Legittimare le emozioni (1)

Legittimare le emozioni (1)Questo post è una riflessione sul peso che le emozioni giocano nella nostra vita. Molto spesso questo peso è assolutamente sconosciuto o sottovalutato perché manca la consapevolezza dell’emozione stessa. Può sembrare un gioco di parole, ma viviamo profondamente all’oscuro di quello che sentiamo nel più profondo di noi e, anzi, quando avvertiamo che quello che stiamo provando non è ‘consono’, facciamo di tutto per metterlo a tacere e nasconderlo agli altri ma sopratutto a noi stessi, rendendo ancora più difficile identificare e capire quale sia l’emozione che proviamo in quel preciso istante. Questa sorta di automatismo censore è  molto rischioso, perché ci porta a non conoscere la nostra stessa realtà emotiva. Per contrastare questa tendenza dovremmo, invece, fare il processo inverso: portare consapevolezza nel nostro vissuto emotivo, di modo da agevolare la conoscenza del nostro mondo interno e legittimarne il peso nella nostra vita. Questo processo non è scontato, anzi bisogna prestare particolare attenzione a quello che succede. La prima domanda da porsi credo sia proprio la più diretta: come si legittimano le emozioni? Il primo passaggio è sicuramente quello di riconoscere l’emozione stessa:

L’autoconsapevolezza è la capacità di legittimare, di battezzare le emozioni dopo che sono venute al mondo (psichico), per tentare di capirne il senso e le cause al fine di poterle padroneggiare e gestire. Nella comunità tradizionale battezzare e dare un nome a un bambino significava accoglierlo nella comunità sociale, accettarlo come portatore di una dignità, di un qualche diritto: ‘anche lui è un cristiano!’. Analogamente dare un nome alle emozioni significa poterle accettare come portatrici di una dignità psicologica, di una capacità informativa e segnaletica. Dal momento che un’emozione intensa è nata, è comparsa nella mente, vale la pena che venga riconosciuta. Un tempo un figlio illegittimo, che nasceva di fuori del matrimonio e non riceveva il cognome paterno, non possedeva diritti. Analogamente un’emozione rilevante che è entrata nello psichismo e non risulta pensabile e nominabile, diventa priva di diritti e non ha possibilità di comunicare alla mente del soggetto le informazioni di cui è portatrice

Il passo riportato, come tutti i successivi, è tratto dal testo di Claudio Foti del quale trovate i riferimenti bibliografici in basso. Colpisce in questo passaggio il parallelismo tra il battesimo e la consapevolezza: così come il battesimo sancisce l’ufficialità dell’ingresso del bambino nella comunità cristiana, allo stesso modo il riconoscimento e la consapevolezza rende possibile che le nostre emozioni entrino all’interno della nostra autocoscienza. L’autoconsapevolezza passa necessariamente per riconoscere e dare un nome, ‘battezzare’ appunto, le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, di modo che abbiano la possibilità di essere integrate in noi. 

L’autoconsapevolezza emotiva, che costituisce il primo principio dell’intelligenza emotiva, è la capacità di ascoltare e dirigere l’orchestra: è la capacità di riconoscere, pensare e nominare i vissuti emotivi che si ritrovano nella mente del soggetto, che spesso entrano velocemente ed imprevedibilmente nel suo campo mentale, che talvolta vi ristagnano oppure fluiscono oppure ancora si scontrano o si accavallano e che in ogni caso non sono autogenerati dalla volontà del soggetto. Mentre la logica del controllo onnipotente persegue l’eliminazione, il soffocamento o il camuffamento delle emozioni giudicate non consone e non opportune, il controllo delle emozioni a cui  possiamo realisticamente pervenire non è immediato, è per così dire un controllo in seconda battuta: non possiamo pretendere un controllo in prima battuta, cioè che le emozioni sgradite vengano immediatamente cancellate o non entrino affatto nella nostra mente. È più realistico e sano imparare a confrontarsi con le emozioni che sono già entrate nel nostro campo mentale e ad impegnarsi a riconoscerle, a dialogare con esse, a gestirle, per evitare che esse siano capaci di sequestrarci. [1]

Spesso non riusciamo invece a riconoscere o a dare un nome a queste emozioni proprio perché ne siamo spaventati o perché non le consideriamo consone al nostro stato. Questo ci porta a negarle, a volerle controllare, a volerle reprimere proprio perché non ci piace come ci fanno stare, come ci fanno sentire, e faremmo di tutto pur di levarle dalla nostra esperienza, faremmo di tutto pur di non sentire quello che stiamo sentendo e provare ciò che stiamo provando.

Il problema fondamentale è che qualunque tipo di controllo è un controllo ex post, a posteriori, quando ormai abbiamo già fatto esperienza di ciò che abbiamo vissuto. Per sua stessa natura, il mondo delle emozioni non è dominabile dalla ragione, questo può avvenire (apparentemente) solo dopo che abbiamo provato l’emozione. Subito dopo la ragione può intervenire per cercare di riportare ‘l’irrazionalità emotiva’ all’interno delle briglie razionali, e possibilmente censurarlo o negarlo, ma il vissuto sarà stato già incamerato senza che neanche sia stato possibile capire cosa sia successo, o cosa abbia causato la nascita di quell’emozione. Questo non permette il riconoscimento, il battesimo di cui parlavamo prima, e fa si che lo stato provato rimanga incompiuto e sconosciuto nell’animo della persona che l’ha provato. 

– Continua – 
[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54 
 
 
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Come avere figli educati?

Come avere figli educatiIl post di oggi riporta un articolo del Corriere della Sera che cerca di individuare quale sia la strategia migliore per avere figli più educati: è meglio premiarli o sgridarli? Meglio metterli in punizione o lodare il comportamento corretto? Non è una differenza di poco conto se ci si pensa, perché il metodo educativo basato sulle punizioni si basa sull’intimorire il bimbo sulla reazione al comportamento sbagliato, mentre elogiare un comportamento corretto fa leva sul rinforzo positivo ad un comportamento ‘buono’. Nell’articolo si propende per il privilegiare l’elogio piuttosto che la punizione. Questa tendenza viene chiamata «terapia di interazione tra genitori e figli» ma, più semplicemente, è la tendenza, propugnata da una parte degli psicologi infantili, ad accantonare le punizioni (per lo meno quelle troppo drastiche) e a privilegiare elogi e abbracci. In pratica, l’imperativo per i genitori è: non fissatevi sui comportamenti ‘cattivi’ ma valorizzate quelli ‘buoni’

Secondo lo psicologo Timothy Verduin, docente di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università di New York, sarebbe meglio che questi elogi venissero accompagnati da manifestazioni fisiche di affetto (una carezza, un abbraccio…) che avrebbero lo scopo di accompagnare e rinsaldare il legame tra genitori e figli. Questa è la ricetta per avere figli educati? In realtà, l’articolo riporta quelle che sono le ‘evidenze empiriche’ di ogni genitore: a volte semplicemente parlare non serve a molto, sopratutto se il bambino è piccolo. Cercare di far comprendere solo col dialogo a volte non sembra dare i risultati sperati, e i genitori si trovano costretti ad alzare la voce. E’ un comportamento basato sulla punizione anche se stabilisce comunque una regola all’interno della famiglia e presuppone che sia contenitiva rispetto ad una totale assenza di regole o ad una liceità apparente per tutto. Le regole in qualche modo ordinano il mondo per quanto sembrino dolorose da rispettare. 

Per il rispetto delle regole stesse vale il principio che sarebbe meglio l’elogio piuttosto che la punizione. Come riportato nell’articolo, infatti, il castigo è un’arte, e molto difficile» spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. Che illustra il metodo: «Bisogna prima di tutto capire qual è la comunicazione implicita contenuta nella trasgressione della regola: nella violazione di un patto c’è sempre, nel bambino, una speranza di potersi affrancare, di crescere. Se capiamo questo suo desiderio e lo aiutiamo a realizzarlo non ripeterà il comportamento scorretto. E ancora: La sanzione non deve mortificare ma aiutare a crescere. Per esempio, se la trasgressione sta nel non apparecchiare la tavola, si potrebbe far frequentare al bimbo un corso di cucina, per sviluppare una competenza legata al cattivo comportamento». L’arte del castigo, insomma: «La punizione – nota Charmet – è un momento educativo molto alto: il bambino che trasgredisce non si aspetta di provare un dolore fisico o morale come conseguenza della sua azione, ma vuole vedere quale sarà la reazione degli adulti al suo superare i limiti fissati» Ecco perché il «buon» castigo conclude lo psicoterapeuta, «richiede tempo e astuzia». E non deve essere una sculacciata, «o un togliere ai figli i soldi, le uscite o l’uso del computer». Sì al castigo allora, ma con intelligenza.

L’aspetto importante è cercare di capire cosa il bambino sta cercando di comunicarci con il suo infrangere le regole. Non si tratta di cose molto lontane dalla realtà come si può vedere. Basta applicare buonsenso e giudizio. E cuore. Capisco che molti di voi potrebbero obiettare alla frequenza del corso di cucina, ma ci sono veramente tanti metodi per ottenere lo stesso risultato. Quello che posso suggerire è il coinvolgimento: una soluzione che veda coinvolti i genitori (per vicinanza, per spiegazione, per comprensione…) avrà risultati sicuramente più duraturi di una semplice punizione per privazione (‘non usi il pc, non usi più i giochi’, ecc.)

Intanto qui il link all’articolo:

L’articolo è di Giulia Ziino.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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