Scuola, insegnanti & genitori…

scuola insegnanti e genitoriCiao Fabrizio…come tu sai sono un’insegnante di sostegno ormai da tanti anni. Approfitto di questo blog per chiederti quali sono le strategie che è meglio utilizzare per aiutare i genitori a rivolgersi con fiducia ad uno psicologo, dal quale potrebbero trarre enormi vantaggi sia in termini di aiuto nell’accettazione dell’handicap ma soprattutto per individuare percorsi agevoli ed efficaci nell’educazione dei ragazzi. Troppo spesso il nostro consiglio viene frainteso o visto come atto d’accusa. grazie e grazie soprattutto per aver messo a disposizione di tutti la tua professionalità e competenza. un bacio Gloria

Ciao Gloria..

Innanzitutto grazie per l’ottimo quesito. Ho già affrontato in parte l’argomento in un precedente articolo dal titolo Salute mentale e malattia…(08.03.11). La mia posizione è che dallo psicologo non ci vadano per niente i matti quanto persone che vogliono in qualche modo fare il punto sulla loro situazione. Il mio punto di vista non è però supportato dalla stragrande maggioranza delle persone per le quali vale sempre il sottotesto per cui, se ti rivolgi ad uno psicologo, c’è qualcosa che non va in te. Quindi credo di capire il problema che mi poni. Mi chiedi quali siano le strategie. Sinceramente, non credo ci sia una strategia per far capire alle persone quanto potrebbero giovarsi di questo tipo di percorso. Credo che una possibile strategia sia la fiducia nel rapporto che hai instaurato con loro. Voglio dire: se sanno con quanta dedizione ti occupi al tuo lavoro, se pensano a come consideri i tuoi allievi non lavoro ma persone, se conoscono la passione con la quale ti occupi dei loro problemi, non possono non vederti come un punto di riferimento anche in questioni extrascolastiche. Nel momento in cui tu, in base alla tua esperienza, dovessi fare una proposta del genere a dei genitori come pensi che potrebbero pensare che li stai giudicando? Anzi, forse ti saranno grati per avere saputo indirizzarli verso un possibile appianamento della situazione. La questione potrebbe sorgere, secondo me, nel momento in cui questo consiglio viene dato solo per scaricare su altri un presunto problema. In quel momento i genitori possono non sentirsi supportati e pensare che li si stia giudicando inadeguati e incompetenti.

Questo punto mi porta alla considerazione più ampia per cui dovrebbe esistere un lavoro di rete, di società che, lontano dal volere approfittare dei malesseri altrui, possa in qualche modo fungere da fattore di indirizzamento e di orientamento per varie persone. Questa eccessiva parcellizzazione delle mansioni porta a non volersi mai prendere carico di qualcosa che vada appena al di fuori delle nostre responsabilità. Forse, invece, è ora di assumere queste nostre responsabilità per far si che il nostro passo in più possa, in qualche modo, aiutare l’altro.

Questo è uno dei motivi principali che mi ha spinto a creare questo blog: la possibilità che si potesse far rete, che persone con esperienze diverse potessero mettere in gioco ognuno il suo punto di vista mossi da una visione comune. Dovremmo cercare di renderci conto delle enormi potenzialità che l’affrontare una questione da molteplici punti di vista grazie all’integrazione piuttosto che alla frammentazione degli interventi potrebbe portarci.

A presto…

Fabrizio 

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Aspetto estetico o…?

Aspetto estetico o...Caro dottore,
approfitto di questo spazio per una richiesta: potresti parlare dei problemi legati all’aspetto estetico? Dalla tua esperienza c’è un modo per fare pace con se stessi e, se non arrivare a piacersi, riuscire a trovarsi simpatici? Io passo periodi più o meno lunghi in cui mi piaccio fisicamente e sono felice, poi basta un niente e mi rendo conto che ho solo finto di piacermi, allora mi rattristo e mi sento ridicola per tutti i tentativi che ho fatto per nascondere le mie mostruosità.
Ho provato a fare come faccio con le esperienze professionali del tipo ” mi propongo- ho successo- creo un circolo virtuoso ricordando le volte che sono stata confermata come attraente ” ma non ha la stessa forza, basta la percezione di un velo di ironia in una frase, uno sguardo che io interpreto come critico che tutto il castello crolla.
mi fermo qui e aspetto fiduciosa.

Salve, eccomi qua a rispondere alla sua richiesta. La domanda riguarda l’aspetto estetico. Pensate possa esserci qualcosa di più pressante in una società dominata dall’apparire? Quale senso di inadeguatezza possa manifestare il sentirsi brutti o non accettare la propria immagine quando il rimando sociale è assolutamente imperniato sull’apparire sempre splendidi e a posto. Mettendo un secondo da parte il peso predominante dell’apparire, c’è una cosa che mi colpisce nella sua domanda e credo che sia li che si annidi l’ incognita. Nella sua domanda lei mi chiede come si faccia a fare pace con se stessi. Mi verrebbe da chiederle: quando ha litigato con se stessa? Mi chiedo di quale mostruosità parli. Se la percezione di se stessa è quella di lite, di mostruosità, giocoforza deve scendere a patti con la realtà quotidiana indossando una maschera che nasconda questo di lei. In un mondo in cui non si può neanche ipotizzare di essere mostruosi, certo non si può pensare di mostrare agli altri le nostre “mostruosità”. E indossiamo, per questo, una maschera che, se ci nasconde, però non ci rappresenta, è posticcia. Questo sentirsi una cosa ma fingerne un altro credo possa creare un senso continuo di inadeguatezza che ci fa stare male con noi e con gli altri. Ci sentiamo mostruosi e anche “falsi”, finti, costruiti, come se il nostro fosse tutto un bluff che, prima o poi, verrà scoperto. E finalmente gli altri si accorgeranno di quale inganno siamo. Ha mai pensato, così, per assurdo, che la prima ad accettare le nostre ‘mostruosità’ dovremmo essere noi? Se le accettassimo magari potremmo pensare di farle vedere senza sentirci dei mostri. Ho volutamente fatto un passaggio dal piano fisico al piano psicologico perché credo che i due piani siano strettamente intrecciati. Il senso di mostruosità fisico, che, sono sicuro, non abbia, passa da un senso di mostruosità psicologica sul quale potrebbe riflettere. Passando da questo percorso forse l’aspetto estetico sarebbe meno impattante.

A presto…

Fabrizio

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Terapia di gruppo & terapia individuale…

Terapia di gruppo & terapia individuale...Volevo parlarvi di una argomento di cui mi chiedono spesso: è meglio fare una terapia individuale o una terapia di gruppo?

Quale può essere la risposta? Dipende. Non dipende dalla tematica che si può trattare perché certe tematiche sono affrontabili sia in terapie individuali che di gruppo. Diciamo che la differenza riguarda essenzialmente quello che viene chiamato il setting terapeutico. Il setting è l’assetto della terapia stessa, il modo in cui viene organizzata (a livello di spazi e di interventi) e delle dinamiche che si possono instaurare tra i partecipanti e tra questi e il terapeuta.

Una delle differenze sostanziali riguarda il fatto che la terapia di gruppo si svolge, appunto, in gruppo. Questo permette ai partecipanti di poter delegare la loro posizione agli altri membri. Il gruppo è qualcosa di più della somma dei suoi singoli componenti. Permette a ciascuno di prendere i suoi tempi, di non esporsi nel momento in cui ci si sente più fragili, di partecipare quando ci si sente pronti. Un tema può essere affrontato per interposta persona, nel senso che un membro del gruppo può ricoprire la funzione di portavoce, e rappresentare in questo anche altre persone che non ritengono/non vogliono esporsi di fronte agli altri. Questo, però, permette loro di relazionarsi con quella tematica e, tramite le emozioni esposte dall’altro partecipante, consente di scandagliare e conoscere meglio le proprie. In questo la terapia di gruppo è, apparentemente, più protettiva. Ma dovremmo tenere conto di un altro fattore che entra in gioco: l’esposizione rispetto agli altri. Questo aspetto, di contro, può frenare molto la terapia nel momento in cui si avverte il “peso” del gruppo come limitante. Nella terapia individuale questo è più difficile o, meglio più facilmente gestibile dal momento che ci si trova di fronte ad un rapporto più diretto e meno impattante da questo punto di vista. Certo, c’è il rovescio della medaglia. In terapia individuale, la persona si trova in prima linea e non può delegare le proprie emozioni ad altre persone. Questo, naturalmente, non significa che non ci si possa prendere i propri tempi anche in una terapia individuale. Tutt’altro. Ma non ci sarà la possibilità che qualcuno prenda la parola e parli a nome nostro. Saremo noi gli ambasciatori di noi stessi!

Un’altra differenza sostanziale riguarda il tempo: la terapia di gruppo solitamente dura di più rispetto a quella individuale. Quella individuale dura all’incirca un’ora, quella di gruppo, a seconda del numero di partecipanti, arriva a durare anche due ore.

Quale dei due approcci consiglierei allora? Diciamo che dipende dalle motivazioni di ciascuno di noi. Potrebbe essere utile iniziare una terapia di gruppo e passare, nel momento in cui ci si sente pronti, ad una terapia individuale. Vorrei però ribadire che una delle due non è in contrasto con l’altra ma semplicemente diverse e possono benissimo essere integrate. Entrambi gli approcci credo arrivino a condividere gli stessi obiettivi: la maggiore consapevolezza della persona.

 

A presto…

Fabrizio

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Sulla durata della terapia…

Sulla durata della terapia...Tornando all’argomento legato al tempo in terapia vi volevo specificare alcuni dettagli del tempo in terapia nella mia modalità lavorativa. Credo che ogni psicologo abbia una traccia riguardo questo, un suo modus operandi che lo orienta nelle scelte legate al processo col paziente. Come vi ho accennato, una delle mie convinzioni riguarda la cadenza settimanale per lo meno nel primo periodo di terapia. La cadenza settimanale è necessaria non solo per stabilizzare la relazione, ma anche per permettere la conoscenza della persona. Questa cadenza è da tenere, verosimilmente, per alcuni mesi, dopo di che si può pensare ad un cadenzamento più distanziato. Questo timing dipende da vari fattori: come sta la persona, come si senta e dal fatto che si senta bene nell’allungare i tempi della terapia. Quanto a lungo duri questo, abbiamo detto, dipende dall’esito della terapia stessa. Ed eccoci al casus belli (oggi sono per i riferimenti in latino!): qual è l’esito della terapia? Molti di voi risponderebbero ‘la guarigione’. Ovviamente, credo che il miglioramento della condizione problematica, il sintomo, che ha portato la persona a rivolgersi ad uno psicologo sia un primo passo. Ma è anche l’ultimo? Penso che il sintomo sia una sorta di segnale che emerge per dirci come qualcosa di noi stessi non ci vada più bene, un richiamo che comunica la possibilità di percepire qualcosa di più di noi: perché quel sintomo è nato? cosa ci sta descrivendo? come dobbiamo vederlo? Che significato ha per noi la sua presenza? Queste domande presuppongono una curiosità su noi stessi che tendiamo spesso a mettere da parte. Dov’è allora la guarigione? Nella sparizione del sintomo? O in una nostra migliore conoscenza? Credo debba essere questo l’esito della terapia. Può essere una strada in salita ma questa curiosità può poi sfociare in un modo migliore di rapportarci a noi stessi. E quindi avremmo la possibilità di soffermarci a dare una lettura più profonda della nostra stessa vita e di ciò che essa significhi per noi. Il tutto a partire da quel sintomo che consideriamo essenzialmente un problema. Tutto si rovescia, e acquista una nuova valenza: la guarigione (si può guarire non essendo stati malati?), il sintomo (da combattere o da ascoltare?), il senso (è un problema o un opportunità?) Tornerò su questo argomento. Voi, intanto, che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Ogni quanto andare dallo Psicologo?

Ogni quanto andare dallo PsicologoTorniamo a parlare degli aspetti diciamo così, pratici del rapporto tra terapeuta e paziente. Abbiamo già visto chi sia lo psicologo e, in parte, perchè si vada dallo psicologo. Oggi trattiamo la questione tempo: ogni quanto si va dallo psicologo e quanto dura una terapia.

Diciamo che non c’è una risposta univoca ad entrambe queste domande.

Ogni quanto si va dallo psicologo: alcuni psicologi sottolineano l’importanza di un rapporto cadenzato almeno settimanalmente, altri fissano più incontri alla settimana per un periodo che può durare anche alcuni mesi. Molto dipende dallo stato in cui si trova la persona che fa la richiesta di terapia. Dopo, il rapporto può essere diluito a seconda delle esigenze e della sensibilità della persona in questione. Io personalmente credo che, nella costruzione di un rapporto particolare come quello terapeutico, gli incontri siano da cadenzare a seconda degli attori in gioco ma, per lo meno inizialmente, sia necessario almeno un incontro settimanale. Per quanto tempo duri questo, dipende dall’esito della terapia stessa. Data la molteplicità dei fattori in gioco è molto difficile poter dare risposte definitive in merito. E’ possibile, però, affrontare con chiarezza questo argomento fin dall’inizio della terapia. Potete per esempio dare/vi un tempo di controllo per vedere come sta andando il processo. Quello che vi posso consigliare è di parlare delle vostre impressioni e delle vostre esigenze con la persona alla quale vi siete rivolti.

Seconda parte della domanda: quanto dura una terapia? Come abbiamo detto anche per questa domanda non c’è univocità di risposte: ci sono terapie molto brevi (anche solo tre, quattro incontri), altre che durano molto più tempo. Anche in questo caso gran parte dell’esito dipende dalla relazione che si instaura tra terapeuta e paziente. E anche in questo caso l’unica cosa che mi sento di suggerire è quella di parlare con la persona con la quale state lavorando.

Come avrete capito, l’aspetto che mi preme sottolineare è l’unicità della relazione terapeutica che non permette un’invariabilità nella risposta. Ovviamente esiste l’orientamento generale del terapeuta. Questo orientamento può essere dato, tra le altre cose, dal suo indirizzo di specializzazione, dalle sue convinzioni personali e lavorative, dalla sua impostazione terapeutica. Ora potete capire la difficoltà di indicare a priori la durata di una relazione di questo tipo!!

Sperando di aver chiarito un altro punto vi saluto.

 

A presto…

Fabrizio

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Ansia e dintorni…

Ansia e dintorni...“Ciao Fabrizio, volevo approfittare del tuo blog per farti una domanda su un problema che è stato presente per svariati anni della mia vita sportiva agonistica e che ora riguarda alcuni dei miei allievi. Questa è l’ansia da prestazione credo, una tensione ingombrante e difficile da ignorare che comincia a presentarsi nelle ore successive alla gara e spesso disgraziatamente trova il suo apice durante la stessa prestazione, invalidandola irrimediabilmente, nonostante magari la preparazione fisica sia uguale, se non più alta, di quella dei relativi avversari.
Mi rendo conto anche che sia una cosa molto soggettiva in quanto alcuni non sembrano aver mai conosciuto ansia da gara,se non quel minimo che si dovrebbe provare normalmente e che in alcuni casi può anche essere utile.
Vorrei da te un consiglio su ciò che potrei dire o fare per alleviare nei miei allievi questa scomoda presenza, visto che io in tanti anni ho dovuto conviverci senza mai riuscire a vanificarne gli effetti, se non in poche occasioni.
Ti ringrazio :-)”

Approfitto della domanda di Atlante79 per parlare di un argomento che gode di sempre maggiore attenzione: l’ansia da prestazione. Questa si presenta subdolamente proprio nel momento in cui è richiesta la prestazione e, facendoci concentrare su aspetti che nulla hanno a che fare con la prova stessa, ci distolgono non facendoci raggiungere il risultato atteso. Possiamo così notare come si inneschi un circolo vizioso per cui, una volta provata quella sensazione non piacevole, ogni qual volta ci troviamo in una situazione simile temiamo possano insorgere gli stessi sintomi.

Questi sintomi sono vari e possono essere di natura psichica (paura, senso di inadeguatezza,… ) oppure fisici (sudorazione, tachicardia, senso di soffocamento…)

Diciamo che l’ansia da prestazione, specificamente quella sportiva ma non solo, può insorgere in concomitanza di fattori quali: bassa autostima, paura del confronto con gli altri, alte aspettative sulla propria prestazione.

Il tema andrebbe approfondito con la persona che ne soffre. Come si manifesta di solito nei tuoi atleti? Uno dei consigli che ti posso dare è quello di far concentrare l’atleta sulla prestazione. In allenamento prova a far pensare loro di essere soli, di modo che in gara non siano schiacciati dalla paura del confronto con gli altri atleti o dalla paura di deludere le aspettative degli altri. Cerca di farli concentrare sulla tecnica che stanno eseguendo nel movimento di modo che, stando attenti alla tecnica stessa, possano porre meno attenzione alla prestazione e alle sue conseguenze. Posso suggerirti un’altra mossa: dato che l’hai vissuto in prima persona, pensa a quello che avresti voluto sentire dirti in quei frangenti: magari aiuterai una persona a non innescare lo stesso circolo vizioso.

Fammi sapere come va e se questi piccoli accorgimenti possono risultarti utili!

A presto…

Fabrizio

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Salute mentale e malattia…

Salute mentale e malattia...In questo post affronteremo la differenza tra salute mentale e malattia. L’idea comune vuole che dallo psicologo ci vadano i matti. Questa idea è talmente radicata che le persone spesso non si trovano a loro agio nel dire che stanno andando da uno psicologo, come se questo potesse avere ripercussioni sulla loro immagine sociale. Voglio dire, nessuno si sognerebbe di pensare a cosa sta pensando l’altro se gli dicessi che sto andando da un dentista. Invece molti pensano che l’altro potrebbe pensare ‘male’ di noi se sapesse che stiamo andando da uno psicologo.

Il pensiero automatico è l’associazione tra l’andare da uno psicologo e pensare che ci sia qualcosa che non va.

Credo che dovremmo iniziare a sfatare questo mito con alcune obiezioni:

  1. Come abbiamo detto, una persona che si rivolge ad uno psicologo non necessariamente è una persona con problemi mentali. Talvolta è semplicemente una persona che si trova in una fase della propria vita nella quale è necessario fare un punto. Talvolta si tratta di periodi complessi della propria storia personale (lutti, separazioni, grossi cambiamenti…) che non permettono di vivere serenamente e risultano ostacolo per il futuro. Talvolta, però, l’insorgenza del problema sembra non essere legata a nulla di diverso da ciò che facevamo di solito, e questo spaventa, disorienta, fa pensare che la causa del malessere possa essere grave, possa essere l’esordio di qualcosa di molto serio. A volte questa stessa paura atterrisce più del sintomo stesso e ci porta ad essere ostaggio di entrambi: del sintomo e della paura. Tra queste paure possiamo mettere anche quella che le persone ci considerino matti, etichettandoci e isolandoci.
  2. Questo ultimo punto può innescare un cortocircuito potenzialmente pericoloso: la paura dell’isolamento può portare a negare il fatto di percepire un problema, e spingerci a trascurarlo o ignorarlo. C’è il rischio così di un aggravamento che, mettendo ancora più timore, rende la soluzione apparentemente sempre più lontana e difficile. In questo senso un punto di vista esterno può spezzare il circolo vizioso permettendo di vedere da una prospettiva più obiettiva la situazione.
  3. Non penso che il confronto con l’altro sia mai una cosa sbagliata. Se l’altro è anche qualificato e viene da anni di studio, il confronto può produrre risultati molto buoni.
  4. La maggiore obiezione che mi viene in mente è, però, una delle premesse della mia impostazione personale e lavorativa.Credo, come disse Seneca, che l’uomo sia un animale sociale e che sia inserito in una serie di relazioni, significative e non, che lo forgiano e che lo plasmano. Data questa premessa non ha senso dire che una persona è matta semplicemente perché equivarrebbe a considerarla come una realtà a se stante ed isolata. Se accettate le mie premesse, dovreste condividere anche le conclusioni: più che considerare la persona come malata possiamo al massimo parlare di relazioni alterate. Possiamo discutere poi di come queste alterazioni nelle relazioni si riflettano sulla singola persona.

Come al solito vi lascio con più domande che risposte ma l’arte del dubbio è una delle arti che più mi affascinano. Su alcune tematiche ovviamente, data l’ampiezza, torneremo a parlare.

 

Per il momento buona riflessione.

A presto…

Fabrizio

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Presentazione:)

PresentazioneSalve a tutti.. vorrei iniziare questa esperienza presentandomi e presentando i propositi che vorrei per questo sito. Mi chiamo Fabrizio Boninu e sono uno Psicologo e Psicoterapeuta. Per gli altri dettagli sulla mia formazione potete guardare la pagina con le info su di me.

Il sito è pensato come una sorta di ‘vetrina’ per gli articoli più recenti scritti e pubblicati sul mio blog di psicologia. Cliccando sul link

fabrizioboninu.blog.tiscali.it

sarete reindirizzati sul blog stesso. All’interno del blog potrete trovare un numero molto maggiore di articoli tra i quali trovare la tematica, sempre legata alla psicologia, che può interessarvi maggiormente. Forse a questo punto vi starete chiedendo quale motivo mi ha spinto ad iniziare un lavoro di questo tipo su un blog. Capita spesso di incontrare, nella mia professione persone che non riescono ad affrontare alcuni momenti di difficoltà o persone che vorrebbero un confronto con una persona competente su alcune tematiche legate al malessere, o alla mancanza di benessere che si trovano, per vari motivi, a dover vivere. Lungi da me l’idea di pensare che un blog possa sostituire minimamente un approccio terapeutico basato sull’incontro personale, ho comunque pensato che questo potesse diventare un luogo di scambio, di condivisione per quegli argomenti che vorrete portare e di cui possiamo discutere assieme.

Per il momento sarà, come si suole dire di questi tempi, un work in progress ma spero che tale rimanga. Vorrei che fosse infatti sempre in progress, che mutasse, che si arricchisse grazie ai contributi che vorrete dare e che vorrete condividere.

Da parte mia ci sarà l’impegno e l’entusiasmo di portare avanti con passione un lavoro che possa essere utile ad ognuno di noi.

Detto questo, Buon Lavoro!!

A presto…

Fabrizio

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