Il film del quale volevo parlarvi oggi si intitola Departures (2008). Il film, del regista Yojiro Takita, ha vinto il premio Oscar come migliore film straniero nel 2009. La trama è abbastanza semplice: dopo lo scioglimento dell’orchestra nella quale lavora, Daigo, il protagonista, è disoccupato. Decide, allora di tornare al suo paese d’origine. Va a vivere nella vecchia casa della madre assieme alla moglie Mika. Ovviamente Daigo deve cercare un lavoro che consenta loro di sopravvivere. Trova un annuncio interessante, che pensa riguardi un agenzia di viaggi, ma si accorge ben presto, che l’agenzia, che nel frattempo lo assume, si occupa si di viaggi, ma di viaggi particolari: l’ultimo viaggio. Come al solito non vi racconto altro per non svelarvi troppi dettagli. Aggiungo solo che, in Giappone, il rito della cura dei morti prima del viaggio finale (nokanshi) è una tradizione antichissima, svolta inizialmente da membri della famiglia del defunto e, in seguito, demandata ad agenzie specializzate.
Sullo sfondo di questo lavoro, decisamente particolare, si muovono i moltissimi significati che animano questo film e che ne fanno un film veramente toccante. La protagonista del film è, gioco forza, la morte declinata in varie sfaccettature. La più appariscente è quella fisica, ma non è l’unica. Si parla di morte delle passioni (il suonare il violoncello), di morte simbolica della famiglia (il padre del protagonista lascia la sua famiglia per stare con un’altra persona), di morte delle relazioni. La morte non è, però, solo la fine di tutto, così come spesso è intesa. Costituisce, invece, una fase di passaggio, di cambiamento. Di trasformazione. Spesso di incontro.
La cosa curiosa è che il protagonista del film non ha avuto, fino al momento in cui accetta il lavoro, alcuna esperienza con la morte. Racconterà, infatti, come non abbia assistito a quella dei nonni e neanche a quella della madre. Come si costruisce un immagine della morte nel momento in cui non la si conosce? E’ difficile nel momento in cui si maneggia una realtà con cui si ha così poca dimestichezza. Assistiamo così all’avvicinamento, dapprima con non pochi problemi (il primo ‘caso’ cui assiste non lascerà Daigo indifferente!), poi via via sempre più a suo agio con la preparazione del corpo del defunto. Questa preparazione è molto particolare e avviene con un rispetto e con una attenzione che spesso non si riscontra neanche nei rapporti tra vivi.
Il paradosso sembra essere quello per cui più Daigo si trova a stretto contatto con la morte, più questa sembra foriera di vita. Si inizia ad intravedere una vita sessuale con la moglie, che, apprenderemo poi, rimane incinta. La presenza della morte sembra, allora, legata non all’assenza quanto alla presenza. Si ritrova a riprendere a suonare anche il violoncello, a far così rinascere la sua grande passione. Questo riporta in vita (ancora paradosso?) i ricordi che lo legavano allo strumento da bambino.
Ma, come detto, la morte non è solo cambiamento. E’ disvelamento. Come se, alla fine dei giochi, non ci rimanesse altro che guardare in faccia noi stessi senza più finzioni. Senza più ipocrisie. In una delle scene più emblematiche, mentre si accingono a preparare il corpo di quella che apparentemente sembra una donna, si accorgono che, in realtà, è un uomo. La scena si dipana lungo il film, e ci fa intendere come non solo la persona sarà truccata infine da donna, ma che l’accettazione è possibile anche da parte di quelle persone (il padre) che più si erano opposte alla scelta del figlio in vita. Il disvelamento riguarda allora, non solo il morto ma anche le persone che gli stanno intorno. Coloro che solo nel momento della perdita (o della conquista?) del proprio caro riescono ad accettarlo nella maniera più incondizionata. Grazie alla morte. Grazie al cambiamento di prospettiva.
E ancora, le continue immagini allegoriche sul continuo scambio morte-vita, senza la quale sia l’una che l’altra non avrebbero senso: i cambi di stagione, con alternanze di paesaggi assolutamente invernali, apparentemente ‘morti’, a paesaggi primaverili pieni di fioriture e nascite. La scena nella quale osservano dei salmoni che risalgono la corrente per tornare nel luogo dove sono nati. I salmoni faticano, nuotano contro corrente, talvolta muoiono stremati per lo sforzo. E lo fanno solo per andare a morire nel luogo che li ha visti nascere. Perchè fanno tutta questa fatica se devono morire? Stiamo ancora parlando di salmoni? O di noi?
E così, in questo percorso di avvicinamento alla morte (e alla vita) anche chi non capiva e non accettava l’idea di un contatto così stretto con la morte, come la moglie, si trovano poi a dover guardare le cose da un’altra angolazione. E, nuovamente, la morte sembra un punto di incontro più che di separazione. Di vicinanza. Vicinanza che porta al reincontro di padre e figlio, di vita che continua e di vita che finisce, di consegne da portare avanti e comunicazioni in codice che riprendono dopo anni di apparente interruzione.
Insomma, un film che affronta, con una delicatezza e una levità esemplari, uno dei temi tabù per eccellenza. Per ridefinire il quale dovremmo, forse, ricordare una delle frasi del film:
la morte è un cancello da oltrepassare per proseguire il proprio viaggio.
A presto…
Fabrizio
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