di noi si sentono più a loro agio, non subissati da richieste ‘diurne’. Il fenomeno dei ragazzi che non riescono a dormire è così diffuso che è stato coniato un termine per definirlo: vamping, termine assonante a vampiro creatura che, nell’immaginario, è condannata a vivere solamente di notte.

– CONTINUA –

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BAMBINI E INTERNET: CHE FARE (2)

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Prospettiva nuova

Un giorno qualunque di lavoro. Nuovo appuntamento. Dopo l’incontro con i genitori, conosco finalmente Giorgia, 15 anni, spinta alla terapia dalla sua difficoltà, sempre crescente, di affrontare uno qualunque dei vari impegni della sua vita quotidiana senza ansia. Giorgia si presenta molto bene, sembra apparentemente tranquilla, anche se vari segnali parlano del suo stato di disagio anche nel momento in cui la incontro.

Ovviamente il tema sul quale incentra tutto il colloquio è l’ansia e lei non riesce a non parlare di quanto penoso sia partecipare a qualunque cosa, data la difficoltà a viversela in modo sereno. Mi parla approfonditamente della scuola, della frustrazione che prova ogni volta che viene interrogata quando, pur pronta, non riesce che a spiccicare un terzo di quello che sente di sapere e in un modo del tutto terribile rispetto a come lo ripeteva solo il giorno prima, nell’intimità della sua camera. Oppure dell’ansia che la assale ogni volta che la sua squadra (Giorgia gioca a pallavolo) deve affrontare una partita con una squadra avversaria. O ancora alle uscite con gli amici, soprattutto se nel gruppo sono presenti persone nuove o con le quali ha poca confidenza oppure se uno dei membri del gruppo propone di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che, lei teme inesorabilmente, non saprà affrontare e permetterà a tutta l’inadeguatezza che sente di avere di manifestarsi appieno.

Sto li, con lei, ad ascoltare con interesse quello che mi racconta, pensando sempre più spesso, mano a mano che lei si addentra nei dettali di quanto invalidante senta l’ansia, a quanto questo ritratto possa essere parziale e monotematico

Ad un certo punto, come spesso mi capita di fare in terapia, sposto completamente il focus su un tema opposto rispetto a quello che il paziente mi porta come predominante. In questo caso: chi è Giorgia quando non ha ansia? Cosa le piace fare, cosa la rilassa quando capita che si senta bene? Questa domanda inizialmente spiazza Giorgia, che da tempo non si soffermava a pensare a chi fosse senza la sua fastidiosa compagna ansia. Lo spiazzamento iniziale lascia ben presto posto ad un nuovo focus e Giorgia inizia raccontarsi, a spiegare chi sia, e a dirmi cosa faccia di Giorgia… Giorgia.

Come ogni persona, inizialmente disabituata a raccontare qualcosa di sé, Giorgia inizia a riflettere su quali siano le attività che la caratterizzano, cosa le piace e cosa non le piaccia, quali attività le procurino piacere e quale invece aumentino il senso di disagio. Questo  spostamento le permette di pensarsi come qualcosa di più articolato, di più complesso rispetto al quel ritratto unidirezionale di Giorgia-con-l’ansia che da tempo caratterizza il suo racconto di sè.

Il cambio di prospettiva risulta, perciò, molto interessante perché permette alla persona di iniziare a guardarsi con occhi diversi e non più focalizzati solo su quella che è la problematica per la quale è venuta in studio. E spesso le persone sono completamente disabituate a percepirsi in questa maniera, aderendo completamente all’idea che siano solo il disturbo che manifestano.

Ritornando a Giorgia possiamo affermare come ormai si identificasse nella persona che ha una difficoltà legata all’ansia, dimenticando di ricordarsi quali altri aspetti si trovavano in lei e non riuscendo quindi ad integrare il disagio con le risorse che ognuno di noi possiede. Sono sicuro che vi starete chiedendo se questo fa passare l’ansia. Ovviamente no, ma questa nuova prospettiva, questa nuova integrazione può servire a riequilibrare la visione che noi abbiamo di noi stessi, rendendola più vera, sfaccetta e complessa. In poche parole più completa. Il tema che viene portato in terapia è quello che preoccupa di più la persona in quel momento storico della sua vita. Ma se il disagio diventa l’unico aspetto di noi stessi nel quale ci identifichiamo, e che tendiamo a mostrare agli altri, diventa difficile integrarlo con le risorse e le possibilità che sono insite in ognuno di noi.  

Ed è solo con la riscoperta della molteplicità dei nostri aspetti che può iniziare un percorso terapeutico.  

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto,

Fabrizio Boninu

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Come rispondere alle domande dei bambini?

005SLN+bambini sono citta copiaCome ormai saprete, lavoro spesso con i bambini e, necessariamente, anche con i loro genitori. Questi ultimi mi fanno spesso delle domande chiedendomi consigli su cosa fare…, su come dire…, su quale mossa sarebbe meglio effettuare…

Tra le cose che mi vengono domandate più di frequente, posso sicuramente annoverare quella su come rispondere ad un bambino per una domanda specifica. I bambini sono molto curiosi e la voglia di fare domande è una cosa che li caratterizza nei primi anni di vita. Molte di queste domande spesso non sono facili per i genitori che possono riscontrare difficoltà nel trovare un modo di rispondere.

Esistono sostanzialmente due strategie per rispondere alle domande dei bambini ma l’aspetto che fa la differenza è, sostanzialmente, uno: conosciamo la risposta? Nel caso in cui conoscessimo la riposta alla domanda che ci è stata rivolta nulla quæstio, e non ci rimane altro che fare l’unica cosa possibile: rispondere! Ovviamente la risposta deve essere calibrata rispetto alla capacità di comprensione del bambino. È necessario tenere conto di questo aspetto per evitare che la risposta possa mettere ancora più in difficoltà il bambino. Sta all’adulto capire cosa il bambino sia in grado di comprendere e riconoscere con quali termini può essere aiutato ad avere una comprensione di quello che ha chiesto. 

Data l’interattività della loro vita, i bambini, sopratutto i bambini di oggi, si ritrovano spesso a fare domande anche abbastanza complesse, su cose slegate magari dalla vita quotidiana, che possono mettere in difficoltà il genitore al quale queste domande sono poste. Per esempio, grazie ad internet, apprendono e vedono immagini o video che solleticano la loro curiosità, cose delle quali vorrebbero sapere di più. Può anche capitare che vedano cose inadatte per la loro età, come scene di sesso. Anche in questo caso la loro curiosità potrebbe essere solleticata e sta al genitore trovare un modo per dare un significato a quello che il bambino sta domandando.

Fino a questo punto abbiamo visto il caso nel quale conosciamo la risposta alla domanda che ci è stata posta. Ma esiste una seconda possibilità: non sappiamo rispondere a quello che ci chiedono. In questo caso gli esiti possono essere due: rispondiamo inventandoci qualcosa oppure ammettiamo la verità. Vediamo il primo caso. La bimba sta guardando la televisione ed è attratta da un programma nel quale costruiscono oggetti. Chiede al padre come vengano assemblate le automobili e il padre è consapevole che l’unica cosa che conosce della sua auto è come si metta in moto. Non vuole però che sua figlia immagini che lui non sappia niente di auto e allora inizia a pescare nel serbatoio confuso e disordinato nel quale sono stipate tutte le sue conoscenze di motori. La bimba sarà momentaneamente soddisfatta della risposta e suo padre potrà rilassarsi credendo che il pericolo sia stato scampato e che la sua immagine (quella con sua figlia e quella che lui ha di se stesso) sia stata preservata.

Facendo questo, però, si è creato un precedente. Innanzitutto non è stato sincero: se la bimba dovesse avere informazioni migliori rispetto a quello che le ha detto il padre, penserebbe che il papà possa non saperne poi tanto o, peggio, possa averle mentito. Il padre pagherebbe la piccola bugia con la perdita di fiducia. Bisognerebbe chiedere al papà cosa prova nell’ammettere di fronte a sua figlia che non conosce una cosa. Non si tratta di ammettere una colpa quanto di riconoscere un limite. La bimba saprebbe che il padre non sa tutto ma, di contro, avrebbe la conferma che sia una persona sincera. Quale potrebbe essere la soluzione? Ho una possibilità: se il padre rispondesse che non sa nulla di auto e proponesse alla figlia di fare una ricerca assieme per saperne di più si avrebbero diversi vantaggi: come detto la bambina intuirebbe di non avere un padre onnisciente (cosa comunque reale) ma sincero, e in più un padre propositivo, curioso e desideroso di passare del tempo con lei, rinforzando il legame che padre e figlia hanno in un modo che potrebbe essere proficuo per entrambi: il padre potrebbe finalmente sapere com’è fatto l’oggetto che mette in moto tutti i giorni, la bambina potrebbe finalmente passare più tempo con il padre facendo una cosa che la incuriosisce.

Insomma, tornando al quesito iniziale, come si risponde alle domande di un bambino? Dipende da voi. Come avete letto, avete diverse possibilità e le possibilità sono date da quanto consideriate disdicevole non sapere le cose che un bimbo vi chiede. Se riusciste a non prendere in considerazione solo questo aspetto, avrete davanti un mondo di opportunità da condividere con loro. Mentre loro sapranno di poter contare su di voi sia per le domande che vi faranno sia, nel caso non conosciate la risposta, per passare più tempo in vostra compagnia, cercando le possibili risposte e facendo, in più, qualcosa che li/vi incuriosisce. 

Che ne pensate?

A presto,

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Bullismo omofobico: risponde il dr. Federico Ferrari

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Il post di oggi, concomitante con questo nuovo inizio anno scolastico, ha come tema un argomento del quale ci siamo già occupati, (Bullismo omofobico: risponde il dr. Jimmy Ciliberto), un fenomeno che, come detto, ha radici profonde ma che solo ultimamente è diventato un argomento dibattuto nelle cronache nazionali. Sto parlando di bullismo omofobico e questa attenzione testimonia finalmente una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica su temi legati alla violenza omofobica. Abbiamo visto come il bullismo omofobico sia l’atteggiamento o il comportamento violento tramite il quale una persona viene presa di mira da un coetaneo (o da un gruppo di coetanei) in una relazione all’interno della quale il rapporto di potere non è paritario. La persona prescelta viene oppressa con vari atteggiamenti (derisione, minacce, insulti, esclusione…) ed il pretesto per l’attacco è dato, appunto, dalle scelte sessuali o dall’orientamento sessuale (reale o presunto) della vittima.

Per continuare a parlare di questo importante tema, ho pensato di rivolgermi ad un collega che, per professione, è un profondo conoscitore della materia. Mi riferisco a Federico Ferrari, psicologo, psicoterapeuta e autore, insieme ai colleghi Paolo Rigliano e Jimmy Ciliberto, del testo Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualitàedito da Cortina. Federico dedica la sua attenzione e il suo impegno anche a tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Chi volesse ulteriore dettagli sul libro citato può cliccare qui mentre chi volesse saperne di più sul dr. Ferrari può cliccare qui.

Ciao Federico, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito e benvenuto! Direi di partire dalla definizione di bullismo omofobico: come potremo descriverlo?

Quando si parla di “bullismo” di solito ci si riferisce a relazioni tra pari (compagni, colleghi, etc.) nelle quali uno o più cercano di affermarsi agendo varie forme di violenza, ci possono essere allora una o più vittime, scelte per il fatto di essere facili da isolare dagli altri, non solo deboli, ma anche portatrici di caratteristiche che le rendono meno “popolari”, almeno secondo i bulli. Infatti in queste situazioni l’obiettivo del “bullo” è di affermare la propria forza di fronte ad un pubblico, attaccando qualcuno che in qualche modo possa meritare, agli stessi occhi del pubblico, la violenza che subisce. Spesso in realtà gli spettatori della violenza non intervengono per ben altri motivi, ma il loro silenzio alimenta la sensazione del bullo di apparire forte e quella della vittima di solitudine e disvalore. Per questo il bullismo omofobico, ossia agito su qualcuno per il fatto che è o appare omosessuale, non ha bisogno di contesti strettamente antiomosessuali per proliferare: è sufficiente che siano contesti, per così dire, “eterosessisti”, ovvero in cui l’omosessualità non è presa in considerazione, e non si afferma la necessità di difenderne il valore paritario rispetto all’eterosessualità. In molti ambienti, specie tra gli adolescenti, l’omosessualità è ancora qualcosa di cui non si parla se non come insulto, e questo ne fa una caratteristica catalizzante per i comportamenti di bullismo. Per il bullo probabilmente se non fosse l’omosessualità sarebbe qualcos’altro, perché si tratta di un individuo insicuro, scarsamente empatico, che cerca pretesti per affermarsi in modo facile e prepotente, ma le persone omosessuali (o che secondo gli stereotipi correnti lo sembrano) rappresentano un gruppo a rischio per il fenomeno del bullismo. Per altro ad oggi ci sarebbe un discorso a parte da fare sulle forme della violenza e le trasformazioni cui va incontro a fronte della massiccia diffusione dei social network e delle relazioni virtuali…

In base alla tua esperienza, è una realtà diffusa oppure un fenomeno di nicchia?

In generale si tratta di un fenomeno ampiamente sottovalutato: laddove è infatti più probabile che si verifichino episodi di bullismo omofobico è anche dove di solito si presta minore importanza alla tutela delle differenze di identità sessuale. Di conseguenza si genera un substrato specialmente fertile per questo tipo di fenomeno, e contemporaneamente si distoglie l’attenzione dai segnali di un suo possibile verificarsi. Oppure, quando si identifica, si tende ad attribuirlo ad altro. Per altro anche le modalità con cui questi atti si manifestano dipendono in parte dal contesto culturale: possiamo incontrare contesti “conservatori” in cui sono presi come bersaglio ragazze o ragazzi che hanno fatto il proprio coming out contro tutto e tutti, ma capitano anche contesti per così dire “liberali” in cui vengono vittimizzati ragazzi effeminati perché non si definiscono omosessuali, e l’etichetta con cui vengono stigmatizzati diventa quella del “gay che non si accetta” (del genere: “…dillo che sei gay!”). Spesso infatti le dinamiche sono più complesse di ciò che sembra, e chi è preso di mira lo è su tutta una serie di aspetti di “divergenza” dal gruppo, di cui l’omosessualità (o l’idea di essa) rappresenta solo una categoria esplicativa stigmatizzata/ante intorno alla quale si organizzano gli “insulti” e la “maldicenza” verso il diverso. Quello che davvero hanno però in comune questi contesti è di essere luoghi in cui non c’è spazio per la diversità e il rispetto dell’unicità, in cui la sessualità viene fagocitata dalla norma sociale rimanendo in bilico tra vergogna e vanità. In questi spazi il bullo agisce la sua violenza a partire dalle norme implicite, usandole come arma di umiliazione, e i suoi spettatori, nella più classica dinamica della “banalità del male”, gli danno ragione, o non riescono a trovare un torto sufficiente nella sua violenza per intervenire, perché significherebbe mettersi a loro volta contro delle regole che in parte condividono…

Cosa provocano questi attacchi alla persona colpita, e quali sono le reazioni più comuni a questo tipo di discriminazioni?

Naturalmente il bullismo può avere diversi livelli di gravità, ma chi ne è vittima può vivere l’inferno. In generale per la vittima ne scaturiscono sentimenti di profonda solitudine, umiliazione, ingiustizia e rabbia, che facilmente però possono evolvere in senso di impotenza e di disperazione. Si aggiunga a tutto ciò il fatto che, per la natura del fenomeno, chi di solito è scelto come vittima è anche qualcuno che in quel dato contesto si profila già come più fragile, magari solo perché l’ultimo arrivato, magari perché stigmatizzato, altre volte perché in difficoltà nei rapporti interpersonali, o in crisi rispetto a sé, o per tutte queste cose insieme. Si aggiunga che gay e lesbiche scoprono la propria omosessualità in un contesto che non la prevede, dopo aver passato i primi anni della propria vita senza prevederla nemmeno loro, e non di rado in adolescenza si trovano ad essere insicuri e combattuti su come gestire ed integrare nella propria identità questa nuova informazione su di sé. Ecco quindi che la vittimizzazione può trasformare un passaggio di crisi e di fatica personale in un’idea di sé senza speranza, in un senso d’indegnità traumatico, che mina la possibilità di trovare un valore di sé. Se poi pensiamo che l’omosessualità è ancora un tabù in molte famiglie, che i e le giovani omosessuali e bisessuali spesso non sentono la possibilità di parlare di questa parte di sé con i propri genitori, chiedere aiuto può diventare impossibile. Se dunque viene a mancare qualunque sostegno e il bullismo colpisce nell’indifferenza totale, il senso di disperazione può spingere anche a decisioni drastiche, nelle quali la richiesta di aiuto e la voglia di farsi del male non sono sempre distinguibili l’una dall’altra.

La maggior parte di questi episodi avviene durante la preadolescenza e l’adolescenza, età nelle quali i ragazzi sono per molto tempo a scuola. Prendiamo in considerazione come si comportano gli altri attori di questa istituzione: gli insegnanti come affrontano questi episodi?

E’ chiaramente difficile generalizzare. Molto dipende dalla competenza e dalla sensibilità dei singoli insegnanti, dalla loro formazione sui temi della discriminazione e dell’identità sessuale, ma anche dal loro modo di intendere il proprio ruolo di educatori. E su questo non basta davvero un generico impegno ad andare oltre la trasmissione di un sapere tecnico, per garantire le buone maniere ed il rispetto reciproco, è necessario farsi carico delle relazioni con i ragazzi.

Da un lato, è fondamentale la prevenzione perché in un contesto in cui i pari valorizzano il rispetto, la dinamica del bullismo non si sviluppa. Le occasionali uscite aggressive o violente vengono respinte da chi assiste. Coloro che maggiormente faticano a mettersi nei panni degli altri, e tendono a ricorrere alla prepotenza, hanno occasione di sperimentare strategie di autoaffermazione differenti e talvolta di apprendere l’empatia. Prendersi il tempo per coltivare con la classe i temi del confronto e del rispetto, farsi promotori di uno spazio in cui il valore della pluralità e della differenza si fanno parte integrante dell’insegnamento e del modo di stare a scuola non è semplice, perché significa creare una cornice di dialogo tra sistemi di valori diversi, in cui il rispetto della persona umana rappresenti una premessa irrinunciabile. Dobbiamo riconoscere che spesso le condizioni in cui gli insegnanti lavorano semplicemente non permettono un lavoro di questo respiro. Spesso questo tipo di intervento viene però attivato ai primi segnali di bullismo, quando il clima in classe comincia a farsi teso e difficile per alcuni, e ci sono state delle prime occasioni di violenza psicologica o fisica.

Dover lavorare sull’urgenza, e muoversi di fronte a casi di violenza conclamata è per molti versi già una sconfitta, ma è soprattutto estremamente complesso, richiedendo di tenere insieme più istanze, a volte anche opposte. Da un lato è fondamentale intercettare i segnali della violenza psicologica, o agita fuori dal campo visivo degli insegnanti, oltre che quella eventualmente palese ed agita in classe. Poi si tratta di creare lo spazio e il tempo adeguato perché la vittima si senta libera di denunciare la violenza, senza sentirsi ulteriormente stigmatizzata come “quello o quella che chiede la protezione dall’insegnante”. Dall’altro lato, è necessario attivarsi verso il bullo sanzionando tempestivamente i suoi comportamenti, assicurandosi che le regole che ogni istituto dovrebbe avere per casi di questo tipo, siano attuate senza se e senza ma. Tuttavia ogni intervento “contro il bullo”, se non si riesce ad attuarlo in una cornice di preoccupazione nei suoi confronti, evitando la caccia alle streghe, coinvolgendo sinergicamente la famiglia, è destinato a fallire, rafforzando ulteriormente le sue istanze di prepotenza: trasformare il bullo nel mostro psicopatico della situazione, umiliarlo perché impari a rispettare l’autorità, e altre sciocchezze simili non fanno che aggiungere violenza ad un contesto evidentemente già disfunzionale, rischiando di spostare la violenza ad altri spazi ed altri luoghi in cui alla fine esploderà, se possibile aumentata. Infine è necessario assodare il coinvolgimento della classe, capire il ruolo degli spettatori, e considerare i pro ed i contro di un intervento con loro, recuperare un’attività di prevenzione che è mancata in partenza.

Mentre le scuole come istituti che fanno?

Le scuole sempre di più sono chiamate a pensare il problema in anticipo, creare programmi di prevenzione e protocolli di azione. Una volta di più diviene fondamentale però che siano gli interventi preventivi ad avere la priorità. Creare occasioni di formazione continua per gli insegnanti su ogni forma di differenza, inclusa le differenze di identità sessuale. Solo maneggiando con maggiore confidenza questi temi, affrontando i propri stessi pregiudizi, recuperando i dati della scienza, gli insegnanti possono farsi promotori e mediatori di spazi di confronto e di dialogo tra gli studenti. Oggi, se possibile, è ancora più difficile per due ragioni. La prima, propria piuttosto di alcune realtà di frontiera, è che sono gli stessi insegnanti a sentirsi “bullizzati”: in contesti che ne sminuiscono la dignità e l’autorevolezza, e in cui un allievo violento può trovare nel resto della classe un pubblico supportivo ad uno scontro con i rappresentanti stessi di un’istituzione di cui la maggioranza del suo gruppo non capisce più il significato. In questi casi è il contesto istituzionale allargato che sta mancando nell’offrire senso e risorse ad intere fette di popolazione, alimentando una violenza diffusa che certamente finirà per trovare sfogo sui soggetti divergenti, quale che sia la caratteristica che li rende tali.

La seconda, più legata a certi contesti “conservatori”, è che sembra crescere il numero di quelli che considerano i propri valori come un “diritto alla discriminazione”. Questo lo abbiamo visto banalmente nel caso di progetti di educazione all’affettività, accusati di farsi promotori di una fantomatica “ideologia del genere” perché semplicemente incoraggiavano gli studenti a superare alcuni stereotipi sessuali, che sono provati essere alla base della violenza sulle donne e di quella omofobica. Quando questo modo di intendere i valori diviene dominante, l’insegnante può sentirsi incapacitato ad affermare la regola del rispetto proprio a causa del suo “mandato di rispetto dei valori di tutti”, o per timore di dover affrontare genitori che difendono il diritto dei figli ad esprimere idee omofobiche, o che contestano l’idea che l’insegnante intervenga sui valori insegnati in famiglia. In questi casi è fondamentale che la scuola (dal preside al ministro) sostenga gli insegnanti, perché non si trovino lasciati soli nell’affermare il proprio mandato educativo.

All’interno della famiglia, come pensi dovrebbero comportarsi i genitori dei ragazzi presi di mira? 

Chiaramente la famiglia dovrebbe essere prima di tutto un luogo protettivo in cui non debbano ripetersi le dinamiche che hanno reso possibile il bullismo altrove. Un ragazzo gay o una ragazza lesbica o bisessuale devono poter parlare della propria identità sessuale, e quindi del fatto che questa è divenuta il pretesto per prenderli di mira. Diversamente, il rischio è che per paura di dover fare un coming out a casa, le vittime di bullismo non parlino delle prese in giro nemmeno con i propri genitori. Anche quando si tratti solo di una percepita omosessualità, se il ragazzo o la ragazza pensa che i propri genitori trovino la cosa sbagliata o vergognosa, possono provare vergogna nel dire di essere trattati come tale.

In secondo luogo quando il proprio figlio riferisce di essere vittima di bullismo è fondamentale attivarsi immediatamente, prima di tutto con la scuola, poi, se appare indicato dalle circostanze, con i genitori del bullo, in casi estremi con le forze dell’ordine. E’ importante avere determinazione senza alimentare un clima di scontro: l’obbiettivo è quello di garantire la sicurezza del ragazzo senza metterlo al centro di un conflitto tra fazioni. L’aspetto fondamentale, in ogni caso, è che il senso di solitudine venga spezzato, che i ragazzi sentano il supporto e la fiducia negli adulti. Poi può essere utile provare a lavorare con questi ragazzi sulle loro strategie interpersonali, per capire se nel contesto specifico queste risultino funzionali o se per qualche ragione li stiano predisponendo in modo particolare alle prevaricazioni dei prepotenti.

Mentre le famiglie dei bulli a cosa dovrebbero prestare attenzione?

Certamente a non sottovalutare i comportamenti del figlio, non etichettarli come “bravate” o “ragazzate”, che è poi un modo di non occuparsi di loro, di sminuire il problema ed in definitiva di non occuparsene. Il “bullo” ha molto bisogno della sua famiglia: ha bisogno di sapere che non ne perderà l’affetto per ciò che ha fatto, ma che ciò che ha fatto avrà delle conseguenze. Spesso manca un sistema etico di riferimento forte, dei modelli coerenti e affettivamente presenti in grado di trasmettere il senso del bene e del male. Talvolta, quando il “bullo” è parte di un “branco”, di un gruppo cioè in cui si è assistito ad una diffusione della responsabilità, e ciascuno si è sentito solo di andare dietro agli altri, ciò che è importante è aiutarlo a sviluppare la forza di opporsi agli altri quando viene passato un limite, nonché modi diversi di affermarsi nel gruppo, credere in sé, scoprire di avere qualità diverse e più importanti che non la capacità di attaccare ed umiliare gli altri.

Come possiamo collaborare per far si che episodi come questi diventino sempre più ostracizzati?

Mi vengono in mente due cose: offrire formazione per gli insegnanti e per i ragazzi spazio e tempo per imparare a confrontarsi, conoscersi e rispettarsi.

Un grazie di cuore a Federico per la disponibilità nell’essersi prestato alle mie domande. Il tema è vasto e ci torneremo ancora con altri interventi. Credo sia un ulteriore, importante passo per introdurre questo argomento in un dibattito che coinvolga più sedi possibili. 

Se ci fossero persone interessate a testimoniare o a condividere la loro esperienza, naturalmente in forma assolutamente anonima (a meno che non desiderino il contrario!), possono contattarmi telefonicamente (3920008369) o per mail (fabrizioboninu@gmail.com).

Come sempre fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il lutto per i bambini (2)

White balloon flying in the sky

Ma quali sono le fasi del lutto nei bambini? Schematicamente si possono individuare le seguenti fasi:

La fase dell’impatto e dello shock in cui predomina la confusione, l’incredulità, il rifiuto, il ricorso alla negazione, il sentimento di vuoto o di catastrofe: ‘Non è possibile!’, ‘È un incubo, un sogno non può essere vero.’, ‘Non può capitare proprio a me!’. Questa fase può essere particolarmente intensa.

La fase della turbolenza affettiva, caratterizzata dal dolore, dalla dolorosa alternanza di sentimenti contrastanti quali la pena, la tristezza, la negazione, la rabbia, lo sconforto, e il senso di colpa. Dopo un lutto può essere naturale sentirsi in colpa, e nei bambini il senso di colpa è ancora più enfatizzato. Spesso i bambini si sentono in colpa della morte di qualcuno perché pensano che sia stato il loro comportamento ‘cattivo’ o ‘non abbastanza buono’ a causarla. Il senso di colpa può insorgere nel bambino anche quando scopre di essere ancora capace di ridere e di sentirsi felice, nonostante la morte di qualcuno. Un bambino ha bisogno di essere rassicurato sulla continuità della vita e sul fatto che ritrovare la felicità non vuole dire non avere amato abbastanza la persona scomparsa.

Vi è poi una fase di pena e di sconforto, dove i vissuti tendono a diventare meno marcati, meno oscillanti, e meno eterogenei. Rabbia e senso di colpa si ridimensionano, ma predomina ancora la tristezza in forme più o meno intense.

Infine vi è la fase della riorganizzazione e della riconciliazione con la vita e con il mondo. A volte però compaiono aspetti patologici dovuti alla difficoltà nell’elaborazione della perdita, vi può essere una caduta nell’indifferenza e nel distacco affettivo, nell’isolamento, nel rifiuto della realtà esterna oppure in reazioni patologiche, depressive o paranoiche. [1]

Le quattro fasi delineate, vanno gestite con particolare cura e attenzione da parte degli adulti vicini al bambino. Spesso non sembra essercene la possibilità, dato che anche gli adulti sono troppo indaffarati. La fase della turbolenze affettiva andrebbe gestito con particolare attenzione, cercando di far esplicitare, far comprendere ed accogliere il senso di colpa per l’ambivalenza emotiva che il bambino può esperire in queste circostanze.

Purtroppo, invece, uno degli atteggiamenti più comuni in queste occasioni riguarda l’allontanamento, l’ipotetica ‘preservazione’ del bambino dal dolore, il distacco da ciò che sta succedendo nella vita del nucleo familiare, una sorta di rimozione impossibile da attuare e difficile da sostenere e che può avere conseguenze importanti nella vita emotiva del bambino che si trova, così, privato della possibilità di esperire una componente emotiva essenziale per la sua crescita. Se, infatti, l’intento è comprensibile, non sempre altrettanto comprensibili sono le conseguenze di questa sorta di censura emotiva, che può costituire un precedente importante per comprendere la vita emotiva di un bambino in occasioni così dolorose.

Il coinvolgimento in quello che sta accadendo, nei modi e nei tempi propri dell’età del bambino, può costituire un aiuto alla condivisione e comprensione di ciò che avviene, non costituendo per il bimbo una separazione, una disgiunzione all’interno della sua esperienza:

A volte mi chiedono:”Cosa devo dire a mio figlio quando un membro della famiglia muore?”. Rispondo di dire la verità, ma con grande sensibilità. Non lasciate che i bambini pensino che la morte sia qualcosa di strano o di terrificante. Fateli partecipare, per quanto è possibile, alla vita di un morente e rispondete con sincerità alle domande che vi rivolgeranno. L’innocenza e la spontaneità dei bambini possono infondere una dolcezza, una leggerezza e a volte anche una nota di buonumore nel dolore che accompagna la morte. Esortati a pregare per il morente, così si sentiranno utili anche loro. A morte avvenuta, abbiate cura di circondare i bambini di un attenzione e un affetto speciali. [2]

Credo che la condivisione, per quanto la realtà possa essere dolorosa, sia la scelta migliore da portare avanti per aiutare i bambini a comprendere quello che sta accadendo intorno e dentro loro. Comprendo che sia la scelta più complessa perché prevede un forte coinvolgimento anche degli adulti attorno al bambino, ma è dalla capacità di supporto degli adulti che bisognerebbe partire per comprendere la possibilità di supportare questa scelta.

È oggi fondamentale proporre al mondo intero una visione illuminata della morte e del morire, a tutti i livelli educativi. I bambini non vanno ‘protetti’ dalla morte ma informati, già da piccoli, della vera natura della morte e della lezione che essi ne possono trarre. [3]

Tenendo a mente la profondità del principio per cui imparare a morire è imparare a vivere. [3]

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Sul tema leggi anche: 

Come parlare della morte ai bambini (1)

Come parlare della morte ai bambini (2)

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Torino, pp. 19-20

[2] Rinpoche Sogyal (2011), Il libro tibetano del vivere e del morire, Ubaldini, Roma, pag. 193 

[3] Rinpoche Sogyal (2011), Il libro tibetano del vivere e del morire, pp. 359-366

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Il lutto per i bambini (1)

White balloon flying in the skyLa morte di una persona alla quale siamo legati e il successivo lutto costituiscono da sempre un momento di passaggio nella vita dell’individuo che spesso è difficile gestire, soprattutto per la nostra sempre più manifesta incapacità di maneggiare, verbalizzare e interiorizzare il concetto di morte. Se questo meccanismo riguarda tutti noi, una attenzione maggiore andrebbe prestata nel caso in cui il lutto coinvolga un bambino: la sua elaborazione potrebbe essere ancora più complessa, soprattuto in relazione alla capacità che hanno (o non hanno) gli adulti intorno a lui di significare quello che è successo nella vita del bambino. Vale dunque la pena soffermarci su quelli che possono essere i meccanismi di elaborazione del lutto nei bambini e le fasi che contraddistinguono questo passaggio.

Punto di partenza può essere la definizione dell’elaborazione del lutto. Con questa espressione intendiamo il: complesso meccanismo che permette, col tempo, il superamento della tristezza, dell’ambivalenza per ciò che si è perduto e che porta alla riorganizzazione dell’attività mentale (idee, sentimenti e fantasie) e degli aspetti esterni della propria vita dopo lo sconvolgimento creato dal dolore.

L’esperienza della perdita spesso induce profonde trasformazioni che portano a riflettere su se stessi e sui propri errori, facendo trovare il coraggio di apportare cambiamenti significativi alla propria vita. (M.G. Sforza, J. L. Tizòn, 2009, p. 16). [1] 

ll lutto, e questo vale sia per i bambini che per gli adulti, costituisce un momento di grande cambiamento nella vita dell’individuo. La morte generalmente costituisce una fase di passaggio da un equilibrio relazionale ad un altro. La scomparsa di una persona significativa comporta sempre la riorganizzazione funzionale e relazionale del gruppo familiare che viene colpito dalla perdita, e questo evidenzia una diversa organizzazione dei ruoli e delle funzioni all’interno del gruppo relazionale nel quale questo cambiamento avviene. Nella definizione data poc’anzi viene utilizzato il termine ambivalenza: la morte è ambivalente nella sua accezione più ampia. Il termine ambivalenza rimanda alla compresenza di emozioni diverse nello stesso istante o per lo stesso fatto, momenti nei quali l’individuo può provare un’emozione e, in contemporanea, l’emozione contraria.

L’ambivalenza può essere naturalmente presente nell’individuo, ma può arrivare ad intensificarsi nel caso di un forte cambiamento come nella fase di lutto. Se per un adulto questa ambivalenza può essere facilmente comprensibile e significabile (anche se questo aspetto non è scontato), può assumere invece contorni diversi per un bambino che, con difficoltà, può rendersi conto della peculiarità di picchi emotivi completamente altalenanti che un lutto può provocargli. Poniamo, per esempio, il caso che muoia, dopo lunga malattia, il nonno paterno. La conoscenza che il bambino aveva del nonno non era molto approfondita: lo vedeva solo una volta all’anno o solo in occasione di grandi feste come Natale o Pasqua. Pensandoci bene, al bambino suo nonno non piaceva molto: era spesso di malumore, era spesso sofferente, stava sempre a borbottare riguardo ai giochi che gli piaceva fare. Non era una presenza simpatica e capitava che non vedesse l’ora di andare via. Alla morte del nonno il bambino vive sentimenti contrastanti, ambivalenti: può essere triste, comprendendo la perdita subita o percependo quello che gli adulti intorno a lui provano (soprattutto del papà per la perdita del suo papà). D’altro canto potrebbe insinuarsi in lui un sentimento opposto, liberatorio, dal momento che è venuta a mancare una persona alla quale non si sentiva legato da particolare affetto e che non gli piaceva molto. Il risultato può essere una serie di emozioni contrastanti, tra le quali si alternano dolore e indifferenza, pena e distacco.  

In occasioni del genere, però, sussiste la considerazione che siano ammissibili solo alcune emozioni mentre altre emozioni non lo sono, insinuando l’idea che siano fuori luogo. Infatti la manifestazione del dolore è facilmente comprensibile da parte degli adulti che lo circondano, l’indifferenza potrebbe non essere accolta allo stesso modo, nè significata in maniera altrettanto accogliente. Questo potrebbe indurre il bambino a credere di vivere sentimenti inaccettabili, da nascondere o da censurare. Solo sentendosi supportato da adulti competenti che possano comprendere e aiutarlo a manifestare anche emozioni non prevedibili o normalmente attese, riuscirà a validare ed accogliere in sé,  oltre che condividere, queste emozioni con gli altri non sentendosi sbagliato o inaccettabile.

– CONTINUA –

Fabrizio Boninu

Sul tema leggi anche:

Come parlare della morte ai bambini (1)

Come parlare della morte ai bambini (2)

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Torino, pp. 19-20

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I compiti per le vacanze

Ci siamo. Le tanto sospirate vacanze sono arrivate. Escludendo i ragazzi impegnati negli esami di maturità, per tutti gli altri è arrivato finalmente il momento in cui, essendo liberi dalle tante incombenze che caratterizzano la loro routine quotidiana, pensano di potersi dedicare a ciò che più piace loro. Questo sarebbe possibile se non avessero quello che per molti è un vero e proprio incubo da vacanza: i compiti delle vacanze appunto. Esistono due tipi di scuole al riguardo: coloro che reputano i compiti necessari per tenere in allenamento i ragazzi e coloro che li ritengono l’ennesimo modo per tenerli sotto scacco anche nei momenti in cui dovrebbero essere più liberi. In supporto alla seconda tesi ho trovato un interessante articolo che fa un elenco dei motivi per cui sarebbe preferibile che i ragazzi non avessero compiti durante le vacanze. L’elenco è stato stilato da Miriam Clifford, insegnante e blogger che si occupa del tema scuola attraverso InformEd, sorta di laboratorio di idee sulla scuola. Trovate il link in fondo al post.

Intanto i punti:

  1. Gli studenti  imparano tutto il tempo nel 21° secolo. In una società come la nostra, costantemente connessa e nella quale circolano una miniera di informazioni ovunque, non si può pensare che i ragazzi apprendano solamente all’interno del contesto scolastico. Questo rende in parte superflua l’idea di compiti da fare a casa, legati alla visione di tenere vive e fresche le conoscenze acquisite a scuola durante l’anno;
  2. Non necessariamente molti compiti equivalgono ad una maggiore realizzazione: non è detto cioè che assegnare compiti a casa faccia studenti più diligenti o più bravi a scuola;
  3. I paesi che assegnano più compiti a casa non sono i migliori. Spesso invece è vero il contrario. Per esempio il Giappone ha abolito l’utilizzo di compiti a casa per favorire il tempo in famiglia mentre paesi del nord Europa, come per esempio la Finlandia, hanno limitato i compiti a casa ad un impegno massimo di mezz’ora al giorno;
  4. Invece di assegnare compiti, suggerire che leggano per divertimento: invece di assegnare un compito si può cercare di far interessare ad una lettura libera, per divertimento, che consenta di superare la logica di imposizione dei compiti a casa;
  5. Non assegnare troppo lavoro durante le vacanze: è controproducente anche al momento del ritorno a scuola; 
  6. Invitare gli studenti a partecipare a un evento culturale locale: questo tipo di attività, oltre ad essere percepita come più attiva rispetto allo svolgimento dei soli compiti, può portare il ragazzo a conoscere aspetti della sua realtà che non avrebbe mai preso in considerazione altrimenti;
  7. Il tempo in famiglia è più importante nelle vacanze: spesso infatti è una delle poche occasioni nella quale tutti  i membri, essendo anche gli altri in vacanza, possono passare del tempo insieme, non distratti dalla mille incombenze quotidiane che portano spesso ad incontrarsi tutti assieme solamente a cena; 
  8. Per gli studenti che viaggiano durante le vacanze, i compiti possono ostacolare l’apprendimento sul loro viaggio: dovendosi portare i compiti appresso hanno meno tempo di dedicarsi all’esperienza che stanno vivendo; 
  9. I bambini hanno bisogno di tempo per essere bambini: il fatto di avere spesso doveri non aiuta molto questo aspetto; 
  10. Alcuni esperti consigliano una fine a tutti i compiti: il rischio è, come detto, quello del sovraccarico; 
  11. Inviare una lettera ai genitori per spiegare perché non si stia assegnando lavoro: questo punto è dedicato agli insegnanti che possono spiegare con una lettera ai genitori dei propri alunni per quale motivo non reputano necessario assegnare loro compiti;
  12. È possibile rendere le vacanze un momento per un “progetto aperto” per crediti supplementari: si può, cioè, affidare alla fantasia e alla creatività del ragazzo l’esecuzione di un compito che sia dal ragazzo pensato, progettato ed eseguito. Il progetto sarà poi valutato a seconda delle qualità che il ragazzo ha deciso di mettere in gioco; 
  13. Suggerire la visita di un museo: se a scuola si studia il Medioevo, una visita ad un museo che ha questo tipo di reperti può essere più interessante che l’ennesima scheda su un brano letto nel libro di storia; 
  14. Esortare gli studenti a fare volontariato durante il periodo di vacanza: questo genere di attività, come nel punto 6, può essere percepita come più attivante rispetto al fare semplicemente dei compiti, e può spronare il ragazzo ad impegnarsi in attività che lo portino ad interessarsi all’altro e ai suoi bisogni;
  15. Sviluppare un gioco di classe: prima delle vacanze è possibile costruire un’attività scolastica la cui fine può essere poi assegnata a casa, coinvolgendo anche altri membri della famiglia. Questo favorirà un maggior tempo che i membri passano tra loro; 
  16. Gli studenti possono imparare di più osservando il mondo reale, piuttosto che fargli fare compiti su quello stesso mondo;
  17. Fare escursioni a piedi: e utilizzare le impressioni registrate. Come per altri punti precedenti, un’esperienza diretta è spesso più formativa dello studio della stessa esperienza; 
  18. Invogliare gli studenti di visitare un parco divertimenti: concetti spesso astratti come le forze fisiche possono essere sperimentate direttamente con molti giochi presenti in questi parchi!
  19. I bambini hanno bisogno di riposo: come tutti noi, anzi forse sopratutto loro, hanno bisogno di un momento di stacco dalle attività quotidiane;
  20. Molti genitori e studenti non amano compiti delle vacanze: sulla veridicità di questo punto non sono molto d’accordo, perché da per scontato che i genitori vogliano passare più tempo coi figli durante le vacanze e non sempre le cose stanno così.

Come avrete notato, uno dei punti principali di questo elenco è quello di preferire delle attività pratiche piuttosto che mere attività scolastico/mentali. Il tempo che rimane libero può essere utilizzato per far vivere delle realtà (musei, volontariato…) che normalmente vengono solamente insegnate. Come accennavo nell’ultimo punto, questo comporterebbe passare e dedicare maggior tempo ai propri figli e per molti genitori, in vacanza a loro volta, potrebbe essere un impegno non da poco che eviterebbero volentieri per riposarsi. Sarebbe interessante allora chiedersi a chi giovi che i figli abbiano compiti da svolgere anche durante le vacanze.

Che ne pensate? A che scuola di pensiero appartenete? I compiti sono per voi una cosa utile oppure una vessazione cui cercare di porre al più presto rimedio?

Se voleste leggere l’articolo per intero, in inglese, cliccate qui

A presto…

Fabrizio Boninu

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Gli adolescenti in terapia

adolescenzaL’argomento di questo post nasce da una considerazione circa la presunta differenza tra il comportamento degli adolescenti nella vita quotidiana e in terapia. Mi spiego meglio. Dalla mia posizione professionale la cosa più macroscopica che mi trovo spesso a dover fronteggiare quando un adolescente arriva in terapia è la discrepanza tra come lo stesso adolescente è raccontato dai suoi genitori e come invece si comporta durante la seduta stessa. E, in generale, durante la durata del lavoro con me. Nella professione, quando ho a che fare con un minore, il primo colloquio è organizzato con i genitori del ragazzo stesso di modo che possa farmi un’idea dell’organizzazione familiare.

Durante questo primo colloquio capita spesso che i genitori facciano del proprio figlio un quadretto non proprio edificante. Immaginatevi la sorpresa quando al posto dell’essere selvaggio descritto dai genitori viene in seduta un ragazzo educato, rispettoso, attento, spesso molto sensibile e in grado di relazionarsi con un adulto. Ovviamente, questa discrepanza potrebbe essere legata al fatto che il nostro sia un primo incontro. Nel momento in cui acquisirà più confidenza, penso, vedrò anche io quegli aspetti deleteri che mi hanno descritto i suoi genitori. Invece no, la ‘magia’ continua anche dopo la prima seduta e il lavoro continua, talvolta attraversando temi complessi, ad essere piacevole e produttivo. Come è possibile questa discrepanza? Come possono essere così diversi da un ambiente all’altro? Ho trovato a questo proposito interessante un passaggio del testo dello psicoterapeuta Pietropolli Charmet che vi riporto: 

Alla temperatura relazionale adatta al suo temperamento, la fragilità narcisistica dell’adolescente di oggi diventa una risorsa impensabile in altri contesti e a diversi climi relazionali. Ne posso portare devota testimonianza professionale: gli adolescenti fragili che ho incontrato in questi anni di consultazioni durante le crisi evolutive -anche di una certa gravità per i rischi che comportavano, se ritenevano di potersi fidare dell’interlocutore, se cioè lo ritenevano adatto a condividere la loro verità, assumevano nei confronti della relazione responsabilità elevatissime, ed erano capaci di sincerità e generosità relazionali altissime, quasi commoventi soprattutto non sapendo come ricambiare tanta fiducia e creatività relazionale. Non è un’esperienza solo di qualche psicologo particolarmente esperto o seduttivo, ma fa parte del bagaglio di esperienze di qualsiasi adulto sia stato disponibile ad ingaggiare una relazione con un’adolescente alla ricerca di adulti competenti. Si avvera in questi casi un evento relazionale quasi sorprendente, del tutto impensabile se ricondotto all’afasia simbolica che lo stesso adolescente presenta in classe, in gruppo, in famiglia o in palestra. Nella relazione investita affettivamente, l’adolescente fragile sfoggia una sensibilità strepitosa ed una capacità introspettiva che rendono ragione della sua fragilità, e che gli regalano un contatto intenso e veritiero con alcune rappresentazioni mentali profonde, generalmente inaccessibili, perché scomode da pensare e fonti di malessere per chi non si abituato a mantenere un contatto con i contenuti più profondi della propria mente. È molto probabile che sia questo il motivo che rende sorprendenti certi prodotti creativi dell’adolescente fragile, che sembrerebbero incompatibili con lo stile comunicativo trasandato e scontato con cui si esprime nella quotidianità scolastica e familiare; e che, del tutto inopinatamente, sono prodotti espressivi di qualità. [1]

Ma allora cosa contribuisce a costruire quella che l’autore chiama temperatura relazionale adatta? Una delle grandi doti che è necessario avere è la capacità di ascolto e l’interesse per quello che l’altro condivide. Sono due ingredienti fondamentali e per niente scontati nelle relazioni in generale e nelle relazioni con adolescenti in particolare. In un momento della loro vita nel quale stanno cambiando, è necessario che abbiano una figura adulta di riferimento che possa aiutarli a far venire fuori quanto di non detto caratterizza le loro vite perché, pensano spesso, ‘tanto di me che gliene importa’. Quando si accorgono quanto a qualcuno gliene importi di loro, si può avere in cambio una relazione che ha risvolti sorprendenti e che consente di aprire spiragli inediti sulla loro storia. Ripeto, non è una magia e non credo di avere poteri magici. Anzi, spesso, paradossalmente, chiedo loro quale magia avvenga in studio che non sia possibile replicare all’esterno dello studio stesso. Questo li obbliga a pensare come quello che hanno appena sperimentato con me possa essere replicato anche fuori. Li costringe ad uscire dalle risposte più scontate, come ‘ma qui è diverso‘ o ‘ma tu sei uno psicologo‘, e permette loro di autorizzarsi a far si che ciò che hanno costruito con me sia possibile anche in altri contesti. In questo caso le possibilità di condividere la loro storia è decisamente molto più probabile e porta a risultati insperati.

Chi volesse condividere le esperienze con adolescenti (genitori, fratelli, nonni, professionisti) è invitato a farlo (mail: fabrizioboninu@gmail.com oppure telefono 3920008369). Se poi volessero parlare gli stessi protagonisti di questo post… beh, non potrebbero farmi un regalo migliore. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pietropolli Charmet, G. (2008), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 106- 108

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Adolescenti & videogiochi

adolescenti e videogiochiUno dei risvolti della pubblicazione di un blog, credo soprattutto di un blog che ha come tema la psicologia, è quello di ricevere mail di persone che chiedono soluzioni o consigli su situazioni che si trovano a dover affrontare. Recentemente, una delle mail più interessanti ha come oggetto un tema affrontato anche in studio: l’eccessiva passione (ossessione per i genitori!) dell’interesse dei ragazzi e dei bambini per i videogiochi. I racconti su questa sorta di ‘epidemia’ sono sempre più terribili: bambini di 7 o 8 anni che senza le loro due ore quotidiane di videogiochi non sono disposti a fare nulla, adolescenti che passano l’intero pomeriggio in trance davanti ad un televisore oppure collegati online con un gruppo di amici.

Questa la mail ricevuta da Angela, mamma di Marco (pubblicata, naturalmente, con il consenso della persona che me l’ha inviata, e preservando l’identità degli interessati). Indicherò con ‘A‘ le mail di Angela e con ‘F‘ le mie:

A: Buon giorno Dott. Boninu, scusi se la disturbo, ho letto il suo blog e vorrei un consiglio se me lo puo’ dare. Ho un figlio adolescente di 14 anni, è attratto dai giochi di internet in un modo spropositato, da quando il padre gli ha comprato un computer potente rispetto a quello che aveva la nostra vita è cambiata in peggio. Prima riuscivo a marginare questa sua tendenza perché il pc era quello di casa e io lo gestivo con la password. Bestemmie parolacce e tutta la notte, o quasi, attaccato a giocare e chattare. Inoltre il giorno dopo dobbiamo lavorare, io mattina e sera quindi la stanchezza si fa sentire. Gli ho tolto il cavo per la connessione, almeno temporaneamente, non so però come reagirà. A parole ho provato già innumerevoli volte. Grazie per qualsiasi consiglio possa darmi.

Questa la mia risposta:

F: Salve Angela, (…). La situazione che mi descrive è conosciuta perché molti genitori lamentano questa attrazione. L’uso compulsivo dei videogiochi è un comportamento che molti ragazzi manifestano. Il punto è che sono la spia indicativa di varie difficoltà che possono avere. Per esempio se diventa la loro unica attività può essere che abbiano difficoltà in attività diverse come per esempio lo sport o i rapporti coi coetanei. So troppo poco di vostro figlio per consigliarvi qualcosa, e il consiglio non è nelle mie corde professionali. Sarebbe più interessante capire cosa comunichi vostro figlio con il suo comportamento e se questa comunicazione possa essere recepita da tutti gli adulti che si trovano intorno a lui. E sarebbe interessante anche capire cosa provochi il suo comportamento in famiglia. Insomma avrei bisogno di molti più dettagli per capire come aiutarvi. 

A: Grazie a Lei che ha trovato il tempo di rispondermi. Marco non ha difficoltà ad avere amicizie, anzi. Ora ha anche una “fidanzatina” di 14 anni come lui. Và be mi sembra un po presto ma accompagnamo i ragazzini  a metà strada entrambi i genitori perché si vedono circa 2 volte alla settimana (città diverse di residenza).  Io penso che comunque di base sia insicuro e timido, anche se lo nasconde con una maschera di ironia a volte anche offensiva/irritante soprattutto verso il padre.  Con internet però gli capita anche di isolarsi, ma fortunatamente dura pochi giorni, anche grazie agli amici che lo cercano ininterrottamente per una pedalata o una partita a calcetto.  Lui cerca di fare entrambe le cose a volte,  spessissimo a scapito dello studio.

Io l’ho lasciato al padre che aveva solo tre mesi per lavorare a tempo pieno. Necessità. Non sono riuscita a dargli quella sicurezza di avere un genitore che lo ama e lo aspetta a casa. Il padre non ha mai nascosto di rimanere la sera con lui controvoglia, neanche al bambino. Oltretutto mio marito ha un grave handicap (poliomielite) una scelta incauta che la madre ha fatto in buona fede di non fargli fare i vaccini. Lo dico perché il modo di vedere il mondo in modo negativo del padre credo che abbia influito nel comportamento del bambino che sempre ha preferito gli amici, giocare fuori oppure play station/computer.  Per giunta a 12 anni la scoliosi non gli ha reso le cose semplici, il bustino lo ha accettato per 2 anni ma ora lo rifiuta categoricamente. Riesco a malapena a fargli fare 3 volte alla settimana la  ginnastica correttiva. E’ una scoliosi lieve ma con la costanza, che non ha, l’avrebbe potuta risolvere completamente. Marco mi parla poco di cosa farà da grande nonostante sin da piccolo cercavo di capirne le tendenze. Comunque ieri gli ho tolto internet ma di sera glielo ho concesso un paio d’ore, di notte gli imposto un orario  che poi ha rispettato, almeno ieri!  Sono contenta quando riesco a farmi vedere decisa ma serena.   La mia preoccupazione è avere di fronte una dipendenza da giochi di internet perché essendo molto bravo  (2° in una graduatoria europea) il fatto di levarglielo del tutto non vorrei causare danni maggiori, internet  secondo me gli dice “sei capace” “vedi che vali a qualcosa” un complimento che probabile bisognava fargli da piccolo quando faceva bene un disegno, un lavoro a scuola.  

Internet in ogni caso può essere dannoso ed è una fatica regolamentarne l’uso quando i figli sono il doppio della tua altezza!

F: Salve Angela, (…) Sarebbe interessante capire quanto la sua storia sanitaria e quella che ha respirato in casa fin dalla nascita, abbiano contribuito alla sua ‘visione della vita’. Il punto è che i videogiochi sono spesso additati come causa dei mali di molti ragazzi ma, credo, la maggior parte delle volte siano solo la ciliegina su una enorme torta che è difficile vedere. O è difficile capire chi l’abbia creata.  

Spesso ho trattato sul mio sito temi inerenti l’importanza per un adolescente di poter contare sulla figura di un adulto competente che possa fungere da ‘coadiuvante’ nell’attraversare una età così complessa. Non deve essere necessariamente un professionista, basta un amico di famiglia, una persona che abbia la vostra fiducia e la sua fiducia e che possa fungere da tramite autorevole tra il mondo dell’infanzia (che vostro figlio si accinge ad abbandonare) e quello degli adulti verso il quale è proteso. Se non esiste una figura del genere, consiglio in questi casi un breve percorso di supporto, per lui o per aiutare voi a gestire con lui la situazione. (…)

Il punto importante è che la concentrare la propria attenzione solo sui videogiochi spesso impedisce di vedere la complessità del mondo che si muove attorno ai ragazzi ed è facile puntare il dito contro un colpevole, i videogiochi in questo caso, senza chiedersi quanto altri fattori giochino un ruolo importante e decisivo nell’influenzare il ragazzo. Come si può vedere anche in questo caso la storia di Marco era ben più articolata rispetto a quanto si percepisse da una prima visione. Bisognerebbe prestare attenzione a non perdere questa complessità di insieme, non focalizzandosi esclusivamente su un unico fattore. I videogiochi sono un grande attrattore per i ragazzi, ma è anche vero che costituiscono una via di fuga privilegiata da una realtà percepita come spaventosa, discorso che vale per qualunque altra dipendenza. Se ci si focalizza su di essa, qualunque essa sia, si perde di vista la domanda principale: perché si sia arrivati a questo. Ogni storia ha, naturalmente la sua risposta e non voglio generalizzare in nessun modo. Il rischio è quello di rovesciare i ruoli trasformando un’effetto (l’uso dei videogiochi) in una causa. I videogiochi non causano uno straniamento dei ragazzi, lo straniamento dei ragazzi viene agito (anche) tramite i videogiochi.

L’obiettivo, dunque, può passare dalla demonizzazione dei videogiochi alla costruzione di un’interazione ‘sana’ con loro, un modo di utilizzarli che possa in qualche modo soddisfare i ragazzi evitando che diventino la loro unica fonte di interesse. Per fare questo, però, è necessario tanto altro: gli adulti che li circondano dovrebbero interessarsi a quello che interessa loro, lasciarsi coinvolgere nelle loro vite, proporre un modello educativo coerente e responsabile. Tutte scelte decisamente più complicate e intricate rispetto al parcheggiarli davanti ad uno schermo, pensando che almeno non romperanno le scatole.

Quale scelta siete disposti ad intraprendere?

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

Sullo stesso tema puoi leggere anche: 

Bambini e internet: che fare? (1) 

Bambini e internet: che fare? (2)

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Il male innominato

maschereQuesta riflessione scaturisce da una frequente osservazione: la differenza che esiste tra quello che mi raccontano i genitori e quello che mi raccontano i ragazzi una volta che vengono in studio. Provo a spiegarmi meglio. Quando inizio a lavorare con persone nuove, e la richiesta riguarda un minore, ho un ‘protocollo’ abbastanza collaudato: fisso prima un appuntamento coi genitori e i successivi col ragazzo. In questo primo incontro con i genitori, può capitare che mi raccontino dei problemi del figlio ed è su questa loro percezione che si augurano venga svolto il lavoro con il ragazzo (o ragazza, naturalmente): per esempio il ragazzo può avere, a loro dire, problemi di aggressività, oppure problemi a scuola, problemi di socializzazione, problemi di autostima e così via.

Quale che sia il problema, i genitori danno la descrizione della situazione dei figli dal loro punto di vista, sostanzialmente il punto di vista di persone adulte. Può anche capitare che i punti di vista non coincidano tra i due genitori, e si apre una fonte ulteriore di complessità che non affronterò in questo post. Tornando a noi, il secondo appuntamento è riservato ai ragazzi: i ragazzi mi raccontano quello che succede dal loro punto di vista e, nella maggior parte dei casi, se non forse in tutti, questo racconto è completamente diverso da quello che mi è stato fatto dai genitori e quelli che nel racconto dei genitori sembravano i problemi più grandi, spesso non lo sono per bocca dei diretti interessati.

Questo punto è di fondamentale importanza e credo testimoni diverse cose: genitori e i figli non condividono la causa, il perché che ha determinato quella data situazione. Non solo: capita che esista una discrepanza enorme tra il racconto del genitore e ciò che raccontano i ragazzi, ma capita altrettanto spesso che i ragazzi abbiano difficoltà e non riescano a definire quale sia la loro difficoltà. Magari si rendono conto che hanno delle difficoltà: possono, per esempio, pensare di avere una difficoltà con la propria autostima o con la propria aggressività, ma spesso non riescono ad individuare il punto che reputano più importante o mancano del tutto le parole per descrivere il malessere di quel momento. Capita anche che le parole che vengono utilizzate siano vaghe, oppure che contengano un forte giudizio nei loro stessi confronti: ‘sono scemo’, ‘sono sbagliato’ o ‘non valgo nulla’ sono solo alcune delle frasi che vengono utilizzate per descriversi. Parole, come abbiamo detto, severe e svalutanti, ma in fin dei conti non adatte per descrivere quelle che sono le loro emozioni e i loro sentimenti in quella fase della loro vita.

Questo aspetto mi colpisce perché testimonia come siano loro stessi a non riuscire a trovare le parole che descrivano quello che stanno attraversando. Ritengo che questa sia una delle parti più rilevanti della loro difficoltà, perché nel momento in cui mancano le parole che descrivono lo stato, non si ha neanche la capacità di immaginare una soluzione per quel tipo di problema. Quello che faccio è invitarli a parlare, invitarli innanzitutto a fare uscire le immagini che loro possiedono sulla loro attuale situazione e, partendo da queste, cercare di far loro assomigliare e precisare l’immagine, cercando di renderla il più precisa e dettagliata possibile, di modo che si attivino nuovi pensieri, precisazioni delle/sulle loro convinzioni, riflessioni che abbiano come obiettivo quello di spronarli a tirare fuori termini migliori per descrivere l’istante nel quale si trovano. Credo sia di fondamentale importanza per far stabilire loro cosa sia vero e cosa non lo sia, cosa ci sia nella loro evoluzione, quali immagini di se stessi vadano aggiornate e quali immagini possano essere archiviate perché ormai appartengono inesorabilmente al passato.

Credo sia una delle mie grandi prerogative: aiutarli a dare un nome, a dare un ‘volto’, se vogliamo, alle emozioni che stanno attraversando, cercando di farli riflettere sul fatto che quelle che usano per descriversi non sono solamente parole, prive di senso, ma che abbiano una fortissima valenza nel caratterizzare quello che è il loro sentire, nei confronti di loro stessi prima che con gli altri

Perché sono sempre più convinto di quanto la discrepanza tra come si raccontano e come si percepiscono sia legata spesso al disorientamento e al turbamento che provano. E perché dare un nome e un ‘volto’ a quello che si prova e, in ultima istanza, alle proprie emozioni, può essere il primo passo che permetta la condivisione e la comunicazione di quello che si sta provando, condivisione che può, di fatto, avvicinare genitori e figli e rendere meno marcata la differenza tra come si raccontano loro e come li raccontano i genitori.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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I compiti per le vacanze

Prueba1669Ci siamo. Le tanto sospirate vacanze sono arrivate. Per molti bambini e ragazzi è arrivato finalmente il momento in cui, essendo liberi dalle tante incombenze che caratterizzano la loro routine quotidiana, pensano di potersi dedicare a ciò che più piace loro. Questo sarebbe possibile se non avessero quello che per molti è un vero e proprio incubo da vacanza: i compiti delle vacanze appunto. Esistono due tipi di scuole al riguardo: coloro che reputano i compiti necessari per tenere in allenamento i ragazzi e coloro che li ritengono l’ennesimo modo per tenerli sotto scacco anche nei momenti in cui dovrebbero essere più liberi. In supporto alla seconda tesi ho trovato un interessante articolo che fa un elenco dei motivi per cui sarebbe preferibile che i ragazzi non avessero compiti durante le vacanze. L’elenco è stato stilato da Miriam Clifford, insegnante e blogger che si occupa del tema scuola attraverso InformEd, sorta di laboratorio di idee sulla scuola. Trovate il link in fondo al post.

Intanto i punti:

  1. Gli studenti  imparano tutto il tempo nel 21° secolo. In una società come la nostra, costantemente connessa e nella quale circolano una miniera di informazioni ovunque, non si può pensare che i ragazzi apprendano solamente all’interno del contesto scolastico. Questo rende in parte superflua l’idea di compiti da fare a casa, legati alla visione di tenere vive e fresche le conoscenze acquisite a scuola durante l’anno;
  2. Non necessariamente molti compiti equivalgono ad una maggiore realizzazione: non è detto cioè che assegnare compiti a casa faccia studenti più diligenti o più bravi a scuola;
  3. I paesi che assegnano più compiti a casa non sono i migliori. Spesso invece è vero il contrario. Per esempio il Giappone ha abolito l’utilizzo di compiti a casa per favorire il tempo in famiglia mentre paesi del nord Europa, come per esempio la Finlandia, hanno limitato i compiti a casa ad un impegno massimo di mezz’ora al giorno;
  4. Invece di assegnare compiti, suggerire che leggano per divertimento: invece di assegnare un compito si può cercare di far interessare ad una lettura libera, per divertimento, che consenta di superare la logica di imposizione dei compiti a casa;
  5. Non assegnare troppo lavoro durante le vacanze: è controproducente anche al momento del ritorno a scuola; 
  6. Invitare gli studenti a partecipare a un evento culturale locale: questo tipo di attività, oltre ad essere percepita come più attiva rispetto allo svolgimento dei soli compiti, può portare il ragazzo a conoscere aspetti della sua realtà che non avrebbe mai preso in considerazione altrimenti;
  7. Il tempo in famiglia è più importante nelle vacanze: spesso infatti è una delle poche occasioni nella quale tutti  i membri, essendo anche gli altri in vacanza, possono passare del tempo insieme, non distratti dalla mille incombenze quotidiane che portano spesso ad incontrarsi tutti assieme solamente a cena; 
  8. Per gli studenti che viaggiano durante le vacanze, i compiti possono ostacolare l’apprendimento sul loro viaggio: dovendosi portare i compiti appresso hanno meno tempo di dedicarsi all’esperienza che stanno vivendo; 
  9. I bambini hanno bisogno di tempo per essere bambini: il fatto di avere spesso doveri non aiuta molto questo aspetto; 
  10. Alcuni esperti consigliano una fine a tutti i compiti: il rischio è, come detto, quello del sovraccarico; 
  11. Inviare una lettera ai genitori per spiegare perché non si stia assegnando lavoro: questo punto è dedicato agli insegnanti che possono spiegare con una lettera ai genitori dei propri alunni per quale motivo non reputano necessario assegnare loro compiti;
  12. È possibile rendere le vacanze un momento per un “progetto aperto” per crediti supplementari: si può, cioè, affidare alla fantasia e alla creatività del ragazzo l’esecuzione di un compito che sia dal ragazzo pensato, progettato ed eseguito. Il progetto sarà poi valutato a seconda delle qualità che il ragazzo ha deciso di mettere in gioco; 
  13. Suggerire la visita di un museo: se a scuola si studia il Medioevo, una visita ad un museo che ha questo tipo di reperti può essere più interessante che l’ennesima scheda su un brano letto nel libro di storia; 
  14. Esortare gli studenti a fare volontariato durante il periodo di vacanza: questo genere di attività, come nel punto 6, può essere percepita come più attivante rispetto al fare semplicemente dei compiti, e può spronare il ragazzo ad impegnarsi in attività che lo portino ad interessarsi all’altro e ai suoi bisogni;
  15. Sviluppare un gioco di classe: prima delle vacanze è possibile costruire un’attività scolastica la cui fine può essere poi assegnata a casa, coinvolgendo anche altri membri della famiglia. Questo favorirà un maggior tempo che i membri passano tra loro; 
  16. Gli studenti possono imparare di più osservando il mondo reale, piuttosto che fargli fare compiti su quello stesso mondo;
  17. Fare escursioni a piedi: e utilizzare le impressioni registrate. Come per altri punti precedenti, un’esperienza diretta è spesso più formativa dello studio della stessa esperienza; 
  18. Invogliare gli studenti di visitare un parco divertimenti: concetti spesso astratti come le forze fisiche possono essere sperimentate direttamente con molti giochi presenti in questi parchi!
  19. I bambini hanno bisogno di riposo: come tutti noi, anzi forse sopratutto loro, hanno bisogno di un momento di stacco dalle attività quotidiane;
  20. Molti genitori e studenti non amano compiti delle vacanze: sulla veridicità di questo punto non sono molto d’accordo, perché da per scontato che i genitori vogliano passare più tempo coi figli durante le vacanze e non sempre le cose stanno così.

Come avrete notato, uno dei punti principali di questo elenco è quello di preferire delle attività pratiche piuttosto che mere attività scolastico/mentali. Il tempo che rimane libero può essere utilizzato per far vivere delle realtà (musei, volontariato…) che normalmente vengono solamente insegnate. Come accennavo nell’ultimo punto, questo comporterebbe passare e dedicare maggior tempo ai propri figli e per molti genitori, in vacanza a loro volta, potrebbe essere un impegno non da poco che eviterebbero volentieri per riposarsi. Sarebbe interessante allora chiedersi a chi giovi che i figli abbiano compiti da svolgere anche durante le vacanze.

Che ne pensate? A che scuola di pensiero appartenete? I compiti sono per voi una cosa utile oppure una vessazione cui cercare di porre al più presto rimedio?

Se voleste leggere l’articolo per intero, in inglese, cliccate qui

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il Piccolo Principe e la relazione terapeutica

landscape-1431634997-il-piccolo-principe-con-la-volpeChi di noi non ha letto il Piccolo Principe? Considerato, riduttivamente, uno dei testi fondamentali della letteratura per ragazzi, credo sia uno dei testi più complessi per la molteplicità dei punti di vista dal quale può essere colto. Letto per la prima volta a scuola, l’ho ripreso diverse volte nel corso degli anni, trovandoci sempre suggestioni diverse. Ho come l’impressione che il libro cresca insieme a me, che non sia statico e finito ma mi permetta, in spazi e tempi diversi, di cogliere riferimenti e muovermi tra suggestioni che nella lettura precedente non avevo colto. Tra le varie riletture diventavo (come ormai saprete!) psicologo specializzandomi, poi, in psicoterapia familiare. L’ho (per caso?) ripreso in mano qualche giorno fa per rileggerlo, curioso di capire cosa mi avrebbe comunicato in questa fase della vita. E, ovviamente, non sono stato deluso. Tralasciando la complessità dei riferimenti sempre presenti nel testo, la suggestione in questa lettura è stata nel rapporto tra il bambino e la volpe, associando la descrizione di questo rapporto, alla costruzione della relazione terapeutica.

In generale, in ogni relazione abbiamo l’incontro di due mondi che si incontrano. La peculiarità della relazione terapeutica è forse quella che quest’ultima ha (o dovrebbe avere!) come fine la maggiore coscienza di se stessi. La relazione terapeutica è particolare perché uno dei capisaldi è la non totale reciprocità nel rapporto, aspetto che la differenzia da un rapporto amicale. È una relazione nella quale dovrebbero svolgere un ruolo determinante diversi fattori: la capacità di costruire una relazione, l’accoglienza del terapeuta, la presenza di empatia, la mancanza di giudizio per le vicende del paziente, la pazienza, la responsabilità. E forse vi starete chiedendo: come si lega questo con la storia del Piccolo Principe? Proviamo a vederlo assieme.

Ad un certo punto nella storia, il piccolo principe incontra nel suo percorso una volpe (che poi diventa LA volpe, ma ci arriveremo…) e inizia un dialogo con l’animale. Inizialmente il piccolo principe chiede alla volpe di giocare con lui, ma la volpe gli risponde che non lo può fare perché non è addomesticata e, nella sua infinita saggezza istintuale, chiede al piccolo di addomesticarla. Il piccolo principe chiede alla volpe cosa significhi addomesticare. La volpe gli risponde che vuol dire creare dei legami. Spiegando ancora:

“Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremmo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”

Primo passo nella relazione è proprio quella dell’addomesticamento, la possibilità cioè di stabilire una relazione. La relazione terapeutica può essere basata, inizialmente, sul bisogno, sulla necessità. Da questo primo movimento può nascere, con costanza, fiducia e impegno, una relazione basata sull’importanza e non più esclusivamente sull’urgenza. Altro elemento presente in questo passo è l’unicità nella relazione, il momento nel quale si ha il passaggio dall’essere una volpe tra le volpi per diventare LA volpe con la quale si intrattiene un rapporto, un riconoscimento reciproco del ruolo che ognuno di noi assume per l’altro. Questo passaggio è necessario nel momento in cui, come dice la volpe, “non si conoscono le cose se non si addomesticano”, non si riesce a comprendere una realtà con le quali non si è riusciti a stabilire una relazione. L’addomesticamento è un processo a doppio senso, non interessa solo uno dei due membri, per quanto la relazione terapeutica sia apparentemente sbilanciata dal disvelamento su un lato (il paziente) e un disvelamento minore dall’altro (il terapeuta). Ma la creazione del legame è reciproca. Ed è unica. L’unicità nella/della relazione è un principio fondamentale. Il paziente è consapevole che ogni terapeuta veda altre persone, ma deve avere la sicurezza che al momento in cui noi siamo con lui, siamo totalmente presenti e centrati sulla relazione che in quel momento abbiamo nel rapporto con lui:

“(…) Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

La relazione ha la capacità di significare il nostro mondo. All’interno della relazione le cose acquistano un diverso valore e un campo di grano, che non ricordava nulla alla volpe, diventa significativo nel momento in cui viene associato al colore dei capelli del bimbo. È la relazione col piccolo principe a dare senso al grano. Così, nella relazione terapeutica, è la relazione stessa la base del cambiamento di senso del mondo del paziente

Uno degli aspetti più rilevanti per l’addomesticamento è sicuramente la pazienza:

Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”

L’avvicinamento è costante e graduale. La relazione, qualunque essa sia, è inizialmente fondata sulle parole. Ma da subito, ad un livello che non riusciamo neanche a capire e spiegare, possono intervenire fattori non legati esclusivamente alla comunicazione verbale. Sappiamo subito, a pelle, se una persona può piacerci oppure no. È un aspetto inconscio che nella relazione terapeutica è basato anche sulla fiducia, sull’empatia, sull’accoglienza, sulla mancanza di giudizio.  

Altro aspetto rilevante nello strutturare la relazione terapeutica è la costanza:

“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai ancora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”

Come accennato, la costanza è una parte rilevante nella strutturazione della relazione terapeutica. È necessario il rispetto di alcune regole nella costruzione della relazione, che all’inizio appaiono costrittive ma che strutturano la costruzione relazionale della stessa. È necessario prepararsi il cuore prima dell’incontro? Io credo di si, credo sia necessario ‘sintonizzare’ il proprio cuore con quello della persona che deve venire. E questo ha a che fare con l’unicità nella relazione terapeutica stessa:

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente,” disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora per me unica al mondo”.

Nessuna rosa/persona è uguale all’altra, e solo il suo addomesticamento, la costruzione di una relazione con essa, permette di dare un significato a quella rosa/persona.

Ma qual è il fine della relazione terapeutica? Io credo che l’obiettivo sia la costruzione di una maggiore consapevolezza della persona e la si può ottenere accompagnando la persona stessa nell’esplorazione del suo mondo interiore, l‘anima

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”

La costruzione del rapporto può avvenire anche in maniera non verbale, ma istintuale e inconscia, senza mediazione visiva o linguistica. Chiave di accesso per questo mondo è una delle doti fondamentali del terapeuta l’empatia, la capacità cioè di relazionarsi intimamente con l’altro, avvicinandosi al suo sentire, accogliendolo e comprendendolo, dando la possibilità all’altro di far emergere e condividere la sua realtà interiore.  

All’interno della relazione terapeutica altro spazio fondamentale è la responsabilità

Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa”  

Ho fatto mia questa frase. Mi sento pienamente responsabile, anche a distanza di tempo, delle rose che ho avuto la fortuna di incontrare in tutti questi anni di professione. Ho cercato di stabilire una connessione con ognuna di loro, addomesticandole e venendone addomesticato. 

Anche nella relazione terapeutica può arrivare, come in ogni relazione, il momento di separazione, un momento nel quale il cammino di due persone può portarle ad allontanarsi l’una dall’altra. È un momento importante, spesso etichettato come triste:

“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”.
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe…
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

Ci si può focalizzare su due momenti alla fine della relazione: il momento della perdita, il fatto che le cose ‘stiano finendo’, ma ci si può concentrare anche sulla gratitudine dell’incontro, sull’essersi trovati. Le persone tendono a focalizzare la loro attenzione sul primo aspetto, scordandosi di quanto ci si è arricchiti nell’incontro. Anche questo essenziale è invisibile agli occhi ed è il concetto stesso di perdita che altera l’idea dell’incontro. Non c’è perdita, né di relazione, né di tempo. D’altronde:

“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”

E se il tempo che abbiamo dedicato loro le ha rese così importanti non si comprende dove sia la perdita!

Poi soggiunse: 
“Và a riveder le rose. Capirai che la tua è unica al mondo” [1] 
E sono sempre più convinto che ognuna delle rose che ho (e mi hanno) addomesticato sia unica al mondo.

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Antoine De Saint-Exupéry (1949), Il Piccolo Principe, Bompiani, Milano pp. 91-98

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Gli adolescenti e la noia (3)

Gli adolescentiAdulti invidiosi e mal disposti, li definisce l’autore. Invidiosi di cosa? Cosa può invidiare l’adulto a questi giovani perennemente annoiati e in crisi con la propria vita? Le cose che possono suscitare invidia sono diverse: la vitalità, il tempo, le possibilità, le occasioni, le infinite prospettive che si trova davanti, le opportunità, le esperienze da fare. Non che questi aspetti non possano far parte del mondo adulto, ma spesso molti, una volta cresciuti, non vedono queste possibilità in un vita ormai ordinata, spesso ordinaria, una vita che ha assunto una piega che non lascia intravedere grandi possibili novità. Questo sentire, non ammissibile e non confessabile, spesso neanche cosciente, induce una particolare severità nel giudicare la vita dei ragazzi, severità attraverso la quale non percepiamo l’altro lato della medaglia, il dolore, lo sconforto e la paura che suscita diventare grandi. Se riuscissimo a ricontattare l’adolescente che siamo stati, forse ci tornerebbe alla mente il miscuglio di eccitazione e terrore, di paura e sfida, di sicurezza e fragilità che l’adolescenza comporta. Gli esiti imprevedibili di questa miscela sono ben più spaventosi di quanto un adulto riesca a percepire o ricordare. Anche la noia in questa prospettiva, assume contorni nuovi e stupefacenti, contorni che l’adulto stenta a riconoscere:

Il nostro adolescente non si annoia, ma contempla sgomento la pochezza del mondo che gli hanno preparato ed è costretto a chiedersi come possa renderlo più interessante. Non è affatto ottimista sull’esito dell’operazione è quasi sempre decide di non interessarsi ad azioni trasformatrici, limitandosi a cercare di soffrirne il meno possibile; spesso si costruisce, in alternativa, un mondo parallelo fatto del piccolo gruppo di amici e amiche, con cui prendere in giro il mondo esterno[1]

La noia diviene una forma di desensibilizzazione rispetto al mondo che circonda, mondo sentito come pauroso e ostile, un mondo dal quale fuggire e nel quale, spesso, non si trova la guida di un adulto del quale fidarsi. Un mondo percepito come pericoloso, nel quale ogni privilegio sarebbe volentieri scambiato con la sicurezza, con la facilità, la stabilità, la comprensione. Il mondo in trasformazione è un mondo nel quale anche le relazioni con gli altri, stabili fin da quando si era bambini, vanno ristrutturate all’interno di un rapporto diverso, complesso da decifrare, con continui rimandi e rimproveri, all’interno della logica del ‘non puoi più comportarti così, non sei più un bambino’, quando ancora a quel bambino non è subentrato un adulto che comprenda come relazionarsi con il mondo dei grandi che si avvicina inesorabile.

Questa complessità non viene presa in considerazione, ottenebrati come siamo dai meravigliosi privilegi che concediamo loro e dei quali loro godono. I ragazzi hanno gioco facile nel mostrarsi presuntuosi o fragili, forti o disinteressati, boriosi o intimiditi, in una oscillazione emotiva che spaventa chi sta loro intorno e li allontana. La noia è l’arma con la quale non si fanno toccare, rifuggono dal contatto con un emotivo che disorienta, in primis, loro stessi. Ed è questo il grande dilemma dell’adolescente: essere coinvolto o disinteressarsi? Un dilemma che lambisce anche gli adulti: farsi coinvolgere o mollare la presa?  

Ed è in questo che una figura adulta, supportiva e non giudicante, può essere di grande aiuto. Solo con il sostegno di adulti che siano riusciti a trovare il loro equilibrio tra il ragazzo che sono stati e l’adulto che sono diventati, si può offrire loro una mano tesa e agevolarli a trovare un modo per relazionarsi con un mondo, fisico, relazionale ed emotivo che sta inevitabilmente assumendo contorni nuovi. Un adulto che riesca a non farsi impressionare o spaventare dalla noia e dal disinteresse che manifestano per tenerli alla larga. Un adulto che abbia ben presente che questo mondo sta mutando per i ragazzi ma anche, inevitabilmente, per coloro che li circondano.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Charmet, G., P. (2010), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 107-111

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