Somewhere

SomewhereSempre a proposito della possibile vita di una star dietro lo scintillio che noi tutti vediamo, vi volevo segnalare un bel film sul tema. Il titolo è Somewhere (2010), della regista Sofia Coppola. Il film è stato insignito del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film racconta la storia di Johnny Marco, una stella del cinema, che vive in un hotel di Los angeles e del quale seguiamo, durante il film, parte della vita ed il viaggio in Italia per ritirare un premio. Credo sia un film emblematico sulla solitudine che circonda molte di queste persone che sembrano essere state baciate dalla fortuna di fare un lavoro che le rende popolari. Al netto del fatto di vivere in un meraviglioso albergo, guidare una meravigliosa macchina, essere riconosciuto dalle persone quando si sposta, quello che sembra caratterizzare la vita del protagonista è la costante solitudine o comunque la difficoltà di costruire un rapporto che si possa definire tale. In molte scene è sempre solo anche quando si circonda, o è circondato da moltissime persone. Oppure colpisce come in molte sequenze a farla da padrone sembra essere il silenzio, anche quando il protagonista si trova insieme ad altri. La rappresntazione è molto bella e credo miri al cercare di far scorgere come spesso, dietro vite ammirate da tutti ci sia una vita solitaria, fatta anche dal silenzio e dalla mancanza di contatti. Potreste forse obiettare che nella vita di tutti noi ci sono momenti di questo tipo. Naturalmente è così, ma tendiamo, complice la iperappresentazione che la vita di personaggi famosi hanno nella nostra quotidianità, a dimenticare questa ovvietà pensando che questo tipo di persone vivano una vita completamente altra rispetto alla nostra. Ed è su questo meccanismo che può basarsi la proiezione del quale parlavamo nel post …with somebody who loves me… (21.02.12). Ovviamente non credo che la vita di queste persone sia solo questo. Credo, però, che sia anche questo. E faremmo meglio a tenerlo in mente. Nel momento in cui possiamo vedere ed essere consapevoli che esista anche questo aspetto in vite con le quali faremo volentieri scambio, forse il lucicchio stesso potrà essere sostituito da uno sguardo più consapevole, più completo e più complesso sulle loro ma soprattutto sulle nostre vite.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Manderlay

ManderlayIl film che voglio raccontarvi in questo post è Manderlay (2005) del regista Lars Von Trier. Il film è ambientato negli Stati Uniti, cronologicamente negli anni Trenta, gli anni della Grande Depressione. La protagonista è Grace che, con il padre, arriva nella cittadina di Manderlay dove si accorge ben presto, che la schiavitù non è stata abolita e vige ancora. Grace decide di restare nonostante le pressioni delle persone con le quali è giunta per cercare di portare una idea più giusta di quella che dovrebbe essere la società. Il film si gioca essenzialmente su questo contrasto. Può una cosa ‘giusta’ per noi essere imposta comunque su una serie di regole che, per quanto accettate, appaiono ingiuste agli occhi di un estraneo? Sebbene l’innovazione possa essere positiva, non è forse un imposizione se dobbiamo costringere gli altri a seguirla? Sono interrogativi che mi affascinano nel momento in cui mi rendo conto che talvolta ‘fare del bene’ sia in realtà non solo una categoria di pensiero che imprigiona, ma anche una imposizione nei confronti dell’altro. Questo è un aspetto che spesso appare in terapia. Posso io, tentando di fare del bene, impormi su quello che è il volere, la vita dell’altro? Io, naturalmente, credo di no. Il film è abbastanza complesso e molto spiazzante. Per chi di voi non avesse mai visto un film di Von Trier, l’esperienza può essere abbastanza deludente. Non c’è set, tutti gli ambienti sono disegnati con poche linee in terra e caratterizzati da qualche oggetto. Il set ha una funzione puramente rappresentativa e simbolica. Non è vero e non vuole esserlo. Come se la veridicità di quello che viene rappresentato non avesse bisogno di ulteriori agghindamenti. Uno dei quesiti che dominano il film è, secondo me, quello sulla propria identità. Chi si può essere se non si è noi? Quanto ci vuole a ristrutturare la nostra immagine? Grace, ad un certo punto, riesce a liberarare gli schiavi e a farli essere dei cittadini liberi. Privati dell’immagine che hanno sempre avuto di se stessi, gli schiavi si trovano nel dilemma di dover decidere chi essere ora. Come se, ad un certo punto della nostra vita ci dicessero di cambiare nome. Ma io sono Fabrizio, come posso essere altro? I quesiti coinvolgono la riorganizzazione di tutta la loro esistenza. La regola era di mangiare alle sette. A che ora si cena adesso? La differenza riguarda anche la possibilità di potersi pensare come indipendenti rispetto ad una regola da rispettare. La libertà non è solo una conquista. E’ anche una grande assunzione di responsabilità. Responsabilità delle proprie scelte. Delle proprie vicende. Della propria vita. Non tutti vogliono prendersi questa responsabilità. Alcuni preferiscono che siano altri ad occuparsene. E allora, quanto il desiderio di liberarli è di Grace e quanto un reale desiderio degli schiavi? Come possiamo definirlo? Una liberazione? O un imposizione? E ancora l’imposizione come esistenza di regole. Chi semina il cotone se non c’è nessuno che lo impone? Questo anche se il frutto del lavoro è, questa volta, dedicato a loro. Come se non fosse possibile in alcun modo una nuova ristrutturazione di prospettiva. Se nessuno lo ordina non è possibile eseguire. Quando si può ordinare per se stessi? Questa impossibilità di cambio di prospettiva è perfettamente simboleggiata anche in un’altra scena del film: si parla di un albero che si trova nel giardino della signora che si occupava dell’ordine all’interno della piantagione. Nessuno pensa di tagliarlo perché l’albero è della signora e, anche se ormai è morta, nessuno può pensare di toccarlo. Come se fosse una cosa immutabile. L’albero è il simbolo dell’impossibilità di cambiamento. Nel momento in cui noi siamo prigionieri di queste regole, talvolta regole non scritte ma ben più forti di leggi codificate, non abbiamo la possibilità di essere liberi. E allora la schiavitù non è solo concreta, reale, storica, ma anche personale, interna, psicologica, tanto che si potrebbe parlare di una consolatoria tirannia della schiavitù. Schiavitù mentale. Si innesta allora il tema di quanto la schiavitù abbia vita facile nel momento in cui si innesta sulla schiavitù psichica. Non intendo certo, con questo, giustificare lo schiavismo perpetrato su milioni di persone quanto voler riflettere su quanto questo possa prolungarsi nel momento in cui si innesta su istanze personali.

Il vero capovolgimento di prospettiva si ha, però, quando apprendiamo che la ‘legge di Mam’, la donna che si occupava della piantagione, era stata scritta da uno degli schiavi insieme a Mam per tenere le cose così com’erano dopo la guerra di secessione. Il mondo non era pronto ad affrontare gli schiavi liberati. Lo schiavo che l’ha scritto dice che tutti alla fine lo sapevano e l’ha fatto per il bene di tutti. Dov’è allora il confine tra coloro che la schiavitù esercitano e coloro che la schiavitù interiorizzano? Forse la distinzione può non essere così netta come sembrava in un primo momento. Forse siamo tutti alternativamente schiavi e schiavisti. Vittime e carnefici. Grace, alla fin fine, cerca di imporre la democrazia. Viene allora spontaneo chiedersi: chi può scegliere per il bene dell’altro? Chi, anche mosso dalle migliori intenzioni, può presupporre cosa sia corretto per l’altro? Questa rivelazione fa assumere a tutto una nuova prospettiva e quello che sembrava imposto sembra ora benevolo, fatto più per proteggere che per intrappolare. Insomma un film complesso, con molti livelli di lettura (tra i quali neanche cito gli evidenti riferimenti all’esportazione della democrazia, ossimoro per indicare l’occupazione americana dell’Iraq), che vertono sulla costruzione di una propria identità e sul difficile rapporto con il cambiamento. Un film complesso ma assolutamente consigliato.

A presto…

 

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Mi chiamo Sam

Mi chiamo SamIl post di oggi riguarda un film che tocca il tema del ritardo mentale. Avrete capito, naturalmente, che mi riferisco al film Mi chiamo Sam (2001) del regista Jessie Nelson. Il film racconta la storia di Sam Dawson, un uomo sulla quarantina ma che ha le abilità mentali di un bambino di sette anni, come ci viene spesso ricordato nel film. Sam si trova costretto a crescere la figlia da solo dato che la madre della bimba fa perdere le sue tracce alla prima occasione che ha a disposizione. Sam viene aiutato in questo compito da una serie di figure come i suoi amici e una sua vicina di casa. La situazione precipita nel momento in cui si trova alle prese con il sistema giudiziario/legale che ne vuole una valutazione sulla affidabilità come genitore. Il tema del film è, fondamentalmente questo: può una persona con ritardo essere genitore? E, più in generale, c’è un’altra questione che attraversa il film: chi può stabilire se una persona sia adeguata a svolgere questa funzione? Lungi da me il voler fare un discorso generico sul fatto che l’amore vinca su ogni cosa. Il film vira troppo spesso su questo aspetto e, se posso, credo che questa sia una delle pecche del film. Talvolta questo eccessivo buonismo, spinge lo spettatore a caldeggiare un certo tipo di soluzione che, però, pecca talvolta di eccessiva ingenuità. Se dovesse, nella realtà, succedere qualcosa alla bambina ci stracceremmo le vesti gridando allo scandalo per dei servizi sociali mancanti. Vorrei spezzare una lancia in favore di coloro che lavorano nei servizi sociali, servizi per i quali l’attenzione per la situazione è tutto, di modo che si possa evitare un errore di sottostima piuttosto che di severità. Ecco, forse anche questo aspetto nel film è abbastanza trascurato dal momento che vi è un eccessiva polarizzazione tra i ‘buoni’ e i ‘cattivi’. Temo che questo tipo di semplificazione possa funzionare in un film ma difficilmente nella realtà. Vi starete chiedendo: ma se sto evidenziando tutti questi punti a sfavore perché vi segnalo questo film? Lasciando da parte le critiche di cui sopra, il film è interessante secondo me perché pone la questione su chi deve o dovrebbe essere genitore. Abbiamo due modelli nel film: Sam, del tutto implausibile secondo gli standard sociali, che invece svolge il suo ruolo con una dedizione, un’attenzione e una cura totali, e l’avvocato che Sam riesce ad ingaggiare, del tutto plausibile secondo gli standard sociali, eppure del tutto assente con il figlio, con il quale non riesce a parlare neanche per telefono, che non riesce ad ascoltare ne a vedere.

Chi è il vero genitore? E cosa fa di una persona un genitore? Non il reddito o una Porsche, verrebbe da dire. Ma il ritardo mentale? Può il ritardo di Sam essere causa dell’allontanamento di una figlia che sembra così attaccata al padre? Tra l’altro la dinamica tra il padre e la figlia è di una bellezza toccante. Sembra costruita su tutte le teorie relazionali che conosco. Tanto la bambina riesce, crescendo, ad acquisire nuove abilità, tanto non le vuole usare per non far sentire indietro il padre che, invece, queste abilità non ha. Con continui cambi di prospettiva nei quali prima è il padre che la protegge, poi la bimba; prima la bimba che apprende, poi anche il padre; prima è il padre che fa di tutto per incontrarla poi è la bimba che fugge continuamente di casa.

E la soluzione ad una situazione così ingarbugliata, sembra essere quella di includere anzicchè quella di escludere. Così non solo non viene escluso il padre ma, anzi, il padre chiede l’aiuto ad una figura femminile per aiutarlo nel, comunque difficile, compito. E alla fine, molti dei protagonisti, messe sul tavolo le loro debolezze, sembrano molto più vicini e simili rispetto all’inizio del film.

Rimane il quesito iniziale: cosa fa di una persona un genitore? Non so se esista una risposta a questa domanda. Credo che una chiave di lettura possibile, contenuta nel film, fosse quella di non pensare che la differenza passi tra genitori buoni e cattivi. Forse, la differenza è tra coloro che sanno di essere imperfetti. E coloro che, invece, sono convinti di essere migliori.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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I ragazzi stanno bene

I ragazzi stanno beneIl film che volevo raccontarvi oggi si intitola I ragazzi stanno bene. Il film è uscito in Italia nel 2010, è della regista Lisa Cholodenko e ha come interpreti principali Annette Bening, Julianne Moore e Marc Ruffalo. La storia racconta di una famiglia normale: diatribe tra i coniugi, screzi con figli adolescenti, problemi di lavoro ecc. La differenza è che in questa famiglia abbiamo due mamme. Il film ruota intorno alla ricerca, al ritrovare e all’integrare il padre biologico all’interno di questa famiglia. I due figli rispettivamente di 18 e 15 anni, sono i promotori di questa ricerca che porterà a dei cambiamenti per tutti i membri della famiglia. Come al solito non vi svelo di più sulla trama.

Detto questo credo che il film ruoti intorno alla definizione e alla ricerca di un nuovo equilibrio per una realtà decisamente in cambiamento come la famiglia. Tutti i membri sono portati ad interrogarsi su cosa voglia dire ‘essere’, declinato in vari modi: cosa vuol dire essere madri, essere padri, essere figli? Come ci si comporta con un figlio che vuole cercare il proprio padre biologico? Come ci relaziona con dei ragazzi mai visti prima e dei quali si è padre? Come ci si relaziona con un uomo che è nostro padre? Questo insieme di cambiamenti porta nuove domande, nuove prospettive, nuove risposte su ruoli che sembravano ormai consolidati ed acquisiti.

Ci si interroga sul proprio valore (se un figlio va in cerca del padre biologico vuol dire che si è falliti in qualcosa facendo la madre? Che non si basta più al proprio figlio?), sulle proprie funzioni (come si fa il genitore? troppo presenti o troppo assenti sono potenzialmente sullo stesso piano?), sui propi equilibri (Nic, che ha un pò il ruolo del capofamiglia sembra particolarmente destabilizzata dal fatto che le stiano in qualche modo ‘rubando’ la famiglia), sui propri ruoli (se una delle due madri ha sempre avuto/voluto la famiglia sulle spalle può un giorno dire, senza destabilizzare gli altri, che non vuole avere più questa funzione?), sui propri confini (cosa è famiglia? Dove sono i confini tra l’interno e l’esterno? Perché quello che sembrava acquisito sull’identità familiare viene messo così in discussione?).

Insomma, un film incompleto, che non da ricette, che non ha una fine. Pone delle domande, degli interrogativi. Ed è lo spaccato di quella che potremmo considerare una famiglia ‘normale’ della società di oggi. Una famiglia incasinata. Una famiglia in costruzione. Una famiglia come tante altre. Una famiglia in cui il fatto che ci siano due mamme è un dettaglio del quale potersi scordare dopo pochi minuti di film.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

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Departures

DeparturesIl film del quale volevo parlarvi oggi si intitola Departures (2008). Il film, del regista Yojiro Takita, ha vinto il premio Oscar come migliore film straniero nel 2009. La trama è abbastanza semplice: dopo lo scioglimento dell’orchestra nella quale lavora, Daigo, il protagonista, è disoccupato. Decide, allora di tornare al suo paese d’origine. Va a vivere nella vecchia casa della madre assieme alla moglie Mika. Ovviamente Daigo deve cercare un lavoro che consenta loro di sopravvivere. Trova un annuncio interessante, che pensa riguardi un agenzia di viaggi, ma si accorge ben presto, che l’agenzia, che nel frattempo lo assume, si occupa si di viaggi, ma di viaggi particolari: l’ultimo viaggio. Come al solito non vi racconto altro per non svelarvi troppi dettagli. Aggiungo solo che, in Giappone, il rito della cura dei morti prima del viaggio finale (nokanshi) è una tradizione antichissima, svolta inizialmente da membri della famiglia del defunto e, in seguito, demandata ad agenzie specializzate.

Sullo sfondo di questo lavoro, decisamente particolare, si muovono i moltissimi significati che animano questo film e che ne fanno un film veramente toccante. La protagonista del film è, gioco forza, la morte declinata in varie sfaccettature. La più appariscente è quella fisica, ma non è l’unica. Si parla di morte delle passioni (il suonare il violoncello), di morte simbolica della famiglia (il padre del protagonista lascia la sua famiglia per stare con un’altra persona), di morte delle relazioni. La morte non è, però, solo la fine di tutto, così come spesso è intesa. Costituisce, invece, una fase di passaggio, di cambiamento. Di trasformazione. Spesso di incontro.

La cosa curiosa è che il protagonista del film non ha avuto, fino al momento in cui accetta il lavoro, alcuna esperienza con la morte. Racconterà, infatti, come non abbia assistito a quella dei nonni e neanche a quella della madre. Come si costruisce un immagine della morte nel momento in cui non la si conosce? E’ difficile nel momento in cui si maneggia una realtà con cui si ha così poca dimestichezza. Assistiamo così all’avvicinamento, dapprima con non pochi problemi (il primo ‘caso’ cui assiste non lascerà Daigo indifferente!), poi via via sempre più a suo agio con la preparazione del corpo del defunto. Questa preparazione è molto particolare e avviene con un rispetto e con una attenzione che spesso non si riscontra neanche nei rapporti tra vivi.

Il paradosso sembra essere quello per cui più Daigo si trova a stretto contatto con la morte, più questa sembra foriera di vita. Si inizia ad intravedere una vita sessuale con la moglie, che, apprenderemo poi, rimane incinta. La presenza della morte sembra, allora, legata non all’assenza quanto alla presenza. Si ritrova a riprendere a suonare anche il violoncello, a far così rinascere la sua grande passione. Questo riporta in vita (ancora paradosso?) i ricordi che lo legavano allo strumento da bambino.

Ma, come detto, la morte non è solo cambiamento. E’ disvelamento. Come se, alla fine dei giochi, non ci rimanesse altro che guardare in faccia noi stessi senza più finzioni. Senza più ipocrisie. In una delle scene più emblematiche, mentre si accingono a preparare il corpo di quella che apparentemente sembra una donna, si accorgono che, in realtà, è un uomo. La scena si dipana lungo il film, e ci fa intendere come non solo la persona sarà truccata infine da donna, ma che l’accettazione è possibile anche da parte di quelle persone (il padre) che più si erano opposte alla scelta del figlio in vita. Il disvelamento riguarda allora, non solo il morto ma anche le persone che gli stanno intorno. Coloro che solo nel momento della perdita (o della conquista?) del proprio caro riescono ad accettarlo nella maniera più incondizionata. Grazie alla morte. Grazie al cambiamento di prospettiva.

E ancora, le continue immagini allegoriche sul continuo scambio morte-vita, senza la quale sia l’una che l’altra non avrebbero senso: i cambi di stagione, con alternanze di paesaggi assolutamente invernali, apparentemente ‘morti’, a paesaggi primaverili pieni di fioriture e nascite. La scena nella quale osservano dei salmoni che risalgono la corrente per tornare nel luogo dove sono nati. I salmoni faticano, nuotano contro corrente, talvolta muoiono stremati per lo sforzo. E lo fanno solo per andare a morire nel luogo che li ha visti nascere. Perchè fanno tutta questa fatica se devono morire? Stiamo ancora parlando di salmoni? O di noi?

E così, in questo percorso di avvicinamento alla morte (e alla vita) anche chi non capiva e non accettava l’idea di un contatto così stretto con la morte, come la moglie, si trovano poi a dover guardare le cose da un’altra angolazione. E, nuovamente, la morte sembra un punto di incontro più che di separazione. Di vicinanza. Vicinanza che porta al reincontro di padre e figlio, di vita che continua e di vita che finisce, di consegne da portare avanti e comunicazioni in codice che riprendono dopo anni di apparente interruzione.

Insomma, un film che affronta, con una delicatezza e una levità esemplari, uno dei temi tabù per eccellenza. Per ridefinire il quale dovremmo, forse, ricordare una delle frasi del film:

la morte è un cancello da oltrepassare per proseguire il proprio viaggio.

A presto…

Fabrizio

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Super 8

Super 8Ecco un altro film molto interessante da condividere con voi per le tantissime implicazioni narrative e simboliche che il film stesso rappresenta. Parlo di Super 8 film uscito nelle sale nel 2011. Il regista è J.J. Abrams che molti di voi, probabilmente, conosceranno come ideatore e regista della serie televisiva culto Lost, e prodotto da Steven Spielberg che credo non abbia bisogno di presentazioni. Il film è,narrativamente, apparentemente molto semplice. Tratta della storia di un gruppo di ragazzi coetanei, di 13 anni circa, con una passione condivisa: il cinema. Il loro grande progetto è quello di realizzare un film, per girare il quale usano una pellicola super 8 la stessa che da il titolo al film. Nel girare questo film si ritrovano coinvolti in una storia molto più grande di loro che avrà delle conseguenze non solo sulle loro vite ma su quella di tutta la cittadina teatro del film. Non vi racconto altro per timore di potervi rovinare la trama.

Ripeto, se dovessimo fermarci ad un livello narrativo, il film non sembra raccontare molto di nuovo. Invece, credo che, dal punto di vista simbolico, sia un film ricco di spunti interessanti. Credo che il tema del film sia essenzialmente uno: il diventare grandi. Crescere. Questi ragazzi si trovano alle prese con una serie di problemi tipici della loro età pre-adolescenziale. Innanzitutto la morte (in questo caso sia fisica che simbolica) dei genitori e della loro onnipotenza. Da bambini pensiamo, infatti, che i nostri genitori siano plenipotenziari, che riescano cioè a fronteggiare qualunque tipo di situazione. Fa parte del processo di crescita anche l’idea di perdere questa prospettiva, e riuscire a vederli come esseri umani con le loro forze e le loro debolezze. Nel film abbiamo la morte di un genitore di uno dei protagonisti, che lascia dietro uno strascico di incomprensioni (perché lei?) e di rapporti da ristrutturare. Paradossalmente (o forse no!) la morte fisica non sembra essere causa di una maggiore assenza nella vita degli individui. La madre, infatti, sembra riuscire ad essere molto più presente del padre che, invece, fatica ad adattarsi ai cambiamenti che la nuova situazione impone.

Anche nel rapporto padre-figlio è possibile intravedere una serie di passaggi molti importanti tipici dell’età adolescenziale. Il padre vorrebbe che il figlio andasse in un campo scuola, e si gioca la relazione da un punto di vista genitoriale (so qual’è il bene per te!) che può funzionare quando il figlio è piccolo (e crede nella conoscenza del papà!) ma non quando questa è messa in discussione. Il figlio riuscirà a far capire al padre, ribellandosi, quello che lui stesso vuole e solo dopo questo passaggio sembrano riuscire a riacquistare un rapporto migliore.

Altro tema rilevante è la paura. Anzi Le Paure. La personificazione di una di queste paure (il diverso, l’alieno) pervade l’intero film (non voglio svelarvi altro!) e complica notevolmente la trama. Affrontare queste paure con la forza non porta a nulla se non a rendere la paura stessa ancora più potente nella devastazione. C’è una scena, per me bellissima, nella quale la paura non solo viene riconosciuta, ma accettata e compresa. Ci si può rapportare. Solo allora ci si può accorgere che forse non tutto quello che ci spaventa è brutto, che forse non tutto quello che ci terrorizza può ucciderci. Che, forse, il modo migliore per rendere inoffensive le nostre paure e cercare di maneggiarle, esplorarle e capire come rapportarsi con loro. Così, acquistano un nuovo significato, una nuova prospettiva.

Un altro aspetto altamente simbolico riguarda il fatto che il passato stesso permette di voltare pagina nel momento in cui viene superato e lo si lascia andare. Il protagonista sembra essere bloccato da un medaglione per lui molto importante. In una delle scene finali (ancora le immagini raccontano più di tante parole!), il medaglione troverà una nuova collocazione che sembra infine rendere più libero il suo piccolo proprietario.

E come dimenticare di citare il peso di tanti altri campi della vita che cambiano: gli amici (il gruppo dei pari sembra acquisire, in questa età, un peso pari o superiore a quello della famiglia!), i primi amori ( in quest’età si collocano i primi innamoramenti e le prime delusioni d’amore!), le passioni (girare un film sembra per loro l’esperienza più totalizzante della loro vita!), il peso dell’autorità (sia tramite i genitori che tramite le istituzioni, in questo caso l’esercito). Tematiche che iniziano a far parte della trama della nostra vita proprio in quella fase di passaggio.

Insomma un film che nasconde una complessità di sguardi e di piani che affascina. E che, forse, tenta di riflettere la stessa complessità che quella fase di vita, l’adolescenza, ci porta per la prima volta ad intravedere nella nostra esistenza.

A presto…

Fabrizio

 

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Biutiful

BiutifulIl primo dei film che volevo analizzare con voi si intitola Biutiful di Alejandro González Iñárritu(2010). Tra una serie di attività illecite, si svolge la vita della famiglia di Uxbal, padre di due bambini, una femmina e un maschio, Mateo, che vivono con lui. Il film racconta di un contesto familiare sfilacciato, reso precario tanto dalle condizioni economiche quanto da alcuni problemi intrinseci alla famiglia stessa. Fin dall’inizio, infatti, non sembra esserci una figura materna. La marginalità di questa figura fa si che Uxbal si accolli il peso dell’intero nucleo familiare. Il farlo gli provoca tensioni che si ripercuotono, poi, sui figli stessi. Soprattutto Matteo sembra risentire di questa situazione. Manifesta tutto il suo disagio con fenomeni come l’enuresi notturna, spia somatica di malesseri più profondi. Il bambino particolarmente viene conteso tra i genitori che lo usano come ‘merce di scambio’. Credo tutto il film sia attraversato da una evidente difficoltà comunicativa, tra padre e madre, tra padre e figli, tra madre e figli. Questa difficoltà viene ulteriormente accentuata non traducendo i dialoghi tra le varie comunità che vengono rappresentate (asiatica e africana) e sottolinea la problematicità nel comunicare. La mancanza di dialogo pesa sul padre che non riesce ad esprimere la malattia da cui è affetto a nessuno, forse neanche a se stesso. Si sente responsabile dei figli e non sembra poter accettare il fatto che possa mancare loro. Tutti i protagonisti si muovono in un contesto sociale disgregato. Non sembrano esserci amici. Non sembrano esserci famiglie d’origine. Sono soli. Isole. Si intravede un fratello di Uxbal, col quale sembra intrattenere pessimi rapporti. E, per la prima volta, viene citata la madre del protagonista, a cui entrambi si rivolgono con l’epiteto di puttana. Credo sia l’unico riferimento ai genitori. Le famiglie d’origine sono citate tramite alcuni oggetti simbolici e grazie ad alcune immagini che aprono e chiudono il film, come se un ciclo fosse portato a compimento. I protagonisti si muovono in un contesto urbano degradato che trasfigura l’immagine classica di Barcellona, città nella quale il film è ambientato. D’altronde anche loro sembrano essere la trasfigurazione di una famiglia ‘tipo’. Infatti, il rapporto di coppia è problematico. Lui rinfaccia a lei di non esserci ma la soccorre nel momento in cui sta male. Su cosa si incontrano allora? Su cosa fondano il loro ?stare assieme’. Essenzialmente, sono l’incontro di due esigenze complementari: tanto sull’incapacità di lei di prendersi in carico le sue responsabilità (famiglia, figli, lavoro), tanto su quelle di lui di volersi accollare qualunque cosa da solo (famiglia, figli, lavoro). Nel racconto di questa vicenda la realtà non si dice. Si scopre. È infatti la figlia a cercare la verità sulla malattia dopo che lui ha cercato di nasconderla.

Lo spaccato di una famiglia multi problematica sembra dunque l’oggetto di questo film. Ma, credo, sia un film legato anche all’incomunicabilità. Incomunicabilità tra parenti, tra familiari, tra amici. Incomunicabilità con se stessi, con le proprie paure, con le proprie sconfitte. Il film è duro, raccontato con l’uso di colori freddi, a volte glaciali, insoliti per una città mediterranea. Anche la scelta cromatica sottolinea la mancanza di calore, di incontro. L’incomunicabilità, tratto in comune, paradossalmente di incontro, tra i vari membri, esaspera le problematiche presenti e non ne permette una soluzione. Cosa potrebbe voler dire? Che dovremmo imparare a comunicare? Forse. Che potremmo imparare a dirci determinate cose? Forse. O, forse, ci fa vedere come, la mancanza di dialogo, costituisca un terreno dove prosperano le incomprensioni, i non detti, le paure, le indifferenze. Le distanze. Forse.

A presto…

Fabrizio

 

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