Prospettiva nuova

Un giorno qualunque di lavoro. Nuovo appuntamento. Dopo l’incontro con i genitori, conosco finalmente Giorgia, 15 anni, spinta alla terapia dalla sua difficoltà, sempre crescente, di affrontare uno qualunque dei vari impegni della sua vita quotidiana senza ansia. Giorgia si presenta molto bene, sembra apparentemente tranquilla, anche se vari segnali parlano del suo stato di disagio anche nel momento in cui la incontro.

Ovviamente il tema sul quale incentra tutto il colloquio è l’ansia e lei non riesce a non parlare di quanto penoso sia partecipare a qualunque cosa, data la difficoltà a viversela in modo sereno. Mi parla approfonditamente della scuola, della frustrazione che prova ogni volta che viene interrogata quando, pur pronta, non riesce che a spiccicare un terzo di quello che sente di sapere e in un modo del tutto terribile rispetto a come lo ripeteva solo il giorno prima, nell’intimità della sua camera. Oppure dell’ansia che la assale ogni volta che la sua squadra (Giorgia gioca a pallavolo) deve affrontare una partita con una squadra avversaria. O ancora alle uscite con gli amici, soprattutto se nel gruppo sono presenti persone nuove o con le quali ha poca confidenza oppure se uno dei membri del gruppo propone di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che, lei teme inesorabilmente, non saprà affrontare e permetterà a tutta l’inadeguatezza che sente di avere di manifestarsi appieno.

Sto li, con lei, ad ascoltare con interesse quello che mi racconta, pensando sempre più spesso, mano a mano che lei si addentra nei dettali di quanto invalidante senta l’ansia, a quanto questo ritratto possa essere parziale e monotematico

Ad un certo punto, come spesso mi capita di fare in terapia, sposto completamente il focus su un tema opposto rispetto a quello che il paziente mi porta come predominante. In questo caso: chi è Giorgia quando non ha ansia? Cosa le piace fare, cosa la rilassa quando capita che si senta bene? Questa domanda inizialmente spiazza Giorgia, che da tempo non si soffermava a pensare a chi fosse senza la sua fastidiosa compagna ansia. Lo spiazzamento iniziale lascia ben presto posto ad un nuovo focus e Giorgia inizia raccontarsi, a spiegare chi sia, e a dirmi cosa faccia di Giorgia… Giorgia.

Come ogni persona, inizialmente disabituata a raccontare qualcosa di sé, Giorgia inizia a riflettere su quali siano le attività che la caratterizzano, cosa le piace e cosa non le piaccia, quali attività le procurino piacere e quale invece aumentino il senso di disagio. Questo  spostamento le permette di pensarsi come qualcosa di più articolato, di più complesso rispetto al quel ritratto unidirezionale di Giorgia-con-l’ansia che da tempo caratterizza il suo racconto di sè.

Il cambio di prospettiva risulta, perciò, molto interessante perché permette alla persona di iniziare a guardarsi con occhi diversi e non più focalizzati solo su quella che è la problematica per la quale è venuta in studio. E spesso le persone sono completamente disabituate a percepirsi in questa maniera, aderendo completamente all’idea che siano solo il disturbo che manifestano.

Ritornando a Giorgia possiamo affermare come ormai si identificasse nella persona che ha una difficoltà legata all’ansia, dimenticando di ricordarsi quali altri aspetti si trovavano in lei e non riuscendo quindi ad integrare il disagio con le risorse che ognuno di noi possiede. Sono sicuro che vi starete chiedendo se questo fa passare l’ansia. Ovviamente no, ma questa nuova prospettiva, questa nuova integrazione può servire a riequilibrare la visione che noi abbiamo di noi stessi, rendendola più vera, sfaccetta e complessa. In poche parole più completa. Il tema che viene portato in terapia è quello che preoccupa di più la persona in quel momento storico della sua vita. Ma se il disagio diventa l’unico aspetto di noi stessi nel quale ci identifichiamo, e che tendiamo a mostrare agli altri, diventa difficile integrarlo con le risorse e le possibilità che sono insite in ognuno di noi.  

Ed è solo con la riscoperta della molteplicità dei nostri aspetti che può iniziare un percorso terapeutico.  

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto,

Fabrizio Boninu

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Il lutto per i bambini (1)

White balloon flying in the skyLa morte di una persona alla quale siamo legati e il successivo lutto costituiscono da sempre un momento di passaggio nella vita dell’individuo che spesso è difficile gestire, soprattutto per la nostra sempre più manifesta incapacità di maneggiare, verbalizzare e interiorizzare il concetto di morte. Se questo meccanismo riguarda tutti noi, una attenzione maggiore andrebbe prestata nel caso in cui il lutto coinvolga un bambino: la sua elaborazione potrebbe essere ancora più complessa, soprattuto in relazione alla capacità che hanno (o non hanno) gli adulti intorno a lui di significare quello che è successo nella vita del bambino. Vale dunque la pena soffermarci su quelli che possono essere i meccanismi di elaborazione del lutto nei bambini e le fasi che contraddistinguono questo passaggio.

Punto di partenza può essere la definizione dell’elaborazione del lutto. Con questa espressione intendiamo il: complesso meccanismo che permette, col tempo, il superamento della tristezza, dell’ambivalenza per ciò che si è perduto e che porta alla riorganizzazione dell’attività mentale (idee, sentimenti e fantasie) e degli aspetti esterni della propria vita dopo lo sconvolgimento creato dal dolore.

L’esperienza della perdita spesso induce profonde trasformazioni che portano a riflettere su se stessi e sui propri errori, facendo trovare il coraggio di apportare cambiamenti significativi alla propria vita. (M.G. Sforza, J. L. Tizòn, 2009, p. 16). [1] 

ll lutto, e questo vale sia per i bambini che per gli adulti, costituisce un momento di grande cambiamento nella vita dell’individuo. La morte generalmente costituisce una fase di passaggio da un equilibrio relazionale ad un altro. La scomparsa di una persona significativa comporta sempre la riorganizzazione funzionale e relazionale del gruppo familiare che viene colpito dalla perdita, e questo evidenzia una diversa organizzazione dei ruoli e delle funzioni all’interno del gruppo relazionale nel quale questo cambiamento avviene. Nella definizione data poc’anzi viene utilizzato il termine ambivalenza: la morte è ambivalente nella sua accezione più ampia. Il termine ambivalenza rimanda alla compresenza di emozioni diverse nello stesso istante o per lo stesso fatto, momenti nei quali l’individuo può provare un’emozione e, in contemporanea, l’emozione contraria.

L’ambivalenza può essere naturalmente presente nell’individuo, ma può arrivare ad intensificarsi nel caso di un forte cambiamento come nella fase di lutto. Se per un adulto questa ambivalenza può essere facilmente comprensibile e significabile (anche se questo aspetto non è scontato), può assumere invece contorni diversi per un bambino che, con difficoltà, può rendersi conto della peculiarità di picchi emotivi completamente altalenanti che un lutto può provocargli. Poniamo, per esempio, il caso che muoia, dopo lunga malattia, il nonno paterno. La conoscenza che il bambino aveva del nonno non era molto approfondita: lo vedeva solo una volta all’anno o solo in occasione di grandi feste come Natale o Pasqua. Pensandoci bene, al bambino suo nonno non piaceva molto: era spesso di malumore, era spesso sofferente, stava sempre a borbottare riguardo ai giochi che gli piaceva fare. Non era una presenza simpatica e capitava che non vedesse l’ora di andare via. Alla morte del nonno il bambino vive sentimenti contrastanti, ambivalenti: può essere triste, comprendendo la perdita subita o percependo quello che gli adulti intorno a lui provano (soprattutto del papà per la perdita del suo papà). D’altro canto potrebbe insinuarsi in lui un sentimento opposto, liberatorio, dal momento che è venuta a mancare una persona alla quale non si sentiva legato da particolare affetto e che non gli piaceva molto. Il risultato può essere una serie di emozioni contrastanti, tra le quali si alternano dolore e indifferenza, pena e distacco.  

In occasioni del genere, però, sussiste la considerazione che siano ammissibili solo alcune emozioni mentre altre emozioni non lo sono, insinuando l’idea che siano fuori luogo. Infatti la manifestazione del dolore è facilmente comprensibile da parte degli adulti che lo circondano, l’indifferenza potrebbe non essere accolta allo stesso modo, nè significata in maniera altrettanto accogliente. Questo potrebbe indurre il bambino a credere di vivere sentimenti inaccettabili, da nascondere o da censurare. Solo sentendosi supportato da adulti competenti che possano comprendere e aiutarlo a manifestare anche emozioni non prevedibili o normalmente attese, riuscirà a validare ed accogliere in sé,  oltre che condividere, queste emozioni con gli altri non sentendosi sbagliato o inaccettabile.

– CONTINUA –

Fabrizio Boninu

Sul tema leggi anche:

Come parlare della morte ai bambini (1)

Come parlare della morte ai bambini (2)

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Torino, pp. 19-20

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Perché io valgo

frustrazioneIl titolo di questo post vi suona sicuramente familiare. Insieme a migliaia di altre frasi e slogan che da anni e per anni vengono ripetuti quasi quotidianamente, anche questo è uno di quelli che, volenti o nolenti, è entrato a far parte del nostro linguaggio. Che avvenga tramite tv, Internet, radio, manifesti, foto, è un dato di fatto che ormai molti marchi siano identificabili solamente con la frase che viene ripetuta ad ogni spot. Siamo talmente bombardati da messaggi che ormai è necessario che il consumatore identifichi la marca immediatamente. Il più delle volte questa identificazione avviene, appunto, tramite una frase, ma non è l’unico metodo: può essere un simbolo grafico oppure un suono (penso, per esempio, alle pubblicità di BMW o di Audi che terminano sempre con una sorta di brevissimo jingle). Nulla di nuovo, penserete: sono gli slogan pubblicitari, piccole frasi che condensano, in poche parole, l’essenza del prodotto che devono reclamizzare. Devono (o dovrebbero) essere brevi e facilmente ricordabili, devono essere chiari e comprensibili immediatamente per imprimersi nella mente di chi, come noi, ogni giorno, viene subissato da una serie di stimolazioni visive, uditive e tattili.

Non molto tempo fa gli slogan avevano a che fare con il prodotto stesso, ed esaltavano alcune caratteristiche del prodotto rispetto ai concorrenti. Ricorderete slogan famosissimi come ‘Altissima, Purissima, Levissima‘, o lo slogan della ‘scarpa che respira‘. Ben presto i pubblicitari si sono resi conto che per far presa su un mercato sempre più competitivo, la spinta all’acquisto doveva trasferirsi da fattori contingenti, come per esempio la qualità o la differenza rispetto ai concorrenti del prodotto, a caratteristiche più emozionali, più istintuali. Per questo si è arrivati a slogan sempre più emotivi, slogan che cercavano di fare presa sulla sensazione nell’avere o nell’usare un determinato prodotto. Si è arrivati, così, a frasi che non fanno più riferimento a caratteristiche del prodotto o a differenze rispetto alla concorrenza, ma che cercano appunto di veicolare l’emozione associata all’uso di quel tipo di bene: penso a slogan celeberrimi come ‘no Martini, no party‘, ‘dove c’è Barilla, c’è casa‘, ‘Just do it‘ fino al celeberrimo ‘think different‘ di Apple. 

Dove voglio arrivare, vi starete chiedendo. Il punto, ovviamente, non sono gli slogan: sono sempre esistiti come parte identificativa della campagna pubblicitaria che ci veniva proposta. Gli slogan, però, si sono ulteriormente evoluti in una deriva sempre più egoistica, sempre più individualistica, e sono proposti come leva per forzare la nostra fame di onnipotenza, di potere, lisciando emozionalmente il pelo al nostro egocentrismo. Pensiamo al messaggio di una notissima marca di prodotti di cosmetica, che qualche anno fa coniò lo slogan ‘perché io valgo‘, slogan associato a modelle famosissime e bellissime. Ho sempre pensato che uno slogan del genere fosse controproducente perché il messaggio era facilmente fraintendibile da tutte le persone che, vedendo lo spot con uno slogan di questo tipo, e non essendo top-model famosissime come le testimonial, si sarebbero sentite escluse, da una comunicazione il cui sottotesto poteva essere ‘mentre voi no, non valete’. Ed evidentemente anche i pubblicitari si resero conto del sottomessaggio passato, perché lo slogan fu poi cambiato in un più generico ‘perché voi valete‘. Ma non è il solo esempio.

Una notissima catena che vende prodotti tecnologici usa, dal 2014, lo slogan ‘voglio il mondo‘. E potrei farvene altri. Come ‘impossibile è niente‘. Ecco, io credo che questo tipo di slogan sia profondamente insidioso. Credo lo sia per persone adulte, ma ancora più complesso per le menti e i cuori dei ragazzi che hanno più difficoltà ad analizzare e rendersi conto della ambivalenza di messaggi di questo tipo. Qualcuno di voi potrebbe obiettare a questo punto, come queste siano solamente frasi, che non si dovrebbe dare così tanta importanza ad un aspetto così marginale come uno slogan pubblicitario. Potrebbe essere vero. È solo una frase dopotutto, non può essere così dannosa. Ma il punto è che non è solo una frase. Sono tante frasi. E sono ripetute migliaia di volte al giorno, instillando in noi, piano piano ma con costanza, l’idea di dover aver tutto, che non ci sia nulla di impossibile, che noi valiamo e perciò nulla ci potrà essere negato. D’altronde noi vogliamo il mondo. Mettiamo, invece, per assurdo, che il mondo non possa essere nostro. Cresciuti e iperstimolati con l’idea che dobbiamo avere tutto, perché valiamo solo in virtù delle cose che possediamo, come reagirà il nostro piccolo io che magari non è così convinto del suo valore? Come reagirà il nostro amor proprio quando si accorgerà di non poter ottenere il mondo e si dovrà accontentare di qualcosa di decisamente meno? Come ne uscirà la nostra immagine personale quando ci accorgeremo di non ottenere che un millesimo di quello che, per diritto pubblicitario instillato in anni di bombardamento, riteniamo ci appartenga di diritto? Quanta paura avremo che gli altri si accorgano di quanto poco valiamo perché non siamo riusciti ad ottenere quel mondo promesso? Ecco, credo che tutte queste domande possano circolare, non consapevoli né esplicitate, dentro di noi provocando un senso di malessere per ogni meta (imposta!) che non riusciamo a raggiungere. Come dicevo prima, questo è ancora più difficoltoso per i bambini e i ragazzi che possiedono meno strumenti per comprendere quante pressioni vengano esercitate per trasformali in perfetti consumatori prima che persone. Ed è questo che mi inquieta, questa continua rincorsa non più a solo a comprare, ma a diventare padroni, bramare, volere e valere in base a quello che compriamoo. Questa onnipotenza ipertrofica avrà l’amaro risveglio nel momento in cui passerà dal magico mondo pubblicitario, dove tutto è facile, veloce, accessibile (ma anche pulito, bello, liscio, giovane e perfetto) al mondo reale, ben più complesso di quello dipinto.

Donald Winnicot, celeberrimo pediatra e psicanalista inglese, descrivendo lo sviluppo del bambino, parlava di onnipotenza soggettiva per descrivere la fase nella quale il bimbo molto piccolo ha solo sé stesso come riferimento, e vive all’interno di una realtà percepita come costruita da lui e nel quale è creatore del suo mondo. In questa fase il bambino, essendo creatore di questo mondo, è fondamentalmente come un dio, e supera questa fase nel momento in cui si rende conto che il mondo non è suo, ma è una realtà condivisa con altri, ognuno dei quali portatore dei propri bisogni. Questa fase di sviluppo viene (o dovrebbe essere) superata con l’integrazione dell’altro e delle sue esigenze nel mondo.

In questo gli slogan compiono il salto regressivo del quale vi parlavo, nel momento in cui solleticano sempre più profondamente le istanze egoistiche di ciascuno di noi nell’assicurare i propri bisogni, non prendendo in considerazione quelli degli altri.

Su questo punto invito a prestare particolare attenzione, affinché messaggi di questo tipo non riescano più ad agire senza la nostra consapevolezza. Sarà un grande momento evolutivo quello nel quale ci scontreremo/incontreremo con la nostra impossibilità di avere il mondo. La nostra solleticata onnipotenza farà i conti con la realtà, potendone, forse, finalmente prenderne le misure. E riuscendo a prendere anche le misure di sè stessi, dei propri desideri, delle proprie aspirazioni, del proprio valore, della paura di non averne. Arrivando a comprendere, infine, quanto valiamo. A prescindere dal fatto che ce lo ricordino solo per comprare uno shampoo. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il male innominato

maschereQuesta riflessione scaturisce da una frequente osservazione: la differenza che esiste tra quello che mi raccontano i genitori e quello che mi raccontano i ragazzi una volta che vengono in studio. Provo a spiegarmi meglio. Quando inizio a lavorare con persone nuove, e la richiesta riguarda un minore, ho un ‘protocollo’ abbastanza collaudato: fisso prima un appuntamento coi genitori e i successivi col ragazzo. In questo primo incontro con i genitori, può capitare che mi raccontino dei problemi del figlio ed è su questa loro percezione che si augurano venga svolto il lavoro con il ragazzo (o ragazza, naturalmente): per esempio il ragazzo può avere, a loro dire, problemi di aggressività, oppure problemi a scuola, problemi di socializzazione, problemi di autostima e così via.

Quale che sia il problema, i genitori danno la descrizione della situazione dei figli dal loro punto di vista, sostanzialmente il punto di vista di persone adulte. Può anche capitare che i punti di vista non coincidano tra i due genitori, e si apre una fonte ulteriore di complessità che non affronterò in questo post. Tornando a noi, il secondo appuntamento è riservato ai ragazzi: i ragazzi mi raccontano quello che succede dal loro punto di vista e, nella maggior parte dei casi, se non forse in tutti, questo racconto è completamente diverso da quello che mi è stato fatto dai genitori e quelli che nel racconto dei genitori sembravano i problemi più grandi, spesso non lo sono per bocca dei diretti interessati.

Questo punto è di fondamentale importanza e credo testimoni diverse cose: genitori e i figli non condividono la causa, il perché che ha determinato quella data situazione. Non solo: capita che esista una discrepanza enorme tra il racconto del genitore e ciò che raccontano i ragazzi, ma capita altrettanto spesso che i ragazzi abbiano difficoltà e non riescano a definire quale sia la loro difficoltà. Magari si rendono conto che hanno delle difficoltà: possono, per esempio, pensare di avere una difficoltà con la propria autostima o con la propria aggressività, ma spesso non riescono ad individuare il punto che reputano più importante o mancano del tutto le parole per descrivere il malessere di quel momento. Capita anche che le parole che vengono utilizzate siano vaghe, oppure che contengano un forte giudizio nei loro stessi confronti: ‘sono scemo’, ‘sono sbagliato’ o ‘non valgo nulla’ sono solo alcune delle frasi che vengono utilizzate per descriversi. Parole, come abbiamo detto, severe e svalutanti, ma in fin dei conti non adatte per descrivere quelle che sono le loro emozioni e i loro sentimenti in quella fase della loro vita.

Questo aspetto mi colpisce perché testimonia come siano loro stessi a non riuscire a trovare le parole che descrivano quello che stanno attraversando. Ritengo che questa sia una delle parti più rilevanti della loro difficoltà, perché nel momento in cui mancano le parole che descrivono lo stato, non si ha neanche la capacità di immaginare una soluzione per quel tipo di problema. Quello che faccio è invitarli a parlare, invitarli innanzitutto a fare uscire le immagini che loro possiedono sulla loro attuale situazione e, partendo da queste, cercare di far loro assomigliare e precisare l’immagine, cercando di renderla il più precisa e dettagliata possibile, di modo che si attivino nuovi pensieri, precisazioni delle/sulle loro convinzioni, riflessioni che abbiano come obiettivo quello di spronarli a tirare fuori termini migliori per descrivere l’istante nel quale si trovano. Credo sia di fondamentale importanza per far stabilire loro cosa sia vero e cosa non lo sia, cosa ci sia nella loro evoluzione, quali immagini di se stessi vadano aggiornate e quali immagini possano essere archiviate perché ormai appartengono inesorabilmente al passato.

Credo sia una delle mie grandi prerogative: aiutarli a dare un nome, a dare un ‘volto’, se vogliamo, alle emozioni che stanno attraversando, cercando di farli riflettere sul fatto che quelle che usano per descriversi non sono solamente parole, prive di senso, ma che abbiano una fortissima valenza nel caratterizzare quello che è il loro sentire, nei confronti di loro stessi prima che con gli altri

Perché sono sempre più convinto di quanto la discrepanza tra come si raccontano e come si percepiscono sia legata spesso al disorientamento e al turbamento che provano. E perché dare un nome e un ‘volto’ a quello che si prova e, in ultima istanza, alle proprie emozioni, può essere il primo passo che permetta la condivisione e la comunicazione di quello che si sta provando, condivisione che può, di fatto, avvicinare genitori e figli e rendere meno marcata la differenza tra come si raccontano loro e come li raccontano i genitori.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il Piccolo Principe e la relazione terapeutica

landscape-1431634997-il-piccolo-principe-con-la-volpeChi di noi non ha letto il Piccolo Principe? Considerato, riduttivamente, uno dei testi fondamentali della letteratura per ragazzi, credo sia uno dei testi più complessi per la molteplicità dei punti di vista dal quale può essere colto. Letto per la prima volta a scuola, l’ho ripreso diverse volte nel corso degli anni, trovandoci sempre suggestioni diverse. Ho come l’impressione che il libro cresca insieme a me, che non sia statico e finito ma mi permetta, in spazi e tempi diversi, di cogliere riferimenti e muovermi tra suggestioni che nella lettura precedente non avevo colto. Tra le varie riletture diventavo (come ormai saprete!) psicologo specializzandomi, poi, in psicoterapia familiare. L’ho (per caso?) ripreso in mano qualche giorno fa per rileggerlo, curioso di capire cosa mi avrebbe comunicato in questa fase della vita. E, ovviamente, non sono stato deluso. Tralasciando la complessità dei riferimenti sempre presenti nel testo, la suggestione in questa lettura è stata nel rapporto tra il bambino e la volpe, associando la descrizione di questo rapporto, alla costruzione della relazione terapeutica.

In generale, in ogni relazione abbiamo l’incontro di due mondi che si incontrano. La peculiarità della relazione terapeutica è forse quella che quest’ultima ha (o dovrebbe avere!) come fine la maggiore coscienza di se stessi. La relazione terapeutica è particolare perché uno dei capisaldi è la non totale reciprocità nel rapporto, aspetto che la differenzia da un rapporto amicale. È una relazione nella quale dovrebbero svolgere un ruolo determinante diversi fattori: la capacità di costruire una relazione, l’accoglienza del terapeuta, la presenza di empatia, la mancanza di giudizio per le vicende del paziente, la pazienza, la responsabilità. E forse vi starete chiedendo: come si lega questo con la storia del Piccolo Principe? Proviamo a vederlo assieme.

Ad un certo punto nella storia, il piccolo principe incontra nel suo percorso una volpe (che poi diventa LA volpe, ma ci arriveremo…) e inizia un dialogo con l’animale. Inizialmente il piccolo principe chiede alla volpe di giocare con lui, ma la volpe gli risponde che non lo può fare perché non è addomesticata e, nella sua infinita saggezza istintuale, chiede al piccolo di addomesticarla. Il piccolo principe chiede alla volpe cosa significhi addomesticare. La volpe gli risponde che vuol dire creare dei legami. Spiegando ancora:

“Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremmo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”

Primo passo nella relazione è proprio quella dell’addomesticamento, la possibilità cioè di stabilire una relazione. La relazione terapeutica può essere basata, inizialmente, sul bisogno, sulla necessità. Da questo primo movimento può nascere, con costanza, fiducia e impegno, una relazione basata sull’importanza e non più esclusivamente sull’urgenza. Altro elemento presente in questo passo è l’unicità nella relazione, il momento nel quale si ha il passaggio dall’essere una volpe tra le volpi per diventare LA volpe con la quale si intrattiene un rapporto, un riconoscimento reciproco del ruolo che ognuno di noi assume per l’altro. Questo passaggio è necessario nel momento in cui, come dice la volpe, “non si conoscono le cose se non si addomesticano”, non si riesce a comprendere una realtà con le quali non si è riusciti a stabilire una relazione. L’addomesticamento è un processo a doppio senso, non interessa solo uno dei due membri, per quanto la relazione terapeutica sia apparentemente sbilanciata dal disvelamento su un lato (il paziente) e un disvelamento minore dall’altro (il terapeuta). Ma la creazione del legame è reciproca. Ed è unica. L’unicità nella/della relazione è un principio fondamentale. Il paziente è consapevole che ogni terapeuta veda altre persone, ma deve avere la sicurezza che al momento in cui noi siamo con lui, siamo totalmente presenti e centrati sulla relazione che in quel momento abbiamo nel rapporto con lui:

“(…) Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

La relazione ha la capacità di significare il nostro mondo. All’interno della relazione le cose acquistano un diverso valore e un campo di grano, che non ricordava nulla alla volpe, diventa significativo nel momento in cui viene associato al colore dei capelli del bimbo. È la relazione col piccolo principe a dare senso al grano. Così, nella relazione terapeutica, è la relazione stessa la base del cambiamento di senso del mondo del paziente

Uno degli aspetti più rilevanti per l’addomesticamento è sicuramente la pazienza:

Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”

L’avvicinamento è costante e graduale. La relazione, qualunque essa sia, è inizialmente fondata sulle parole. Ma da subito, ad un livello che non riusciamo neanche a capire e spiegare, possono intervenire fattori non legati esclusivamente alla comunicazione verbale. Sappiamo subito, a pelle, se una persona può piacerci oppure no. È un aspetto inconscio che nella relazione terapeutica è basato anche sulla fiducia, sull’empatia, sull’accoglienza, sulla mancanza di giudizio.  

Altro aspetto rilevante nello strutturare la relazione terapeutica è la costanza:

“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai ancora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”

Come accennato, la costanza è una parte rilevante nella strutturazione della relazione terapeutica. È necessario il rispetto di alcune regole nella costruzione della relazione, che all’inizio appaiono costrittive ma che strutturano la costruzione relazionale della stessa. È necessario prepararsi il cuore prima dell’incontro? Io credo di si, credo sia necessario ‘sintonizzare’ il proprio cuore con quello della persona che deve venire. E questo ha a che fare con l’unicità nella relazione terapeutica stessa:

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente,” disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora per me unica al mondo”.

Nessuna rosa/persona è uguale all’altra, e solo il suo addomesticamento, la costruzione di una relazione con essa, permette di dare un significato a quella rosa/persona.

Ma qual è il fine della relazione terapeutica? Io credo che l’obiettivo sia la costruzione di una maggiore consapevolezza della persona e la si può ottenere accompagnando la persona stessa nell’esplorazione del suo mondo interiore, l‘anima

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”

La costruzione del rapporto può avvenire anche in maniera non verbale, ma istintuale e inconscia, senza mediazione visiva o linguistica. Chiave di accesso per questo mondo è una delle doti fondamentali del terapeuta l’empatia, la capacità cioè di relazionarsi intimamente con l’altro, avvicinandosi al suo sentire, accogliendolo e comprendendolo, dando la possibilità all’altro di far emergere e condividere la sua realtà interiore.  

All’interno della relazione terapeutica altro spazio fondamentale è la responsabilità

Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa”  

Ho fatto mia questa frase. Mi sento pienamente responsabile, anche a distanza di tempo, delle rose che ho avuto la fortuna di incontrare in tutti questi anni di professione. Ho cercato di stabilire una connessione con ognuna di loro, addomesticandole e venendone addomesticato. 

Anche nella relazione terapeutica può arrivare, come in ogni relazione, il momento di separazione, un momento nel quale il cammino di due persone può portarle ad allontanarsi l’una dall’altra. È un momento importante, spesso etichettato come triste:

“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”.
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe…
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

Ci si può focalizzare su due momenti alla fine della relazione: il momento della perdita, il fatto che le cose ‘stiano finendo’, ma ci si può concentrare anche sulla gratitudine dell’incontro, sull’essersi trovati. Le persone tendono a focalizzare la loro attenzione sul primo aspetto, scordandosi di quanto ci si è arricchiti nell’incontro. Anche questo essenziale è invisibile agli occhi ed è il concetto stesso di perdita che altera l’idea dell’incontro. Non c’è perdita, né di relazione, né di tempo. D’altronde:

“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”

E se il tempo che abbiamo dedicato loro le ha rese così importanti non si comprende dove sia la perdita!

Poi soggiunse: 
“Và a riveder le rose. Capirai che la tua è unica al mondo” [1] 
E sono sempre più convinto che ognuna delle rose che ho (e mi hanno) addomesticato sia unica al mondo.

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Antoine De Saint-Exupéry (1949), Il Piccolo Principe, Bompiani, Milano pp. 91-98

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Come parlare della morte ai bambini (2)

come parlare della morte ai bambini 2La domanda, allora, sorge spontanea: chi proteggono i genitori con la scelta del silenzio? Abbiamo paura di parlare al bambino dei nostri sentimenti, abbiamo timore di mostrare la nostra fragilità. E soprattutto siamo impreparati a discutere – usando termini che i bambini possono comprendere – e a rispondere alla miriade di domande che hanno da porci.

Sono gli adulti i primi in difficoltà nell’esporre le loro emozioni. I genitori si sentono impreparati a discutere e a confrontarsi su tematiche così vaste. Sono gli adulti a sentirsi in difficoltà nell’immaginare quale tipo di termini possano meglio essere utili per condividere con il bambino l’esperienza della morte. Sono gli adulti che si sentono inadeguati ad avere una conversazione con un bambino su un tema così ostico. Sono gli adulti che sentono la difficoltà di fronteggiare i figli con le loro domande, i dubbi, le paure, le speranze. Quello che gli adulti non si dicono è, in realtà, abbastanza semplice: la morte mette in crisi ognuno di noi. Ci obbliga a riflettere sulla nostra vita e sul suo senso, sul nostro destino, sulle nostre scelte. È questo il confronto che cerchiamo di evitare. Quello con noi stessi, con i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre speranze. Quella serie di domande che un bambino, prima di imparare che di certe cose è sempre meglio non parlare, fa ai propri genitori con il desiderio di condividere queste emozioni

Come si può interrompere questa catena di silenzi? Una delle possibilità è quella di accogliere senza giudicare le manifestazioni del dolore: la rabbia, lo scoramento, la delusione, il pianto:

Piangere è uno sfogo utile. Spesso ciò che aiuta davvero è piangere con qualcuno per ricevere appoggio e contenimento affettivo. La condivisione affettuosa di un pianto intenso e non trattenuto è una premessa fondamentale. Essa veicola implicitamente un messaggio strutturante, che dovrà successivamente ed utilmente essere esplicitato: ‘Capisco la tua sofferenza, la trovo legittima, la tua sofferenza e anche la mia, insieme possiamo sostenerla. Il fatto che ci vogliamo bene è anche la risorsa con cui possiamo affrontare le paure, le ansie e le separazioni!’

Questo è un punto particolarmente importante. Il pianto potrebbe essere un momento di condivisione, un momento che accomuna le emozioni del bambino e del genitore, un momento nel quale ognuno può sentire accolto l’altro, ognuno coi propri mezzi. Accogliere e non giudicare o distrarre: frasi come ‘smetti di piangere’, ‘tanto piangere non serve a nulla’, ‘pensa ad altro’, torna a giocare’, ‘non ora’, sono frasi dette talvolta senza prestare troppa attenzione e che, invece di aiutare, possono far sentire soli e isolati. Non accolti appunto. E lascia la manifestazione del dolore incompiuta, incompleta e carente.

Tutti i genitori che mi chiedono cosa fare nel caso la morte entri nell’esperienza di vita di un bambino vengono invitati sul terreno della introspezione e della condivisione, convinto come sono che la cosa più utile sia parlare e con-dividere quello che si sta provando. Magari partendo da se stessi, da quello che si prova e da come ci si sente. Indubbiamente temo sia la scelta più ‘difficile’, più ardua da fare perché opposta a tutto quello che ci hanno insegnato, ma credo anche la più responsabile dal momento che permette di dare un senso, di significare un evento nella storia di vita del bimbo che, altrimenti, rimarrebbe inespresso e sospeso.

Per quanto dolorosa sia la perdita, i bambini non hanno bisogno di distrarsi, non hanno bisogno di pensare ad altro, non hanno bisogno di adulti per i quali quello ‘non è il momento adatto’. I bambini hanno un profondo bisogno di verità, hanno un profondo bisogno di adulti che si assumano la responsabilità di raccontare e condividere con loro questa verità, per quanto dolorosa sia anche per gli adulti

Parlare della morte ai bambini vuoi dire a prepararli a capire la realtà, aiutarli a crescere. Quando muore un nonno, una zia, un genitore, è indispensabile che la verità non venga taciuta o mascherata ai bambini. I bambini sono desiderosi di verità. Se al bambino non è permesso confrontarsi su questo tema cerca di comprenderlo da solo e a volte si crea delle fantasie assurde, il che è molto peggio dell’affrontare la dura realtà della morte. [1]

Verità, non bugie. Avete presente o vi è mai capitato (da genitori o da bambini) che alla morte di una animale domestico lo abbiate (o vi abbiano) semplicemente sostituito l’animale morto con un altro? L’intento è sempre lo stesso: cercare di non (far) vivere l’esperienza dolorosa della morte. Questa apparentemente innocua bugia è la rappresentazione di come affrontiamo la morte: sostituendo l’oggetto amato per non far soffrire. Se l’intento è comprensibile, non altrettanto comprensibili sono le conseguenze di questo gesto: insegniamo (o impariamo) che di alcune cose non si parla, che sono brutte, che sono da dimenticare. Vi invito a fare il contrario: fare una profonda dichiarazione di verità può essere doloroso, ma insegna una grande lezione: non c’è nulla che provo del quale mi debba sentire colpevole di parlare

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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Come parlare della morte ai bambini (1)

come parlare ai bambini della morteParlare di morte è difficile. All’interno della società che ha fatto dell’eterna giovinezza l’ideale più alto, anche solo nominare la sua nemesi mette in difficoltà. Quando ci troviamo ad affrontare l’argomento, stentiamo a trovare le parole adatte, oscillando tra frasi di circostanza e tentativi di rimozione. E sembra ancora più complicato parlare di un tema così complesso con bambini o con adolescenti. Come possiamo parlare di una cosa così dolorosa, così ineluttabile con persone che stanno appena iniziando a vivere la loro vita?

Eppure, per quanto non ci piaccia, è un’esperienza che entra a far parte della vita, spesso fin dalle prime battute. In terapia assisto a situazioni di questo tipo: genitori, peraltro molto premurosi e attenti alle esigenze dei loro figli, si trovano completamente in difficoltà e spiazzati riguardo al come affrontare un argomento così spinoso coi propri figli. La difficoltà è proporzionale al grado di vicinanza (parentale o emotiva) con la persona deceduta. ‘Non volevo farlo star male parlandogliene‘, mi ripetono spesso. Come se la persona cara potesse semplicemente svanire dalla vita o dai ricordi del bambino senza lasciare traccia. Naturalmente questo non è possibile e serve, allora, trovare un modo per condividere quello che avviene. Per farlo utilizzerò alcuni passi di un libro: trovate tutti i riferimenti bibliografici in fondo al post.

Partiamo da una prima considerazione: Gli adulti creano una rischiosa congiura del silenzio intorno al tema della morte. A volte si rimane in silenzio perché si è convinti che la psiche infantile non sia in grado di confrontarsi senza danni con un’esperienza di lutto. I bambini e gli adolescenti si trovano spesso nell’impossibilità di affrontare ed esprimere il lutto, perché non trovano negli adulti che li circondano e anche nella società stessa, un supporto educativo, psicologico ed emotivo adeguato alla perdita.

Questo punto è molto importante: gli adulti costruiscono una sorta di muro di silenzio intorno ai propri figli per non farli confrontare e per proteggerli da un tema doloroso. L’intento potrebbe essere lodevole, ma ogni muro ha una doppia valenza: se da un lato protegge, dall’altro isola. In questo caso, può proteggere da un dolore manifesto (ci sarebbe da chiedere chi protegga questo silenzio ma ci torneremo più avanti!) d’altro canto, però, isola profondamente il bambino che si trova a comprendere di dover gestire autonomamente i propri dubbi, i propri timori perché gli adulti intorno a lui non sembrano intenzionati a condividere con lui questo. Gli adulti utilizzano spesso questo meccanismo coi piccoli (non ne parlo=non esiste) ritenendo il silenzio una grande risorsa protettiva per i figli. In realtà spesso il silenzio genera mostri. Nel silenzio, nella mancanza di confronto, nell’impossibilità di condivisione, proliferano le paure che non possono essere espresse, e crescono dubbi che difficilmente vengono condivisi ma così imparano (e così riproporranno a loro volta da grandi), che di certe cose non si parla ed è meglio che ognuno le gestisca da solo

Andiamo avanti: Sovente i bambini rimangono esclusi dalle comunicazioni e dai rituali che accompagnano la morte di una persona amata. Tale esclusione riflette la grande difficoltà degli adulti nell’affrontare e nel condividere i sentimenti e le emozioni che seguono la perdita di una persona cara. Erroneamente pensiamo che i bambini debbano essere protetti dal tema della morte perché riteniamo che non possiedano gli strumenti psichici, intellettivi ed emotivi per poterlo sostenere. Crediamo che il dialogo con i nostri bambini arrechi loro un dolore insopportabile. Ma questo dialogo fa più male agli adulti, feriti ed impreparati ad affrontare un simile argomento, che non ai bambini desiderosi di verità e di condivisione. [1] 

I rituali funebri, qualsiasi essi siano e comunque vengano celebrati, hanno come scopo quello di sancire una chiusura, scrivere un nuovo capitolo relazionale tra la persona defunta e le persone legate a lui/lei. Anche per gli adulti ha un’alta valenza simbolica, perché permette ad un’esperienza così misteriosa e dolorosa di avere un senso, di essere ricompresa nella vita stessa delle persone che rimangono. Eppure capita che i genitori mi dicano di non aver fatto assistere i figli al funerale della persona amata. Pur comprendendo la difficoltà, temo che questa strategia ottenga in realtà risultati opposti a quelli sperati. Se l’intento, infatti, è quello di proteggere i propri figli, va presa anche in considerazione l’impossibilità, in caso di non partecipazione al rituale che viene celebrato, di salutare la persona amata. Non far partecipare i bambini a questo rito, non permette loro di chiudere l’esperienza di vita con quella persona. È come se l’evento rimanesse sospeso, non definito, aperto. Il bambino, che magari ha già sentito difficoltà a trovare persone con le quali condividere il dolore per la scomparsa della persona, si ritrova anche nell’impossibilità materiale di potergli dire addio e di poter, così, chiudere simbolicamente il percorso di vita con la persona deceduta

– Continua –

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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La persecuzione del bambino

violenza sui bambini

Tra i temi dei quali amo scrivere e occuparmi, una menzione particolare andrebbe fatta per i bambini e gli adolescenti. Il lavoro in loro compagnia è fonte di continue scoperte ed è spesso grazie all’incontro con le loro esigenze che le mie opinioni si affinano e migliorano.

Non sempre è stato così e, soprattutto all’inizio, mi sono trovato imprigionato all’interno di un’ideologia ‘adultocentrica’ che mi ha messo in difficoltà rispetto al confronto con i bambini e con i ragazzi. Rimuovendo tutto ciò che siamo stati e tutto ciò che abbiamo subito da bambini, una volta cresciuti costruiamo un modo di pensare che colloca l’adulto in una posizione privilegiata: questo ostacola la comunicazione e l’ascolto e fa si che idee quali superiorità, durezza, insensibilità, violenza, maltrattamento e costrizione si frappongano all’ascolto aperto e autentico della loro verità.

In questo senso, mi ha impressionato il libro dal quale ho tratto il brano che vi riporto. Scritto da Alice Miller, psicologa e psicoterapeuta svizzera, la quale si occupò, in quasi tutte le sue opere, della relazione tra i maltrattamenti subiti da bambini e i successivi maltrattamenti inflitti, una volta che questi bambini sono diventati adulti, alla generazione successiva. Nei suoi scritti la Miller arrivò a criticare pesantemente la psicoanalisi freudiana che, secondo l’autrice, costituisce un’ulteriore rimozione rispetto alle violenze subite dai bimbi in nome di alti principi come l’educazione. Il brano, riportato integramente, è tratto dall’opera La persecuzione del bambino (trovate tutti i riferimenti bibliografici alla fine del post) e costituisce una sorta di manifesto del processo che, partendo dall’infanzia, fa di ognuno di noi le vittime delle coercizioni subite da bambini che si perpetuano una volta che quel bambino sia diventato, a sua volta, adulto. Solo partendo da questa consapevolezza è possibile avvicinare, guardando con occhi diversi, il mondo dell’infanzia di oggi. Personalmente, soprattutto nel mio lavoro, reputo questa attenzione e questa consapevolezza la rappresentazione di ciò che un terapeuta attento dovrebbe avere in mente nel momento in cui ha la fortuna di lavorare con un bambino o con un ragazzo:

1) Ogni bambino viene al mondo per crescere, svilupparsi, vivere, amare ed esprimere i propri bisogni e sentimenti, allo scopo di meglio tutelare la propria persona.

2) Per potersi sviluppare armoniosamente, il bambino ha bisogno di ricevere attenzione e protezione da parte di adulti che lo prendano sul serio, gli vogliano bene e lo aiutino onestamente a orientarsi nella vita.

3) Nel caso in cui questi bisogni vitali del bambino vengano frustrati, egli viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti, picchiato, punito, maltrattato, manipolato, trascurato, ingannato, senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone di tali violenze. In tale modo l’integrità del bambino viene lesa in maniera irreparabile.

4) La normale reazione a tali lesioni dell’integrità sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che è stato fatto.

5) I sentimenti di ira, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi dallo sfondo che li aveva motivati – continuano tuttavia a esprimersi in atti distruttivi rivolte contro gli altri (criminalità e stermini) o contro se stessi (tossicomania, alcolismo, prostituzione, disturbi psichici, suicidio).

6) Vittime di tali atti vendicativi sono assai spesso i propri figli, che hanno la funzione di capri espiatori e la cui persecuzione è ancora sempre pienamente legittimata nella nostra società, anzi gode persino di alta considerazione, non appena si autodefinisca ‘educazione’. Il tragico è che si picchiano i propri figli per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori.

7) Perché un bambino maltrattato non divenga un delinquente o un malato mentale, è necessario che egli, perlomeno una volta nella vita, incontri una persona la quale sappia per certo che ‘deviante’ non è il bambino picchiato e smarrito, bensì l’ambiente che lo circonda. La consapevolezza o l’ignoranza della società aiutano, in tal senso, a salvare una vita o contribuiscono a distruggerla. Di qui la grande opportunità che viene offerta a parenti, avvocati, giudici, medici e assistenti sociali di stare, senza mezzi termini, dalla parte del bambino e di dargli la loro fiducia.

8) Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime. Nel suo accecamento, essa si appoggiava a teorie che, corrispondendo ancora interamente al modello educativo dei nostri nonni, vedevano nel bambino una creatura astuta, un essere dominato da impulsi malvagi, che racconta storie non vere e critica i poveri genitori innocenti, oppure li desidera sessualmente. In realtà, invece, non v’è bambino che non sia pronto ad addossarsi lui stesso la colpa della crudeltà dei genitori, al fine di scaricare da loro, che egli continua pur sempre ad amare, ogni responsabilità.

9) Solo da alcuni anni, grazie all’impiego di nuovi metodi terapeutici, si può dimostrare che le esperienze traumatiche rimosse nell’infanzia vengono immagazzinate nella memoria corporea e che esse, rimaste a livello inconscio, continuano a esercitare la loro influenza sulla vita dell’individuo ormai adulto. I rilevamenti elettronici compiuti sul feto hanno inoltre rivelato una realtà che finora non era stata percepita dalla maggior parte degli adulti: e cioè che sin dai primi attimi di vita il bambino è in grado di recepire e di apprendere atteggiamenti sia di tenerezza che di crudeltà.

10) Grazie a queste nuove conoscenze, ogni comportamento assurdo rivela la sua logica sino a quel momento nascosta, non appena l’esperienza traumatica subita nell’infanzia non debbano più rimanere nell’ombra.

11) L’aver acquisito sensibilità per le crudeltà commesse verso i bambini, che sinora venivano generalmente negate, e per le loro conseguenze arresterà il riprodursi della violenza di generazione in generazione.

12) Individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità, e a cui è stato consentito di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da parte dei loro genitori, da giovani e anche in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a se stessi né addirittura di uccidere. Useranno il proprio potere per difendersi, e non per aggredire gli altri. Non potranno fare a meno di rispettare e proteggere più deboli, ossia anche i propri figli, dal momento che essi stessi, un tempo, hanno compiuto tale esperienza, e dal momento che fin dall’inizio in loro è stato memorizzato proprio questo sapere (e non la crudeltà). Questi individui non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi nel passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non consisterà più nel difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.[1]

 

 Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Miller, A., La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pag. XII e seg.

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Educhiamoci ad educare

educazioneCi siamo occupati altre volte di cosa voglia dire educare: educare, secondo la definizione comune, è dato da quella serie di attività che servono e sono finalizzate a favorire lo sviluppo di una persona. Questa definizione è molto generica, dal momento che mette l’accento sulle attività consapevoli che vengono svolte per educare un individuo, ma non tiene conto della molteplicità di attività che sono educative senza che l’educatore ne sia consapevole. Il modo in cui mi comporto è educativo, perché funge da esempio, da paradigma al quale l’altro può rifarsi prendendolo a modello, ed è un modello educativo espresso spesso senza che, appunto, se ne sia consapevoli.

Nell’immagine comune del termine poi, è sempre l’adulto che educa il minore. Quasi mai viene preso in considerazione come un minore possa educare un adulto e anzi sembra una sorta di controsenso considerare che un minore possa farlo. Diversi altri aspetti dovrebbero essere presi in considerazione in una riflessione su cosa significhi educare: uno dei più rilevanti riguarda il fatto che nella relazione educativa è implicita una condizione di disparità tra chi educa (e sa) e chi deve essere educato (e non sa). L’educatore, soprattutto se il suo ruolo è riconosciuto e accettato a livello sociale, ha più potere di chi viene educato, e spesso si serve di questo potere nell’atto stesso di educare. Interessanti, a mio avviso, i passaggi che vi riporto:

Prima riflessione: chi educa rischia perché nella relazione educativa mette a confronto due soggetti, che non hanno una posizione paritaria: ce n’è uno più forte ed uno più debole e c’è sempre il rischio che il soggetto che ha più esperienza, più competenza, più capacità di parola sia tentato di usare questo potere non per far crescere il soggetto più inesperto e più facile, ma per approfittarne. È un rischio che si ritrova nella relazione educativa, nella relazione parentale, nella stessa relazione terapeutica: in queste situazioni si struttura un piano inclinato, dove il rischio è la distorsione strumentale della relazione a fini di potere da parte del soggetto più forte. Chi educa rischia, perché c’è sempre la tentazione da parte del genitore, dell’educatore, il terapeuta stesso di utilizzare la relazione interpersonale Per sostenere le proprie difese e imporre in qualche modo i propri bisogni.

Credo sia necessario prestare particolare attenzione a questo potere ed esserne consapevoli dal momento che, se non riconosciuto, può portare, nella relazione educativa, verso l’imposizione piuttosto che verso la proposizione di un modello. Anche nella relazione terapeutica questo rischio è particolarmente forte e rischia di far deragliare la relazione stessa nel momento in cui il terapeuta invece di sollecitare l’autonomia e le risorse del paziente, si sostituisce a lui con suggerimenti e consigli, perché ‘sa che cosa sia giusto fare’.

Seconda riflessione: chi educa rischia e chi non rischia non educa. Il rischio inevitabile, necessario che non si può eludere nella relazione educativa è quello di avvicinarsi alle emozioni. Non educa chi non vuole rischiare di mettere in discussione la propria immagine narcisistica di soggetto razionale, sempre è comunque capace di controllare le emozioni e le situazioni. Non educa che non scende dal piedistallo della propria competenza educativa auto rassicurante, raggiunta presunta mente una volta per tutte. Non educa chi evita di avvicinarsi al mondo fluido, sofferto, conflittuale delle emozioni. Non educa chi non è disponibile a sviluppare l’intelligenza emotiva, l’intelligenza del cuore.[1]

Questo secondo punto è facilmente fraintendibile. Se è vero che chi educa rischia e chi non rischia non educa, nel senso che chi educa deve mettere in gioco se stesso, è altrettanto vero che spesso chi educa cerca di non rischiare per niente perché si difende, dall’alto della sua posizione privilegiata di potere, dal mettersi in gioco, dal condividere, dal rendere la relazione più paritaria e non basata sostanzialmente sul gioco di potere nascosto per cui tu fai ciò che dico io perché io so che cosa sia giusto per te. Se questo non avviene è lecito ricorrere a qualunque strumento per ottenere i risultati voluti. L’incognita è che ciò sfoci nell’autoritarismo, rischio al quale ci si può opporre coltivando l’autorevolezza. Diverso è infatti essere autoritari, fare leva sulla forza o sul proprio potere per imporre la propria volontà, tutt’altra cosa è essere autorevoli, avere cioè un’autorità educativa riconosciuta per le proprie capacità e non per la propria forza. Nel primo caso è necessario fare qualcosa (farsi obbedire, sgridare, punire…) nel secondo, ben più difficile, è necessario essere (essere coerenti, credibili, contenitivi…).

La differenza come sempre la costruiamo noi. Sono sempre più convinto che educare sia fornire un esempio, coerente e centrato a partire da quello che siamo. Questo non vuol dire non dover porre delle regole o non farle rispettare. Significa non ritenersi  dei dispensatori di regole ma cercare di partecipare attivamente alla costruzione della relazione con l’altro.

E, soprattutto, iniziare a non ritenere che il processo educativo sia a senso unico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2012, pag. 74.

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Conosci te stesso (per conoscere gli altri!)

guardare se stessiC’è in realtà un solo modo per ‘capire’ il mondo complesso di impulsi e simboli; si deve guardare in se stessi. Solo quando sappiamo veramente identificare un certo impulso basilare in noi stessi siamo sicuri che esiste. Solo quel punto diventa reale; fino ad allora era soltanto un buon concetto o teoria, di ben poca utilità. Credo che la formula funzioni anche all’inverso: se non riusciamo a trovarlo in noi stessi, esso non esiste a fini pratici. Se non siamo mai stati in grado di identificare e affrontare i nostri impulsi omicidi, non saremo realmente capaci di credere che esistono, comunque non nelle persone ‘normali’. Quindi, per definizione, chiunque ammetta di avere impulsi del genere sarebbe anormale secondo le tue norme interiori nascoste.

Io credo nell’esatto opposto; credo che parte della condizione umana sia l’avere una ricca e spumeggiante vita interiore di impulsi. Tutti abbiamo pulsioni omicide, tutti lottiamo con impulsi suicidi, tutti abbiamo fantasie incestuose, tutti siamo terrificati dal concetto di morte. Non riuscire ad affrontare questi semplici fatti della vita significa tagliar fuori buona parte della nostra umanità.

La consapevolezza del nostro mondo di pulsioni è in effetti il requisito essenziale alla nostra capacità di vedere, e ancora di più di capire, il mondo simbolico degli altri. Nella misura in cui possiamo affrontare le molteplici manifestazioni simboliche dei nostri stessi impulsi saremo liberi di utilizzare questa capacità nei rapporti con gli altri. [1]

La citazione è di uno degli autori più interessanti che ho avuto modo di leggere in questi anni. Carl Whitaker, psicoterapeuta statunitense, pioniere della terapia familiare, sostiene quella che per me, dopo tanto lavoro personale, è diventata una realtà effettiva: solo partendo da noi stessi possiamo arrivare a comprendere gli altri. Il modo unico per arrivare alla realtà simbolica degli altri è quello di partire dalla propria. Solo quando posso fare i conti con la verità dei miei impulsi, solo quando riesco a comprendere e ad accogliere la verità della mia paura della morte, solo quando posso vedere ed accogliere quelle che sono le mie realtà personali più reconditi e spaventose, posso pensare di conoscere, comprendere e accogliere queste verità nell’altro.

Non riconoscerlo in sè stessi significa tagliare fuori la possibilità di contatto e di comprensione dell’altro. Un lavoro di integrazione non parte dall’accoglienza dell’altro, parte dall’accoglienza di noi stessi, delle nostre verità, anche quelle più scabrose e che ci spaventano di più. Il punto di vista sostenuto da Whitaker è sostanzialmente focalizzato sulla realtà della terapia, ma credo sia estendibile alla considerazione di qualsiasi rapporto umano. Se manca il contatto e l’accoglienza di queste emozioni, di questi pensieri in noi, difficilmente potremmo contattare le stesse emozioni e gli stessi pensieri nell’altro.

Arriva da me Angela, una ragazza di 16 anni che ha una fortissima paura del rifiuto degli altri e di essere scartata nel rapporto con i suoi coetanei. Ragazza modello fino all’età di 12 anni inizia con l’adolescenza, come in tante altre storie, a fare cose apparentemente inconciliabili con il suo essere brava ragazza: utilizza droghe di vario tipo, frequenta compagnie poco raccomandabili e questo è il motivo della richiesta di terapia. Qual è il primo passo da compiere per comprendere le ragioni di Angela? Credo che il punto sia partire da se stessi, contattare la propria parte interna nella quale ha dominato la paura dell’esclusione, la paura di non essere accettato, la paura di discostarsi dalle attese degli adulti che mi hanno circondato quando ero adolescente. Non avendo questo passaggio, come avrei potuto capire comprendere ed accogliere quella che è la paura di Angela?

In caso contrario, il pericolo è precipitare nel giudizio aprioristico, arrivare cioè a giudicare quelle che sono le scelte e le difese (ma ovviamente giudicare anche le proprie difese e le proprie resistenze) che l’altro tenta di mettere in campo per affrontare la vita. Una maggiore conoscenza di sé stessi non può che aiutare una facilitazione di contatto con gli altri. 

Questo discorso è focalizzato sulle modalità di incontro in terapia, ma sono convinto possa essere applicato all’accoglienza di qualsiasi rapporto umano. Il giudizio sull’altro può essere sconfitto proprio con un maggiore contatto di se stessi, con una maggiore vicinanza e ascolto di noi stessi e delle nostre emozioni più profonde e spaventose. Questo è il contatto che permette il contatto con le stesse emozioni dell’altro, assottigliando così il peso che il giudizio può avere sull’ascolto e l’accoglienza.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Danzando con la famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 63

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Storie di ordinaria sofferenza

Storie di ordinaria sofferenzaUn giorno come tanti, in studio. Il penultimo appuntamento di un martedì è con un ragazzo nuovo. Lo chiameremo Luca.

Luca, per quanto odi questo termine, è un ‘normale’ ragazzo di 12 anni. Va bene a scuola, fa sport, è integrato nel gruppo dei suoi amici. Apparentemente non ha nulla di cui parlare e, perlomeno nei primi istanti, mi chiedo cosa ci faccia li con me. Avverto un non detto, una paura che aleggia sopra la normalità della sua vita di dodicenne. Mi  racconta tante cose, è aperto e si fida della mia curiosità, mi racconta delle sue passioni, mi introduce ai suoi sentimenti. Come se stesse entrando in un territorio minato, avverto il cambio di clima emotivo e, mentre inizia a parlare del fratello spiazzandomi, come solo gli adolescenti riescono, inizia a piangere.

Piange molto, piange lacrime amare che cerca di nascondere. Piange e io non so che fare. Non riesco a capire cosa lo abbia fatto piangere, non riesco a capire che cosa lo stia spaventando tanto, non riesco a capire cosa stiano esprimendo quelle lacrime. Non so se fermarmi o se chiedergli cosa non vada, se interpreterà meglio il mio silenzio o le mie parole. Alla fine è lui a spezzare il momento. Sempre continuando a piangere, mi dice che è così triste perché una persona ha apostrofato suo fratello col termine ‘frocio’. Ci sta male, soffre per la cattiveria delle persone e sente di non essere in grado di proteggere il fratello dall’insensibilità altrui.

Mi trovo subito a pensare cosa fare. Cercare di fargli capire quanto le persone a volte siano insensibili e non si accorgano di quanto possano fare male? Cercare di fargli comprendere quello che sente? Il mio voler fare non mi permette bene di accorgermi di ciò a cui sto assistendo: il mio spiazzamento di fronte alla bellezza, alla pulizia dei sentimenti di un ragazzo che piange per il modo ignobile in cui viene apostrofato il fratello. Mi inorgoglisce pensare di avere a che fare con una persona così bella. Penso che se ci fossero tante persone così, il mondo sarebbe un posto migliore, le persone baderebbero di più a non ferirsi. La verità è che mi emoziona. Mi emoziona profondamente. Mi fa, per l’ennesima volta, amare profondamente quello che faccio, mi fa amare il mio privilegio di poter assistere, spesso nascosta dietro alla sofferenza e alle lacrime, alla bellezza delle persone. Mi emoziona profondamente poter pensare al grande insegnamento che, magari del tutto inconsapevolmente, questo ragazzo mi sta dando. Mi emoziona profondamente la sensibilità con la quale riesce ad aprirsi davanti ad uno sconosciuto e comunicare in un solo istante le paure che prova. Mi emoziona e lo ringrazio per questo.

Sono convinto che condividere un disagio di questo tipo sia profondamente terapeutico, perché diamo la possibilità a noi stessi di far emergere i sentimenti che temiamo e che non sappiamo come gestire. Ed è profondamente terapeutico trovare una persona che non rimane indifferente a ciò che ti ferisce.

Di un’altra cosa sono convinto: di quanto profondamente mi rattristi che un ragazzo debba piangere perché le persone non accettino che il fratello potrebbe essere omosessuale. Per l’ignoranza che ancora circonda le scelte di vita che una persona può (o può non) fare. Per la superficialità con la quale le persone spesso feriscono. Non ho soluzioni per quello che mi racconta, non posso prepararlo a proteggere meglio il fratello di quanto non faccia, ne a cambiare le persone. Posso solo invitarlo a comunicare quello che prova, in primis al fratello stesso, lasciando che sappia che l’epiteto che gli rivolgono lo colpisce molto, gli provoca tutta una serie di emozioni. E che sappia che quello che prova o quello che deve subire il fratello non lascia tutti indifferenti.

A cominciare da me. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Legittimare le emozioni (2)

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La consapevolezza, funzione psichica capace di generare benessere e di sollecitare il cambiamento, può attivarsi se prevale un atteggiamento mentale di accettazione e, contestualmente, di rinuncia al controllo onnipotente della realtà. Fintanto che un soggetto si tormenta con proposizioni del tipo: ‘Avrei potuto, avrei dovuto…’, ‘Avrebbe potuto, avrebbe dovuto…’, finisce per disperdere energie preziose in vissuti logoranti di colpa, di depressione o piuttosto di rabbia, energie sicuramente sottratte a quell’impegno di consapevolezza, massimamente utile per affrontare i problemi e le difficoltà dell’esistenza. La consapevolezza delle emozioni può iniziare quando cessa il combattimento finalizzato al tentativo di eliminare vuoi le emozioni sgradite, vuoi la realtà che le ha generate ed inizia la processazione dei dati emotivi, così come possono essere rilevati nella loro specificità e nella loro autenticità. Non c’è consapevolezza se non c’è rinuncia al dominio, cioè se non lasciamo andare la pretesa di controllare tutto.

Il nostro atteggiamento è spesso, invece, improntato al controllo, alla valutazione, al giudizio che ci portano lontani dalla consapevolezza e ci avvicinano a reazioni come l’impotenza, la rabbia o la tristezza. La frustrazione è doppia perché da un lato non riusciamo nell’intento di controllare quello che proviamo, dall’altro, non essendoci potuti soffermare a capire cosa fosse quello che stavamo vivendo, aumenta il nostro senso di estraneità per noi stessi, di non conoscerci a fondo di non sapere neanche noi chi siamo. Come può questo sentire farci stare bene? Come può condurci ad una conoscenza migliore di noi stessi? Qual è il modo attraverso il quale superare questo cortocircuito tra ragione ed emozioni, questa sorta di impasse interno a noi stessi? Il primo passaggio riguarda l’accettazione di quello che proviamo, cercando di far stare fuori il giudizio, metro razionale che tentiamo di applicare alla realtà emotiva: 

Per elaborare le emozioni occorre accettarle innanzitutto così come si manifestano nella nostra mente prima di cercare di elaborarle. Nel momento in cui la consapevolezza accetta le emozioni, anche le più stressanti, le circoscrive ed in qualche misura la fa evolvere. Nominare la confusione per esempio può essere il primo organizzatore mentale e linguistico della confusione stessa, l’avvio di un percorso per fare emergere un qualche elemento di chiarezza dal caos. Nel momento in cui non pretendo di dominare o manipolare queste emozioni, bensì tento di riconoscerle e di pensarle, per ciò stesso si rinforza un area della mente che riduce il rischio del sequestro emozionale: prendo atto che in me c’è rabbia o c’è tristezza, ma non c’è solo rabbia o tristezza, perché si attiva una funzione di consapevolezza che si rende conto della rabbia e della tristezza; mi accorgo che in me c’è ansia, ma non dilaga, perché c’è un’isola della mia mente dove si attiva la capacità di dare un nome all’ansia. [1]

Uno dei punti nodali sta proprio nella capacità di riconoscere e dare un nome a quello che proviamo perché questa capacità ci rende l’idea che nel momento in cui ci sia un sentimento avvertito come negativo, esista anche una sorta di contraltare dentro di noi che ci consente di capire come non siamo del tutto preda o in balia solamente di quella emozione. Se ci limitiamo a giudicarci (non sono adatto, non sono in grado di, non è normale provare questo,…) focalizziamo la nostra attenzione e la nostra consapevolezza solamente su come ci stia facendo stare male quello che proviamo, su come questo sentirci ci faccia stare male, ma non su cosa stiamo effettivamente provando. Se riuscissimo, invece, nel momento in cui proviamo un’emozione a riconoscerla, sentiremo che dentro di noi esiste un’area che riesce a non farsi travolgere dall’emozione stessa, un’area che la identifica e costituisce il primo passo perché quell’emozione sia riconosciuta e possa entrare a far parte della nostra stessa realtà psichica.

Non è sicuramente un processo facile, vanno scardinati una serie di automatismi censori e neganti che da sempre tentano di mettere a tacere la nostra realtà emotiva. Non è facile, dicevo, ma è un primo passo per portare luce su parti di noi stessi trascurate, nascoste e condannate, il mancato riconoscimento delle quali è spesso responsabile del nostro stare male.

 
Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54  

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