Questo post è una riflessione sul peso che le emozioni giocano nella nostra vita. Molto spesso questo peso è assolutamente sconosciuto o sottovalutato perché manca la consapevolezza dell’emozione stessa. Può sembrare un gioco di parole, ma viviamo profondamente all’oscuro di quello che sentiamo nel più profondo di noi e, anzi, quando avvertiamo che quello che stiamo provando non è ‘consono’, facciamo di tutto per metterlo a tacere e nasconderlo agli altri ma sopratutto a noi stessi, rendendo ancora più difficile identificare e capire quale sia l’emozione che proviamo in quel preciso istante. Questa sorta di automatismo censore è molto rischioso, perché ci porta a non conoscere la nostra stessa realtà emotiva. Per contrastare questa tendenza dovremmo, invece, fare il processo inverso: portare consapevolezza nel nostro vissuto emotivo, di modo da agevolare la conoscenza del nostro mondo interno e legittimarne il peso nella nostra vita. Questo processo non è scontato, anzi bisogna prestare particolare attenzione a quello che succede. La prima domanda da porsi credo sia proprio la più diretta: come si legittimano le emozioni? Il primo passaggio è sicuramente quello di riconoscere l’emozione stessa:
L’autoconsapevolezza è la capacità di legittimare, di battezzare le emozioni dopo che sono venute al mondo (psichico), per tentare di capirne il senso e le cause al fine di poterle padroneggiare e gestire. Nella comunità tradizionale battezzare e dare un nome a un bambino significava accoglierlo nella comunità sociale, accettarlo come portatore di una dignità, di un qualche diritto: ‘anche lui è un cristiano!’. Analogamente dare un nome alle emozioni significa poterle accettare come portatrici di una dignità psicologica, di una capacità informativa e segnaletica. Dal momento che un’emozione intensa è nata, è comparsa nella mente, vale la pena che venga riconosciuta. Un tempo un figlio illegittimo, che nasceva di fuori del matrimonio e non riceveva il cognome paterno, non possedeva diritti. Analogamente un’emozione rilevante che è entrata nello psichismo e non risulta pensabile e nominabile, diventa priva di diritti e non ha possibilità di comunicare alla mente del soggetto le informazioni di cui è portatrice.
Il passo riportato, come tutti i successivi, è tratto dal testo di Claudio Foti del quale trovate i riferimenti bibliografici in basso. Colpisce in questo passaggio il parallelismo tra il battesimo e la consapevolezza: così come il battesimo sancisce l’ufficialità dell’ingresso del bambino nella comunità cristiana, allo stesso modo il riconoscimento e la consapevolezza rende possibile che le nostre emozioni entrino all’interno della nostra autocoscienza. L’autoconsapevolezza passa necessariamente per riconoscere e dare un nome, ‘battezzare’ appunto, le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, di modo che abbiano la possibilità di essere integrate in noi.
L’autoconsapevolezza emotiva, che costituisce il primo principio dell’intelligenza emotiva, è la capacità di ascoltare e dirigere l’orchestra: è la capacità di riconoscere, pensare e nominare i vissuti emotivi che si ritrovano nella mente del soggetto, che spesso entrano velocemente ed imprevedibilmente nel suo campo mentale, che talvolta vi ristagnano oppure fluiscono oppure ancora si scontrano o si accavallano e che in ogni caso non sono autogenerati dalla volontà del soggetto. Mentre la logica del controllo onnipotente persegue l’eliminazione, il soffocamento o il camuffamento delle emozioni giudicate non consone e non opportune, il controllo delle emozioni a cui possiamo realisticamente pervenire non è immediato, è per così dire un controllo in seconda battuta: non possiamo pretendere un controllo in prima battuta, cioè che le emozioni sgradite vengano immediatamente cancellate o non entrino affatto nella nostra mente. È più realistico e sano imparare a confrontarsi con le emozioni che sono già entrate nel nostro campo mentale e ad impegnarsi a riconoscerle, a dialogare con esse, a gestirle, per evitare che esse siano capaci di sequestrarci. [1]
Spesso non riusciamo invece a riconoscere o a dare un nome a queste emozioni proprio perché ne siamo spaventati o perché non le consideriamo consone al nostro stato. Questo ci porta a negarle, a volerle controllare, a volerle reprimere proprio perché non ci piace come ci fanno stare, come ci fanno sentire, e faremmo di tutto pur di levarle dalla nostra esperienza, faremmo di tutto pur di non sentire quello che stiamo sentendo e provare ciò che stiamo provando.
Il problema fondamentale è che qualunque tipo di controllo è un controllo ex post, a posteriori, quando ormai abbiamo già fatto esperienza di ciò che abbiamo vissuto. Per sua stessa natura, il mondo delle emozioni non è dominabile dalla ragione, questo può avvenire (apparentemente) solo dopo che abbiamo provato l’emozione. Subito dopo la ragione può intervenire per cercare di riportare ‘l’irrazionalità emotiva’ all’interno delle briglie razionali, e possibilmente censurarlo o negarlo, ma il vissuto sarà stato già incamerato senza che neanche sia stato possibile capire cosa sia successo, o cosa abbia causato la nascita di quell’emozione. Questo non permette il riconoscimento, il battesimo di cui parlavamo prima, e fa si che lo stato provato rimanga incompiuto e sconosciuto nell’animo della persona che l’ha provato.