La morte ai tempi di Facebook

La morte ai tempi di FacebookUna nuova morte ‘famosa’ scuote il mondo reale e, di conseguenza, il mondo virtuale. L’ultimo episodio riguarda il famosissimo attore Robin Williams scomparso lo scorso 11 Agosto. Dal giorno in questione, come in moltissime altre occasioni del genere, sui social network abbiamo assistito al florilegio dei più vari stati: citazioni famose dai film interpretati dall’attore, immagini degli stessi film, immagini dei film con le frasi più rappresentative, appassionati stati dove si viene messi al corrente di quale film è stato più importante per la persona che lo posta.

Lungi da me l’idea di pensare che esista un modo giusto o sbagliato per celebrare la scomparsa di qualcuno, noto, però, un punto che mi colpisce: questa condivisione continua, questa sorta di incapacità a fermarsi un attimo e cercare di capire cosa veramente la scomparsa di una persona che giudichiamo tanto importante ha provocato in noi, testimonia ancora una volta di più sia la nostra incertezza a maneggiare un tabù come la morte, sia la nostra profonda difficoltà nel riuscire a contenere le nostre stesse emozioni. Non c’è quasi interruzione tra ciò che avviene e il modo in cui viene condiviso, nessun momento nel quale la persona possa pensare a cosa ciò che sta accadendo sta provocando in lui.  Se ci fermassimo a pensare, credo che avremmo modo di sentire davvero quello che ci sta passando per la mente (e per il cuore!).

Questa continua rincorsa ad essere più veloci degli altri a commentare, più rapidi nel condividere status, più originali degli altri nello scrivere cose sulla nostra bacheca, mi porta a ritenere che più che contattare l’emozione per quello che sta avvenendo, stiamo cercando di allontanarla, di condividerla, di ‘scaricarla’, delegando alla spartizione con gli altri il peso stesso della nostra emozione.

Questo è comprensibile: una morte, per quanto possiamo pensare sia quella di una persona ‘lontana’ e non conosciuta, è invece molto dolorosa quando abbiamo la sensazione che quella persona ci abbia accompagnato in tanti rilevanti momenti della nostra vita, partecipandovi ed entrandovi a far parte a tutti gli effetti. Una persona che, come in questo caso, può averci fatto ridere, fatto piangere, fatto riflettere, fatto star male, una persona che, a sua insaputa (o forse per niente a sua insaputa!) ha partecipato alla vita di milioni di persone. Il dolore, per quanto appunto non sia una persona presente (dovremmo veramente iniziare a ridefinire i termini che utilizziamo quotidianamente!) è sentito, il dispiacere per la perdita della persona è forte perché percepito come perdita di qualcosa anche nostro.

Tutto questo, anziché farci fermare un attimo, attiva spesso, di contro, una reazione opposta: buttare fuori, scacciare, allontanare. Questo accade anche alla morte di persone conosciute personalmente, quando il funerale stesso diventa occasione per mettere assieme i dolori, per far sì che ognuno possa partecipare e condividere il dolore con gli altri.

Nell’era dei social network questa tendenza molto comune, la condivisione del dolore, è cambiata in maniera paradossale: è diventata una rincorsa, come dicevo prima, a mostrare agli altri quanto l’evento ci abbia colpito ma, il momento stesso in cui lo mostriamo è il momento in cui abbiamo più difficoltà ad entrare in contatto con ciò che sentiamo: ‘l’esposizione’ è l’istante di maggiore distanza dall’emozione provata. Non ci lasciamo che poco spazio per riflettere, per sentire cosa sia stato a provocare quel dolore. Nulla di tutto questo appunto, tutto è pubblico, tutto già dato in pasto a Facebook, tutto già espulso nel fiume di milioni di altri post che segnalano la ormai universale incapacità a fermarci a vivere privatamente un momento di dolore.

Questo è il punto da cui ripartire secondo me: il nostro dolore. Prima di mostrarlo in un post su Facebook, proviamo a fare quello che ci costa di più: condividerlo con noi stessi. Proviamo a stare su quello che proviamo, a cercare di capire il senso di quel dispiacere per la morte dell’attore famoso.

Credo sia uno dei pochi modi attraverso il quale un’esperienza dolorosa può trasformarsi in qualcosa di diverso e insegnarci aspetti nuovi di noi stessi. Altrimenti il rischio è che sembri solo l’ennesima occasione per mostrare agli altri ciò che in realtà abbiamo difficoltà a sentire.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Sudoku e cruciverba aprono la mente?

Sudoku e cruciverba aprono la menteQuesto è il periodo dell’anno nel quale abbiamo la possibilità di usarle più spesso: mi riferisco alle riviste di cruciverba, rebus, sudoku, ecc che spuntano (e vendono) soprattutto d’estate. Molti le considerano degli innocui passatempi ma forse dovremmo iniziare a considerarle non più un semplice giochino ma un vero e proprio modo per nutrire la mente.

Secondo la ricerca svolta dalla Washington University di San Louis pubblicato su Psychology and Aging giocare o sottoporre il proprio cervello a compiti di problem solving potrebbe portare a riuscire a superare la chiusura mentale spesso associata all’età, preservando l’efficienza intellettiva e disponendo verso nuove esperienze, a tutto vantaggio della salute generale e dell’aspettativa di vita. Lo studio è stato condotto su un gruppo di 183 partecipanti, età media 77 anni, e cercava di testare come potesse influire sullo sviluppo intellettuale svolgere alcune di queste attività mentali. Il risultato è stato abbastanza sorprendente e per certi versi confortante: le persone anziane che si erano ‘sottoposte’ alle 15 ore settimanali richieste per l’esperimento, alla fine dell’esperimento stesso rispetto al gruppo di controllo, sono risultati mentalmente più aperti a nuove modalità di ragionamento, dimostrando per la prima volta che un trattamento non farmacologico può mutare i tratti di personalità di un anziano, da sempre ritenuti congelati e immutabili.

risultati sono stati sorprendenti perché si sono ottenuti dei miglioramenti nelle cosiddette malattie senili senza il bisogno di ricorrere a farmaci. Nell’articolo si cita una di queste malattie tipicamente senili, la pseudodemenza depressiva, che porta le persone di una certa età, in assenza di danni fisiologici  o cerebrali, ad iniziare a ragionare con una eccessiva lentezza, o con un’apatia di fondo che può portare anche all’allentamento o all’evitamento delle relazioni. Tenere in allenamento il proprio cervello può avere effetti positivi per l’intero tono dell’umore e può far evitare l’insorgenza di manifestazioni così problematiche. Considerando, poi, che il risultato è stato ottenuto senza l’ausilio di farmaci, la cura sembra ancora più positiva. Le persone che si erano sottoposte all’esperimento soffrivano meno di insorgenze di questo tipo anche se non è chiaro, bisognerebbe fare uno studio a parte, se questo sia dovuto al fatto che i soggetti hanno solo allenato il cervello oppure perché dovevano interagire con gli altri partecipanti nelle lezioni di training che erano tenuti a frequentare. Probabilmente, ed io propendo per una spiegazione multifattoriale, entrambi i fattori hanno concorso al raggiungimento di questo risultato. 

Quello che mi sembra interessante sottolineare di questo studio, ed è un aspetto ormai confermato da parecchi altri studi di questo tipo, è come tenere la mente allenata e attiva possa in qualche modo allontanare una serie di problemi o di patologie che invece caratterizzano menti più ‘sedentarie’. Come l’allenamento di un muscolo porta al suo sviluppo, allo stesso modo accade con l’allenamento del nostro cervello.  Questo fatto è dimostrato empiricamente da altri studi come quello svolto dalla California University di Berkeley che ha dimostrato, tramite l’uso della PET (tomografia a emissione di positroni) comenel cervello di chi ha sempre svolto attività cognitive stimolanti come leggere o anche solo fare parole crociate ci sono meno placche di amiloide, la sostanza che rappresentano le stimmate della malattia di Alzheimer. Insomma, non ci rimane altro da fare che allenarlo il più possibile cercando di essere attivi e curiosi nei confronti della realtà che ci circonda. Se poi volete aggiungere sudoku o cruciverba, fate voi!

Cliccate qui per il link all’articolo.

L’articolo è del Corriere della Sera firmato da Cesare Peccarisi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu 

P.s.: quello della foto è un vero schema di Sudoku. Se voleste cimentarvi a risolverlo ed iniziare ad allenarvi…

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Facebook e il pregiudizio di conferma (2)

Facebook e il pregiudizio di conferma (2)Ora, senza entrare nel merito della questione in sé, se io penso che il sale faccia male, tenderò a dar credito a tutte quelle posizioni che confermano la mia posizione di partenza piuttosto che a falsificare la mia posizione di partenza. Cercherò siti, pagine, blog che mi rimandino indietro l’esattezza della mia posizione, cioè che il sale faccia male. Non penserò minimamente di dover tentare di falsificare questa idea con ipotesi contrarie o idee opposte. Alimenterò il mio pensiero cercando negli altri conferme di quello che già penso rispetto agli effetti del sale. Ora dato che uno dei massimi pregi della rete è quello di avere livellato molto il ‘peso relativo’ dei contributi di ciascuno di noi, dal momento che permette a chiunque di postare o condividere stati che non sono testati o vagliati, questo provoca una frammentazione delle posizioni che permette quasi a chiunque di trovare, per quanto particolare possa essere, la condivisione di una posizione rispetto a qualcosa. Se io penso che, per assurdo, respirare faccia male, sono quasi sicuro di trovare qualcuno con cui condividere questa posizione.

Il fatto che possa trovare qualcuno che la pensa come me, e che magari condivide documenti di un qualche tipo che sostengono che respirare faccia male, non farà altro che, paradossalmente, dare ossigeno alla mia teoria e polarizzarla ulteriormente verso la convinzione che sia vera. Se volessi essere ‘scientifico’, dovrei falsificare la mia posizione, cercando prove che, al contrario, dimostrino come respirare sia vitale. Ma questo porta a selezionare, nel mare magnum delle informazioni di tutti i generi che circolano su internet senza alcun vaglio, quelle posizioni che tendono a confermare le nostre posizioni di partenza piuttosto che a smentirle. Abbiamo visto che il nostro modo di ragionare ci porta ad aver bisogno di conferme piuttosto che di smentite, di ragione piuttosto che di torto. Ed è per questo che, spesso con assoluta buona fede, finiamo per alimentare un circolo vizioso enorme di notizie, quanto meno da verificare, che non ci raccontano la realtà dei fatti, ma ci spingono a schierarci per una squadra piuttosto che per un’altra. E qua torno ad un tema a me caro: la polarizzazione delle posizioni nelle discussioni su internet.

Ho affrontato il tema in un altro post, Perché siamo così aggressivi su internet, pubblicato l’11 settembre 2012. In quel post sostenevo come la mancata mediazione dello strumento informatico, il fatto cioè di non interagire faccia a faccia con una persona ‘reale’, portasse ad essere più estremi nei commenti o nelle risposte. Alla base credo ci sia questa tendenza a polarizzarsi in classi confermanti piuttosto che falsificanti. Sono amante del calcio? Al diavolo tutto quello che non mi parla di calcio. Sono amante degli animali? Al diavolo qualsiasi cosa non mi confermi la giustezza del mio amore. Sono amante della carne? Al diavolo qualsiasi posizione mi faccia pensare se mangiarla o meno. E le posizioni tendono ad estremizzarsi, scollandosi da qualunque possibilità di conciliazione. Se ci pensate, è in parte quello che spesso succede anche all’interno dei partiti politici. Anche in questo caso si assiste ad una estremizzazione delle posizioni, non di rado proprio su internet o sui social network, che difficilmente poi può portare ad una ricomposizione delle differenze per privilegiare le somiglianze che si hanno.

C’è la possibilità di fermare, o perlomeno rallentare questa polarizzazione? Credo che una delle soluzioni sia la consapevolezza di quello che succede. Essere consci del fatto che abbiamo sempre più bisogno di sentirci squadra, piuttosto che persone, la dice lunga sul percorso da fare. L’altra possibile soluzione è quello di approcciare anche e soprattutto alle nostre convinzioni con uno spirito critico. E’ preferibile discutere che confermare, per quanto difficile sembri all’inizio. Solo la consapevolezza del modo nel quale costruiamo, talvolta inconsapevolmente, le nostre convinzioni, può permetterci di scardinare questa tendenza alla conferma. Non è una cambio di prospettiva facile ma la falsificazione della quale parlavamo è la strada obbligata per uscire dall’autoreferenzialità nella quale sembriamo avere sempre più bisogno di chiuderci. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Per chi fosse interessato al tema:

Bressanini, P. (2010), Pane e bugie, Edizioni Chiarelettere, Milano

Wikipedia: Bias di conferma

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Facebook e il pregiudizio di conferma (1)

Facebook e il pregiudizio di conferma (1)Il post di oggi è dedicato ad un aspetto che colpisce sempre la mia attenzione e che penso accada soprattutto su internet. Mi sto riferendo alla polarizzazione delle posizioni espresse, il fatto cioè che diventiamo molto più rigidi su internet, e sui social network in particolare, rispetto ad una posizione che condividiamo. L’idea che sta alla base di questo ragionamento mi è venuta leggendo un libro che non si occupa di psicologia ma di cibo. Trovate i riferimenti bibliografici in fondo all’articolo.

Il nostro post comincia con un gioco, per comodità ho messo nella foto le carte che verranno utilizzate nell’esempio. L’unica differenza con il libro è che nel testo in questione, essendo in bianco e nero, si parla di carte chiare o carte scure, mentre io, avendo a disposizione i colori, parlo di carte blu o rosse:

Tengo nascoste in mano quattro comuni carte da gioco. Il dorso può essere chiaro o scuro e l’altro lato riporta una figura o un numero. (…) Ora dispongo le quattro carte davanti a voi, due coperte e due scoperte e faccio la seguente affermazione: Se una di queste quattro carte ha il dorso scuro (blu), allora è una figura. Voi non sapete se la mia affermazione è vera o falsa. Di due carte non conoscete il colore del dorso, mentre delle altre due non conoscete il valore. Il vostro compito è verificare la mia affermazione voltando le carte strettamente necessarie (e solo quelle). Potete voltare sia una carta di cui vedete il dorso per scoprire che valore ha, sia una carta di cui vedete il valore e volete conoscere il dorso. (…) Questo test è stato inventato nel 1966 dallo psicologo cognitivo Peter Wason. (…) Wason lo ha sottoposto a un gruppo di 128 adulti con un’istruzione universitaria. Il 46% delle persone ha risposto che avrebbe girato la carta con il dorso scuro (blu) e la donna di cuori. La seconda risposta più frequente è stata data dal 33%  delle persone intervistate. Queste ritenevano sufficiente voltare solo la carta con il dorso scuro (blu).Solamente il 5% degli intervistati ha dato la risposta corretta. (…) La risposta esatta è che insieme alla carta a dorso scuro, si deve girare il sette: affinché la mia affermazione sia vera, sul retro del sette  devo trovare un dorso chiaro (rosso). Se voltandola trovo un dorso scuro (blu) ho falsificato la mia teoria. (…)

Gli psicologi hanno inventato molte varianti a questo test, e hanno scoperto che mantenendo la stessa struttura logica ma cambiando la descrizione e il contesto si possono ottenere risposte diverse. La cosa interessante è chiedersi come mai così tante persone diano la risposta sbagliata. Secondo alcuni psicologi il motivo è da ricercarsi nel cosiddetto confirmation bias (la preferenza verso la conferma): il nostro cervello si fa un’idea di come funziona un certo fenomeno, e poi cerca degli esempi che avvalorino quell’interpretazione. Cerchiamo una “conferma”. dal punto di vista logico invece è fondamentale anche cercare di falsificare un’ipotesi: provare a vedere se è falsa. A quanto pare il cervello umano ha molte difficoltà ad accogliere questo punto di vista come “naturale”, ed è anche per questo, credo, che il modo di procedere della scienza e del metodo scientifico risulta di difficile comprensione ai più. (…) [1]

Forse a questo punto, vi starete chiedendo il perché vi ho riportato tutto questo e cosa c’entra tutto questo con Facebook. Il punto nodale di questo semplice esperimento, e di molti altri effettuati con lo stesso tema, è che noi tendiamo a dare ascolto alle cose che confermano piuttosto che a quelle che falsificano le nostre posizioni.

– Continua –

[1]Bressanini, P. (2010), Pane e bugie, Edizioni Chiarelettere, Milano, pp. 55-56

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La macchina della verità funziona?

La macchina della verità funzionaIl post di oggi, basato su un articolo del Corriere della Sera (in fondo al post potete trovare il link diretto all’articolo), si occupa di un argomento particolare, il poligrafo, comunemente conosciuto col nome di macchina della verità. Chi non conosce questo strumento? Compare in moltissimi film, e ha lo scopo, sia nella finzione che nella realtà, di stabilire quando una persona stia mentendo. In realtà la scienza ha sempre avuto molto bene in mente i limiti di una simile rilevazione della verità. La macchina infatti basa i suoi meccanismi su quelli che sono i correlati fisici (le espressioni corporee) che vengono associate alla bugia. Misura per esempio il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la conduzione dell’elettricità sulla pelle oppure la sudorazione del soggetto. Questo si basa appunto sulla premessa che una persona che sta dicendo una bugia abbia un battito cardiaco accelerato o una maggiore conduttività cutanea rispetto a chi non sta mentendo.

In molti paesi del mondo, ed in particolar modo negli Stati Uniti, la macchina della verità è utilizzata come prova molto importante durante i processi. Molti professionisti si sono espressi circa la possibilità che fosse uno strumento fallace e abbastanza facile da ingannare. Solo adesso, grazie allo svolgimento di veri e propri test circa la sua predittività, si è arrivati a ritenerlo uno strumento quantomeno difficile da considerare attendibile. L’utilizzo di strumenti di precisione come il neuroimaging ci da infatti la possibilità di verificare quali aree del cervello siano coinvolte nel momento in cui la persona agisce. Brevemente il neuroimaging permette di verificare quali aree del cervello stiano lavorando maggiormente in un dato momento (misurando, per esempio, l’afflusso di ossigeno in quell’area oppure misurando il livello di consumo di glucosio per produrre energia). La prima scansione è ottenuta con l’utilizzo della tomografia a risonanza magnetica la seconda con l’utilizzo della TEP, tomografia ad emissione di positroni. Grazie all’utilizzo di questi strumenti è possibile vedere in vivo come stia funzionando il cervello stesso. Questi sono gli strumenti utilizzati che hanno portato a mettere in discussione l’attendibilità e l’efficacia del poligrafo. Lo studio è stato abbastanza semplice: 

(…) promosso dalle Università di Cambridge, Kent e Magdeburg dimostra infatti che talvolta il reo mette in atto, volontariamente, temporanei meccanismi di soppressione della memoria in grado di mandare in tilt qualsiasi tecnica, proprio perché le zone cerebrali chiamate in causa realmente si comportano come se non esistesse colpevolezza, anche quando non è così. I volontari osservati sono stati indirizzati a compiere finti crimini e a cercare di sopprimere successivamente il ricordo ed è risultato che alla vista di un dettaglio riconducibile all’episodio criminoso alcuni tra loro erano in grado di pilotare le reazioni del proprio cervello, impedendo all’area cerebrale che ricordava l’evento di «accendersi».

E’ stato possibile quindi verificare per la prima volta come alcuni soggetti siano in grado di ‘pilotare’ consapevolmente i propri ricordi ed impedire che l’area in cui hanno sede i ricordi (che ha dunque un maggiore afflusso di sangue o di glucosio nel momento del funzionamento) fosse rilevabile. D’altronde questa era una delle criticità maggiori del poligrafo fin dal suo esordio dal momento che se il soggetto non riteneva di aver compiuto un crimine, oppure non ricordava di averlo fatto, avrebbe potuto non attivava tutti quei correlati fisiologici che stanno alla base delle misurazioni del poligrafo stesso. Questa capacità di ‘spegnere’ alcune aree cerebrali può portare anche a mettere in discussione l’attendibilità del neuroimaging nella ricerca della verità. Se una persona può arrivare a modificare l’attività di alcune aree cerebrali, questa infatti non verrebbe rilevata neanche dalla tomografia o dalla TEP. Insomma, come tutti gli strumenti può essere fallace. Come riportato nell’articolo, la dottoressa Zara Bergström (…) specifica che gli strumenti di neuroimaging hanno un’assoluta attendibilità, ma il problema è a monte, ovvero nel comportamento cerebrale del sospettato e nella complessa psicologia umana, in grado di controllare la capacità mnemonica e accantonare i ricordi scomodi e non desiderati. Esistono paesi, come gli Stati Uniti, l’India e il Giappone, dove la scansione dell’attività cerebrale viene considerata valida come prova nei tribunali, con la pretesa di individuare con accurata precisione un’eventuale colpevolezza. Ma la sua fallibilità sta nel fatto che l’essere umano può realmente e intenzionalmente inibire un ricordo, comportandosi a tutti gli effetti come se la memoria del crimine venisse rimossa.

In altre parole bisognerebbe far si, dato il ridotto margine di conoscenza che ancora abbiamo su alcuni meccanismi neurologici, che prove di questo genere, data la non totale affidabilità, fossero ricomprese all’interno di un quadro di prove più ampio. Basare la colpevolezza o l’innocenza solo su questi strumenti potrebbe essere fonte di tragici errori processuali.

Intanto qui il link per l’articolo:

L’articolo, come detto, è del Corriere della Sera ed è firmato da Emanuela Di Pasqua. All’interno dell’articolo sono presenti i link che rimandano allo studio citato.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il quoziente intellettivo è un mito da sfatare

Il quoziente intellettivo è un mito da sfatareIl post di oggi ha come tema quello che è considerato come il maggior strumento della misurazione del QI. Per chi non lo sapesse la sigla QI sta per quoziente intellettivo, e misura quello che è il livello di intelligenza di una persona. Nella foto di apertura potete vedere come  la maggior parte delle persone si collochi intorno ad un punteggio vicino al 100. Questo punteggio è ottenuto attraverso una serie di test standardizzati che misurano ognuno una particolare abilità (mnemonica, visiva, organizzativa, sequenziale, ecc,). Da sempre questo strumento è stato visto e considerato come uno strumento assolutamente parziale della misurazione dell’intelligenza umana. Non tiene, per esempio conto delle influenze socio ambientali che possono influenzare il tipo di punteggio che si ottiene. Se una persona ha un ragionamento molto pratico e ‘materiale’, avrà difficoltà ad astrarre. Questo abbasserebbe il suo punteggio generale del QI ma potrebbe far dire che la persona è più o meno intelligente?

Questo ci porta alla difficoltà stessa di spiegare l’intelligenza. La definizione più condivisa descrive l’intelligenza come una generale funzione mentale che, tra l’altro, comporta la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e apprendere dall’esperienza. Non riguarda solo l’apprendimento dai libri, un’abilità accademica limitata, o l’astuzia nei test. Piuttosto, riflette una capacità più ampia e profonda di capire ciò che ci circonda – “afferrare” le cose, attribuirgli un significato, o “scoprire” il da farsi. Già questa definizione apre scenari interpretativi che la misurazione del QI chiude. E’ possibile definire poco intelligente una persona che è perfettamente adattata al suo ambiente ma che per, gli standard, non ha un QI elevato? Prendiamo come esempio un contadino analfabeta. Se testassimo la sua intelligenza coi test, probabilmente avrebbe un punteggio molto basso. Questo ci porterebbe ad affermare che è una persona poco intelligente. Quella stessa persona, nata e cresciuta all’interno del lavoro e dell’ambiente nel quale vive, è invece assolutamente adatta, afferra le cose, gli attribuisce un significato e sa come muoversi per scoprire il da farsi. Magari, data la natura molto pratica e materiale della maggior parte dei suoi ragionamenti quotidiani, non sarà in grado di fare grandi astrazioni, ed è anche possibile che non riesca a comprendere il senso se qualcuno gli leggesse un testo. Questo lo rende non intelligente nel mondo all’interno del quale vive? No, perché all’interno del suo mondo è una persona estremamente adattata. Questa è una delle critiche più forti a quello che è il concetto di intelligenza. Intelligenza è anche la capacità di adattarsi e di sopravvivere, la capacità cioè di inserirsi all’interno di un ambiente ed utilizzare o sviluppare strategie che consentano appunto la nostra sopravvivenza  Se la capacità di astrazione non risulta fondamentale per questo, come potremo considerare una persona sprovvista come poco intelligente? Chi volesse approfondire il tema sulle controversie legate alla misurazione del QI può cliccare qui.

Alla luce di quanto fin qui detto, ho trovato particolarmente interessante l’articolo riportato dal Corriere della Sera riguardante appunto la messa in discussione del valore di questo tipo di misurazioni. In esso si riportano i risultati dello studio di Adrian Owen del Western’s Brain and Mind Institute, che in uno studio pubblicato sulla rivista Neuron ha appunto messo in discussione il valore del QI.  Lo studio di Owen è impressionante per il numero di persone coinvolte, ben centomila, che partecipando allo studio (sull’articolo potete trovare tutti i link che rimandano allo studio stesso) arrivano a fargli dire come nessuna componente da sola, tanto meno l’IQ, può spiegare tutte le capacità e l'”intelligenza” di un soggetto – spiega il ricercatore -. Dopo aver esplorato una tale mole di abilità cognitive, possiamo dire che le variazioni nelle performance sono imputabili a tre distinte componenti, ovvero la memoria a breve termine, il ragionamento e la capacità di verbalizzazione. Misurare l’intelligenza con un singolo test, qualunque esso sia, può dare perciò risultati fuorvianti.

L’autore avrebbe anche analizzato l’influenza dei videogiochi sul funzionamento del cervello (favorirebbero la memoria a breve termine ed il ragionamento) e sconfessato l’utilità dei cosiddetti brain training che non apporterebbero differenze significative sulle capacità generali. Vi segnalo che è in corso anche il nuovo studio sull’intelligenza: chi volesse saperne di più od iscriversi clicchi qui.

Insomma una serie di evidenze che quantomeno dovrebbero farci ridimensionare l’importanza che questo tipo di test hanno nella valutazione di abilità complesse tra le quali abbiamo l’intelligenza. E’ evidente come uno strumento di standardizzazione sia assurto a valutazione delle capacità, delle competenze, in ultima analisi del valore di una persona. E ci deve essere una stortura nel momento in cui uno strumento di misurazione raggiunge una tale potenza

L’articolo come vi dicevo è del Corriere della Sera.

Se voleste leggere l’articolo cliccate qui

Che ne pensate?

A presto

Fabrizio Boninu

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Adolescenti e adulti competenti: la risposta di una mamma

Adolescenti e adulti competenti la risposta di una mammaSicuramente ricorderete l’articolo di qualche tempo fa Adolescenti e adulti competenti (clicca qui per andare direttamente all’articolo). In esso si parlava della possibilità che preadolescenti e adolescenti potessero eleggere  degli adulti competenti tra quelli conosciuti e che questi adulti potessero dimostrarsi fondamentali nella crescita e come esempio per i ragazzi stessi. Naturalmente l’essere competenti non è dato semplicemente dall’essere scelti, quanto da una serie di competenze e attenzioni (la capacità di ascolto, l’assenza di giudizio, il non essere ‘cattedratici’, l’empatia ecc) che l’adulto stesso deve poter dimostrare di possedere e tramite le quali riesca a relazionarsi. Devo aver toccato un tasto dolente, con quell’articolo perché ho ricevuto diversi riscontri circa quello che ho scritto. Uno in particolare, la lettera di una mamma, mi ha colpito e volevo riportarvele integralmente:

Gentile Dott. Boninu,
Da mamma, e quindi prima educatrice dei miei figli, ho letto con profondo interesse l’articolo “Adolescenti e adulti competenti”. La ringrazio per il professionale apporto in materia di educazione, in un campo di cui tanto si scrive e si dice, ma nella realtà i disagi dei giovani vengono per la maggiore addebitati, come una colpa, ai giovani stessi. Tanto basta per deresponsabilizzarci e autoassolverci. Vorrei dire anch’io la mia, esprimendo con semplicità le mie considerazioni, il mio pensiero, sulla base delle tante esperienze di relazione con il mondo della scuola e con altri settori (anche in ambito di studi medici di pedagogia clinica). E’soprattutto come genitore che ho potuto verificare come i problemi di relazione e quindi di comprensione dei nostri figli siano principalmente riconducibili a due fattori: un’assenza di sinergia tra gli educatori coinvolti nel loro percorso di crescita, quindi uno scollegamento, una insufficiente comunicazione tra gli stessi adulti che giocano per loro i principali ruoli educativi. Da qui ne deriva, purtroppo, la scarsa credibilità di cui godono gli adulti da parte dei bambini e dei giovani in genere. Inoltre, ho spesso modo di verificare quanto gli educatori si diano da fare per adempiere ai loro doveri di protocollo, dimenticando l’universo emozionale dei diretti fruitori del loro servizio. Un preoccupante indirizzo di educazione monodirezionale sta prendendo sempre più piede, sulla base del fatto che si debba trattare tutti “allo stesso modo”, appiattendo e omologando delle personalità in formazione, lasciando pericolosamente inosservata la meravigliosa unicità che contraddistingue ogni essere umano. Sono convinta che il materiale in materia di buone strategie educative non manchi, a partire dalle stesse convenzioni internazionali che sanciscono i diritti del fanciullo. Basterebbe soltanto desiderare di conoscere i nostri bambini e ragazzi, di tacere, saper fare silenzio, mettersi in ascolto delle loro voci, delle loro passioni, occupare meno spazio e lasciare a loro quello indispensabile alla loro allegria e creatività, perché soltanto così possiamo conoscerli, e ci insegnerebbero loro ad essere dei bravi educatori, molto più che i manuali. Basterebbe essere molto, molto umani, prima che professionali. Saremmo, così, degli adulti più credibili, modelli umani per un mondo più umano e compatibile con il loro universo emozionale.
(…)
Michela

Come non essere colpiti dalla lucidità con la quale Michela centra il punto dell’argomento? Le questioni sono proprio queste: assenza di sinergia tra coloro i quali dei ragazzi si occupano (scuola, famiglia, sport,) e un forte disinteresse, per incapacità, per fretta, per superficialità, per il mondo emotivo dei ragazzi, spesso bollato come sciocco o inconcludente. A questo si aggiunga la citata capacità autoaasolutoria nel momento in cui, alle prime difficoltà nella relazione, attribuendo la responsabilità di quello che sta avvenendo all’altro e non riuscendo a capire quale sia il nostro ruolo in quella relazione, finiamo col non volercene più occupare. O pensare che siano ‘impazziti’ a causa dell’adolescenza stessa. Questa mail mi sembra particolarmente significativa, però, di un atteggiamento decisamente più consapevole, di come la coscienza di questo tipo di problematiche stia non solo aumentando ma anche necessariamente stimolando un confronto che, spero, possa portare alla riconsiderazione della costruzione delle relazioni con ragazzi/e adolescenti.

Credo che l’obiettivo debba necessariamente essere quello di recuperare la capacità critica di come ci confrontiamo coi ragazzi e di come possiamo migliorare il nostro contributo per costruire rapporti più apprezzabili da parte di entrambi gli attori in gioco. Solo percorrendo questa impervia strada, che comporta l’abbandono da parte degli adulti dell’idea deresponsabilizzante che noi non c’entriamo nulla ma che siano loro così ‘strani’, potremmo ambire sul serio al ruolo di adulti credibili, gruppo del quale, per le domande che porge, credo Michela sia un’ottima esponente.

Se qualche altro genitore potesse/volesse comunicare la sua esperienza è, naturalmente benvenuto.

A presto…

Fabrizio Boninu

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I no che aiutano (i genitori) a crescere (2)

I no che aiutano (i genitori) a crescere (2)L’autrice spiega questa incapacità ad assumere il ruolo genitoriale come una continua giovinezza che non permette ai genitori di collocarsi nella fascia adulta. Credo sia vero, soprattutto considerando il peso che la nostra società pone sempre più di frequente sul mito dell’eterna giovinezza, sull’abbaglio che si possa essere giovani per sempre. Nella società italiana vi è spesso poi la tendenza a rimanere figli anche in età adulta, e questo viversi figli rende ancora più complesso focalizzare le funzioni genitoriali nel momento in cui si diventa effettivamente genitori. I futuri genitori crescono quindi in una sorta di immaturità emotiva che, non permettendo loro di percepirsi appieno come adulti, non lascia loro spazio per costruire ed interiorizzare un’immagine di se stessi come genitori. Questa può essere una delle cause per cui poi si assiste ad un continuo oscillare tra posizioni amicali e posizioni genitoriali che spesso non ha altra conseguenza se non quella di disorientare i figli.

Il rischio è che i figli si trovino appunto a dover fare i conti con genitori non del tutto consapevoli del ruolo che ricoprono e che i genitori non siano in grado di assumere gli aspetti più problematici (i no appunto!) e non si trovino a dovere marcare una funzione, quella genitoriale, con la quale, abbiamo visto in precedenza, si ha spesso difficoltà ad interagire proprio perché segna inesorabilmente il nostro passaggio nell’età adulta. Si dice spesso che i genitori crescano con i figli: credo avvenga proprio in questo movimento: le continue richieste dei figli obbligano un genitore a prendere posizione rispetto al proprio ruolo. E abbiamo già delineato come la non accettazione del proprio ruolo adulto di guida possa, non essendo stato riconosciuto ed accettato, creare problemi al genitore stesso che si trova nella condizione di non saper fronteggiare queste richieste. Nella crescita è soprattutto l’adolescenza il periodo che più influisce su questo equilibrio perché muta i rapporti all’interno della famiglia. Le dinamiche diventano più complesse perché alla crescita dei figli corrisponde la marcatura del ruolo adulto dei genitori stessi che si trovano dunque a dover accettare de facto una condizione per cui spesso non si sentono pronti. Il rischio è che nascano conflitti e che si esacerbino proprio nel momento in cui lo scontro generazionale è più esplicito.

In questo fase dovrebbe giocare un ruolo fondamentale la presenza genitoriale, perché contenitiva rispetto alle tensioni che questo momento vitale comporta nella vita delle famiglie. Un ‘buon’ genitore è il genitore che, consapevole del ruolo che ricopre per il proprio figlio, è in grado di accollarsi gli onori e gli oneri della sua posizione, riuscendo a creare una relazione con il proprio figlio senza che questo comporti l’annullamento della distanza generazione o funzionale all’interno della famiglia stessa. Un genitore che fa il compagno grande del figlio probabilmente non dovrà fare i conti con la messa in discussione da parte del figlio adolescente ma altrettanto probabilmente non sarà riuscito ad assolvere in pieno alla sua funzione genitoriale. 

L’importanza dell’adulto risiede proprio nel suo compito di ‘traduttore’ della realtà, di ‘potenziatore’ di soluzioni alternative, di ‘sostegno’ emotivo, oltre che cognitivo, alla capacità di prendere decisioni: azioni fondamentali per affrontare compiti evolutivi richiesti dalla crescita! [1]

In conclusione ci è stato detto in un famoso libro quanto i no aiutino i figli a crescere [2]. Forse bisognerebbe iniziare a pensare quanto quegli stessi no aiutino a far crescere anche i genitori di quei figli.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, GiuntiDemetra, Firenze, pag. 96

[2] Phillips, A. (2003), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano 

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I no che aiutano (i genitori) a crescere (1)

I no che aiutano (i genitori) a crescere (1)A quale genitore non è mai capito di dover dire ‘no’ al proprio figlio? Il post di oggi cerca di occuparsi proprio di questo: quanto sia difficile per un genitore dire di no, ma da un punto di vista diverso: quanto i no costino al genitore stesso. Questo è uno dei temi più dibattuti ultimamente riguardo l’educazione dei propri figli. Quando un genitore deve dire di no? L’argomento, come dicevo, è dibattuto da tempo perché è uno degli interrogativi su cui ci si interroga di più: è necessario dire qualche volta di no o è meglio accogliere le richieste dei figli? Diverse le tendenze: da una parte coloro che si prodigano per l’accettazione incondizionata di qualunque richiesta da parte dei figli, dall’altra coloro che invece ritengono che i genitori debbano mantenere una sorta di ‘distacco genitoriale’ rispetto ai figli. Naturalmente, come in tutti gli estremi, la soluzione potrebbe trovarsi nella mediazione ed è forse necessario cercare di considerare quella che è l’utilità di alcuni no e l’utilità di alcuni si. Il tema di questo post però voleva focalizzarsi non tanto sulla capacità dei genitori di accogliere le richieste dei figli quanto sulla capacità o meno dei genitori di riuscire a farlo.

In altre parole l‘argomento vuole essere non tanto un ragionamento sui diversi stili di educazione che i genitori possono assumere nei confronti dei figli, quanto piuttosto quella che appare spesso come un’incapacità di accettare il proprio ruolo da parte dei genitori stessi. Essere genitori significa spesso anche sobbarcarsi le parti ‘spiacevoli’ che la posizione comporta. Molti genitori ritengono invece di poter ovviare alla complessità del proprio ruolo semplicemente diventando amici dei loro figli e non si preoccupano quindi di quelle che possono essere le conseguenze di quello che dicono loro. Non sembrano essere in grado dunque di prendere in considerazione quello che è il ruolo di responsabilità che l’essere genitore spesso comporta. Questo necessariamente significa prendere delle posizioni, che spesso possono essere scomode, e tenere ferme queste decisioni. Mantenere queste posizioni non è per niente facile ed è più semplice ovviare con una posizione intermedia (la posizione amicale) che però disorienta i ragazzi che, crescendo, hanno bisogno di un modello adulto al quale confrontandosi (avvicinandosi o allontanandosene) ma col quale comunque prendere le misure. Se questo modello è un surrogato della loro cerchia amicale come può avvenire un processo di crescita equilibrato? Svolgere un ruolo genitoriale significa spesso utilizzare dei no, no che definiscono delle regole, dei confini, degli equilibri che spesso si ha timore a mantenere

Vi riporto un brano del libro Scuola: istruzioni per l’uso che descrive bene quello che cerco di dirvi riguardo al ruolo genitoriale:

Chiedo ai genitori: perché un figlio non dovrebbe avere un tempo per giocare, un tempo per interrompere i giochi, un tempo per aiutare, un tempo per studiare, un tempo per andare a letto? Perché dovrebbe essere così pericoloso dire un ‘no’ senza chiedersi, allarmati, quale trauma si stia provocando? Ho l’impressione che l’adulto oggi sia più fragile, abbia un’eccessiva paura di sbagliare e rimandi ad altri la responsabilità di porre limiti. Il sentirsi tutti un po’ più giovani delle precedenti generazioni, il dimostrare meno anni di quelli che si hanno, per cui oggi a cinquant’anni se ne possono mostrare anche dieci di meno, rischia di farci assumere atteggiamenti mentali non consoni all’essere comunque adulti. Non mi interessa che abbiate ben chiaro cosa si vuole quando si è adolescenti: (…), nostro figlio ha bisogno di un genitore, non di un amico, o di un adulto che fa l’adolescente. Nel momento che diventiamo genitori, perdiamo il diritto a rimanere adolescenti spensierati, trasgressivi e senza confini. Questa è la condizione dei nostri figli. Loro si aspettano un adulto, certamente comprensivo, disposto al dialogo, all’ascolto, ma autorevole e stabile. Un modello con cui rapportarsi, da imitare in qualche momento e da combattere in altri. I figli non sono i nostri giocattoli, neppure cavie per vedere cosa vuol dire essere genitore! L’essere genitori è un’eccellente esperienza, un viaggio magnifico, una ricerca coinvolgente, una continua trasformazione anche per noi stessi per condividere le tappe evolutive dei nostri figli, ma accompagnandoli, in quanto persone adulte, contenendoli, indirizzandoli, ben convinti che non saranno (e non dovranno essere) le nostre copie e neppure la realizzazione dei nostri desideri! [1]

– Continua –

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, GiuntiDemetra, Firenze, pag. 168

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Io censuro

Io censuroRicevo, qualche mese fa, un commento ad un mio articolo riguardante i terapeuti riparatori. In questo post sostenevo la pericolosità, per l’intera categoria professionale, dei colleghi che, reputandosi depositari di una verità da imporre agli altri, si trovano a voler cambiare e a voler guarire aspetti della personalità che da tempo sono stati derubricati nella comunità scientifica dalle categorie di patologie mentali.  (Il post è stato pubblicato il 14.07.2013. Clicca Il terapeuta riparatore per leggere l’articolo). Nel commento mi si accusa di “nascondere e sottrarre risposte”, perciò ho pensato che la pubblicazione integrale, ed una integrazione, dello scambio non possa che fugare i possibili dubbi di qualsivoglia censura operata da parte mia.

Questo il commento: Repubblica quest’anno ha pubblicato una lettera di un ragazzo “omosessuale” che “riteneva la sua condizione una sfortuna e diceva di avere pensato al suicidio. E’ UNO SCANDALO che a questi ragazzi non venga detta la verità e cioè che Jung e Adler, i pilastri della psicananalisi curavano l’omosessualità. Quanto agli psicanalisti che l’hanno curata e la curano dal 1950 al 2014, e che hanno scritto abbondantemente su questo, un piccolo elenco – MOLTO parziale – è il seguente: EDMUND BERGLER, ELIZABETH MOBERLY, CHARLES SOCARIDES( HOMOSEXUALITY A FREEDOM TOO FAR, IRVING BIEBER( HOMOSEXUALITY A PSYCHOANALITIC STUDY), BENJAMINK KOFFMAN , JANELLE HALLMAN, DEAN BYRD, RICHARD COHEN ( COMING OUT SRAGHT), JOE DALLAS, BOBBY MORGAN, STANTON JONES, JEFFREY SATINOVER, JOSEPH NICOLOSI (SHAME AND ATTACHMENT LOSS), JOHN LAWRENCE HATTERER( CHANGING HOMOSEXUALITY IN THE MALE),ETC…

SPERO CHE PRIMA O POI QUALCUNO CHIEDA GIUSTIZIA DELL’OCEANO DI CONOSCENZE E INFORMAZIONI CHE GLI PSICOLOGI – COME LEI – HANNO SISTEMATICAMENTE NASCOSTO E SOTTRATTO AI RAGAZZI IN CERCA DI RISPOSTA.

Questa la mia risposta: Salve Federico, benvenuto. Guardi l’unico scandalo di questa sua mail è la scortesia del tono che usa. E’ a conoscenza del fatto che scrivere tutto in maiuscolo equivale ad urlare? E ancora sostiene che io nasconda informazioni. Le sembra che se volessi nascondere informazioni creerei un blog pubblico? O pubblicherei il suo commento? Ma veniamo a noi. Capisco la spinosità dell’argomento, e sono a conoscenza del fatto che molti miei (ben più illustri) colleghi hanno sostenuto la curabilità dell’omosessualità (con risultati che definire discutibili è un puro eufemismo). Non conosco le loro motivazioni, anche se per molti di loro giocò un ruolo rilevante la fede o l’età. Elizabeth Moberly era teologa per esempio. Parliamo di come una realtà personale venga traslata su questioni sociali. Ben altro numero di colleghi ha di fatto smentito una volta per tutte questo delirio patologizzante, depennando definitivamente l’omosessualità nel 1973 (41 anni fa) quando l’American Psychiatric Association rimosse l’omosessualità dal DSM (il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), negando così la sua precedente definizione di omosessualità come disordine mentale (fonte Wikipedia).

Tutto il resto sono illazioni non più approvate dalla comunità scientifica. Lei è naturalmente libero di credere ciò che vuole, ma la differenza tra me e lei è che io non voglio imporre le mie risposte su quella che è la vita di un’altra persona per cui l’unica cosa che mi sento di fare è provare un profondo rispetto. E stia pur certo che nessuna mia risposta influenzerà le scelte delle persone che ho la fortuna di incontrare nel mio lavoro. Grazie per l’intervento!

Potremmo aggiungere un riferimento particolare su Joseph Nicolosi, uno dei massimi esponenti delle cosiddette terapie riparative. Nicolosi, psicologo statunitense, è noto essenzialmente per le sue teorie riparative sull’omosessualità. Nicolosi ha espresso la strategia nella sua interezza, ne ha indicato scopi, metodi ed esiti, rispetto ai quali è molto più lucido dei suoi seguaci, preferendo al termine ‘guarigione’ quello più ambiguo e confusivo di ‘cambiamento’.  Le sue posizioni sono inequivocabili, al contrario di quelle dei nuovi terapeuti fautori della ‘terapia dell’identità sessuale’, che sembrano prendere le distanze da lui, apparendo meno drastici e netti, ma in realtà sostengono la promozione dell’eterosessismo sociale (e di conseguenza l’omonegatività che ne è corollario). Nicolosi basa il suo insegnamento sulla pretesa di essere ‘scientifico’, laico persino, sottacendo le premesse fondamentaliste, da lui poste come un dato di fatto indiscutibile. Da lui tutti i vari movimenti, religiosi e no, hanno preso ispirazione e alimento. [1]

Il guaio delle teorie riparatorie è che, avendo come premessa il fatto di sapere cosa sia o non sia giusto per l’altro, cercano di imporre una soluzione, una ‘cura’ per l’appunto su quello che è il sentire dell’altro. Non avendo alcuna verità in tasca, penso semplicemente di poter cercare di comprendere, più che cambiare o guarire, la persona che mi si siede davanti ed, in generale, le persone che incontro. Diffido di coloro che pensano di poter guarire o modificare l’altro perché non condivido nulla della loro premessa epistemologica: io so cosa è giusto fare per te. Se pensate che debba fare questo non rivolgetevi a me perché, semplicemente, non sono  in grado di (e non voglio!) farlo! E spero che questo post chiarisca una volta di più come la censura non mi appartenga, per quanto le idee o le posizioni di cui si parla siano agli antipodi dal mio modo di pensare.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1]Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pag. 15

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Violenza su internet, consapevolezza e ascolto…

Violenza su internet, consapevolezza e ascolto...Non so se avete fatto caso, ma lo stillicidio di notizie di questo tipo è ormai quotidiano. Quasi tutti i giorni accade che una vicenda, condivisa su internet e sui diversi social network, qualunque sia il tema o l’argomento trattato, scateni una massa di commenti spesso triviali, retrogradi, incolti che lasciano attoniti. Non c’è alcuna remora nell’insultare, nel denigrare, nell’offendere persone che non si è mai conosciuti. Io stesso ho avuto esperienza diretta di questo modus operandi di molte persone: offese del tutto gratuite, scherni e dileggi semplicemente perché non si condividevano le mie posizioni.

Fin qui, direte, nulla di nuovo sotto il sole. Ho già affrontato l’argomento della deriva aggressiva del confronto su internet (clicca qui per saperne di più). La novità è che vorrei legare questo atteggiamento, che secondo me è la punta di un iceberg ben più grosso, con altri episodi che vedono protagonisti ragazzi adolescenti e internet. Convinto che l’associazione non sia per nulla casuale, si assiste anche in questo caso in maniera esponenzialmente sempre più frequente, ad episodi nei quali ragazzi (o ragazze naturalmente) adolescenti o preadolescenti condividano e diffondano loro foto private personali in atteggiamenti intimi, soli o con altre persone coetanee. Il mezzo informatico è ormai utilizzato quotidianamente da quasi tutti noi. E’ entrato a far parte della nostra esperienza giornaliera, un po’ come utilizzare il frigo o utilizzare la luce elettrica. Come tutti gli automatismi, non ci rendiamo neanche conto di utilizzarlo se non accadono degli intoppi nel suo stesso utilizzo. In questi casi però, quando ci si rende conto dell’intoppo, il danno è ormai fatto. E quando le conseguenze sono tragiche, gli ‘intoppi’ sono particolarmente pesanti. E’ accaduto a Cagliari all’inizio del mese di Febbraio, un fatto di cronaca particolarmente sconcertante: una ragazza di 16 anni pone fine alla sua giovane vita. Poco tempo e iniziano a comparire sulla sua bacheca di Facebook insulti e derisioni rispetto a quanto successo. Suoi stessi coetanei si avventuravano in battute di scherno e di irrispetto in un momento tragico. La domanda che mi ronzava in mente era: a cosa è dovuta quest’insensibilità? Cosa spinge dei ragazzi perfettamente ‘normali’ a compiere atti di questo tipo? Cosa spinge le persone ad insultarsi in maniera pesantissima su Internet qualunque sia l’argomento del quale si parla? Abbiamo parlato di insulti su internet, di atti osceni diffusi tramite internet e di cyberbullismo. Cosa unisce questi tre fattori?

Fondamentalmente credo che alla base di tutto questo ci sia la totale inconsapevolezza del mezzo che si sta utilizzando. Questo aspetto può riguardare sia adulti che ragazzi ma in questo post voglio concentrarmi sui secondi. Soprattutto i ragazzi, si trovano spesso soli a maneggiare e a gestire un mondo che è assolutamente più grande di loro e per il quale nessuno ha fornito loro uno strumento di comprensione. All’interno di Internet tutto sembra un gioco, tutto sembra facile, tutto sembra a portata di clic, tutto sembra possibile, e niente sembra avere conseguenze: tanto quella cosa li non è ‘reale’. È una realtà virtuale dalla quale si può uscire nel momento stesso in cui lo si desidera. Questo pensiero si trasforma spesso in una trappola. Un tempo la fruizione di internet era limitata all’uso di un pc: ora l’accesso ad internet è praticamente costante attraverso i telefoni. Molti ragazzi ne possiedono uno e hanno piani tariffari che consentono la navigazione su internet costantemente. Naturalmente molti pochi adulti si preoccupano di spiegare o di stare vicino a questi ragazzi nell’uso di tanta potenza. L’inconsapevolezza dei ragazzi, infatti è specchio dell’inconsapevolezza dei tanti adulti che non si preoccupano minimamente di aiutare o di dare degli strumenti di comprensione a questi ragazzi. Probabilmente non avendone avuto a loro volta. Sarebbe come se mettessimo loro in mano un’arma non spiegando come funziona, e stupendoci poi che l’uso di quest’arma possa provocare feriti o, peggio, morti. Ed anche questo è solo la punta di un disinteresse totale che il mondo degli adulti rivolge ai suoi ragazzi.

Presi da mille incombenze e, non di rado, spaventati dalla loro crescita, troppi adulti semplicemente li lasciano a loro stessi, senza nessun sostegno e senza nessun supporto, non fornendo loro nessuno strumento per capire il mondo all’interno del quale stanno iniziando a muoversi. Questo disorienta moltissimo i ragazzi che si trovano a non avere figure adulte di riferimento con le quali potersi confrontare e impedisce loro di acquisire la consapevolezza e l’autonomia necessarie nel mondo adulto. L’unica soluzione è un ripensamento totale del patto generazionale tra adulti e ragazzi. Stare loro vicini, fornire loro un orecchio (e un cuore) che li ascolti può veramente fare la differenza. Sento già l’obiezione che mi si potrebbe muovere, sopratutto da parte di chi ha figli adolescenti: ‘Ma io cerco di ascoltare mio figlio e lui che non vuole ascoltare o parlare con me!’. Cosa fare in questo caso? Non reputo necessario che l’adulto di riferimento sia uno dei due genitori. Succede spesso che durante l’adolescenza i ragazzi abbiano bisogno di disconfermare le figure genitoriali e debbano in questo senso metterglisi contro. Sta all’intelligenza degli adulti capirlo e trovare una ‘figura adulta fiduciaria’ che il ragazzo riconosce come degno di stima e del quale i genitori stessi si fidino. Attenzione, non sto parlando solo di psicologi: potrebbe essere un amico/a dei genitori, un parente, un allenatore qualcuno che possa fungere da intermediario tra la figura genitoriale e il ragazzo. Una persona che possa servire da riferimento ed affiancare i ragazzi nella consapevolezza di quello che stanno facendo.

Confrontandomi spesso, per motivi professionali, con la realtà di ragazzi pieni di tutto ma sostanzialmente abbandonati a se stessi, credo che qualunque passo fatto nella direzione di ascoltarli e supportarli non possa non essere l’obiettivo condiviso di ognuno di noi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il Killer invisibile (2)

Il Killer invisibile (2)Che pensate dopo avere letto questo allarmante trattato sulla pericolosità del monossido di diidrogeno? Probabilmente starete pensando alla necessità di controllare in quali alimenti esso è contenuto. Posso aggiungere che è contenuto in tutti gli alimenti che avete in casa. Qualunque sia l’alimento lo contiene. E, a pensarci bene, anche voi siete in buona parte formati dal monossido di diidrogeno. Il nome comune con il quale viene indicata questa sostanza è…. acqua. Monossido di diidrogeno è il nome chimico dell’acqua formata da un atomo di ossigeno (monossido) e due di idrogeno. Naturalmente, se rileggeste tutto il brano tenendo in considerazione che stiamo parlando solo di acqua, nulla di ciò che c’è scritto è in se falso. Per esempio è vero che l’acqua è ampiamente utilizzata nella produzione di Coca Cola, oppure che viene addizionata al vino. E’ vero che se ne fosse impedita la commercializzazione questo avrebbe conseguenze nell’economia mondiale, è vero che è pericolosa se viene a contatto con l’olio bollente, è vero che viene utilizzata nelle centrali nucleari. Tutto ciò che non è vero è il contesto o i toni con le quali sono state messe assieme diverse informazioni. Notate come l’uso di luoghi comuni divenuti vere e proprie fobie mondiali generi sospetto.

Parlare genericamente di multinazionali mondiali americane, Fondo Monetario Internazionale, Germania nazista, Organizzazione mondiale per il commercio, nominando alcuni presunti esperti senza fornire un minimo di prove o di bibliografia circa quello che stanno sostenendo, ingenera tutta una serie di aspettative in noi che porta semplicemente a temere ciò di cui stiamo parlando. Lo scopo di questo post è quello di cercare di portare l’attenzione su quello che è il modo di raccontare le cose. Il nostro raccontare (e raccontarci) costruisce la nostra realtà e quello delle persone che leggono (o ascoltano) quello che stiamo dicendo. Su internet, sui social network in particolare, circolano una serie di articoli la cui caratteristica è quella di ingenerare false aspettative o falsi timori. Raccontano di realtà misteriose, di cose pericolose, di sostanze inquinanti, di timori.

Il mio invito è quello di utilizzare al massimo il pensiero critico. Non aderiamo ciecamente a questi appelli. Non crediamo ciecamente a ciò che ci vien detto. Non beviamoci completamente tutto ciò che ci viene raccontato. Qualsiasi cosa, se decontestualizzata, può essere resa ‘misteriosa’ e ‘pericolosa’ come potete aver visto con l’acqua. Qualsiasi cosa può essere travisata, anche se è stata scritta con le migliore intenzioni. Viene da chiedersi del perché di tutto questo. Perché abbiamo bisogno di un pensiero così uniformato? Perché sembra che, proprio nel momento storico in cui abbiamo un accesso all’informazione che altre generazioni potevano solo immaginare, abbiamo la necessità di uniformarci acriticamente a quello che ci viene detto?

Oltretutto questo avviene facendosi guidare da emozioni come paura, timore ecc che spesso questi articoli suscitano in noi. Ho già affermato come credo fermamente che siamo i costruttori del nostro mondo: siamo noi che ci raccontiamo come funziona il nostro mondo e finiamo, in questo per crederci. Perché lasciare allora questa possibilità agli altri? Non lasciamo che altri instillino in noi timori che risuonano con le nostre ansie o con le nostre fobie. Diventare costruttori attivi del nostro mondo è assolutamente necessario e comporta una trattazione critica di quello che sentiamo o leggiamo. Sempre che il bisogno di credere fermamente all’altro non sia un modo per proteggerci da alcune cose di noi come, per esempio, la nostra assenza di opinione, oppure il peso di avere responsabilità. Ma credo sia un altro discorso sul quale, naturalmente, avremo modo di tornare. Torniamo costruttori attivi della nostra realtà: servirà per non perderci in un bicchiere di monossido di diidrogeno!

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il killer invisibile (1)

Il killer invisibile (1)Il post di oggi riguarda un pericolo forse sottovalutato. Vi riporto il brano di un libro che affronta il problema.

Nel nostro paese ancora non se ne parla molto. Le associazioni ambientalistiche nostrane forse lo ritengono un argomento secondario rispetto ai pericoli ben maggiori rappresentati dall’elettrosmog o dagli OGM, ma all’estero la consapevolezza riguardo ai pericoli di questa sostanza, ribattezzata “il killer invisibile”, sta montando rapidamente. Sto parlando del monossido di diidrogeno (non è un errore di stampa: si scrive proprio così). Come il suo cugino, il terribile monossido di carbonio, questa sostanza è incolore, inodore e insapore, e uccide, spesso per eccessiva inalazione ambientale, svariate migliaia di persone ogni anno. Le informazioni riguardanti questo pericoloso composto sono apparse sinora solo sporadicamente sugli organi di stampa italiani, quindi mi sembrato opportuno dedicargli un capitolo apposito, anche nella speranza che coloro che si battono per l’ambiente e la salute pubblica inizino a considerare seriamente i pericoli rappresentati da questa sostanza chimica è ad inserirli nella loro agenda politica. Un libro recente, Chemistry, health and environment, riassume bene il problema, spiegando che il monossido di diidrogeno o DHMO, usato ampiamente nelle centrali nucleari e impiegato come solvente industriale, è il componente principale delle piogge acide, è uno dei responsabili dell’effetto serra, contribuisce all’erosione del suolo e dei paesaggi naturali. È presente nelle falde acquifere, dove penetra tramite la pioggia, arriva nelle nostre case, entra le nostre cucine dei rubinetti e finisce nei nostri cibi.c È molto difficile evitare la contaminazione perché, a differenza di altre molecole che possono essere filtrate, il DHMO si miscela completamente con l’acqua. Può causare ustioni anche gravi e ne è stata trovata traccia all’interno delle cellule tumorali.

Ecco le informazioni riportate dal Material safety data sheet, una raccolta autorevole di dati sulla tossicità di moltissime sostanze chimiche:

il monossido di diidrogeno è un prodotto non regolamentato, ma reagisce violentemente con alcuni metalli, come il sodio e potassio. Con il fluoro e con alcuni agenti disidratanti come l’acido solforico. Forma un gas esplosivo con il carburo di calcio. Si raccomanda di evitare il contatto con materiali di cui non si è prima verificata la compatibilità.

Il testo omette di dire che, a contatto con il sodio, il DHMO sviluppa gas idrogeno, elemento di cui è ricco, con il forte rischio di esplosioni. Ricordo che al liceo, durante le lezioni nel laboratorio di chimica ci divertivamo (incoscienti!) a incendiare l’idrogeno prodotto dalla reazione. Il DHMO diventa molto pericoloso se viene in contatto con l’olio bollente. Possibile,  vi chiederete, che nessuno faccia nulla perssare almeno una soglia di tolleranza generalizzata? Il monossido di diidrogeno ebbe un’importanza fondamentale per i nazisti.  Durante la seconda guerra mondiale la Germania non poteva accedere alle normali fonti di petrolio e aveva il grosso problema di produrre carburanti. Perfezionando un processo chimico chiamato “Fischer-Tropsch”, dal nome dei due chimici inventori, si tentò di produrre sostanze convertibili in benzina a partire dal monossido di diidrogeno e dal carbone, materia prima di cui la Germania era ricca. (…) Oggi alcuni economisti sostengono che bandire dal commercio il monossido di diidrogeno avrebbe conseguenze gravissime per l’economia mondiale, ma c’è chi insinua che questi esperti siano troppo vicini alle posizioni dell’Organizzazione mondiale del commercio e del Fondo Monetario Internazionale per essere credibili. Addirittura alcuni di loro hanno contratti di consulenza per grandi multinazionali. Forse la situazione risulta più chiara se coiamo che questa sostanza viene ampiamente utilizzata nella produzione di Coca Cola e di altre bevande gassate. E’ ovvio che le multinazionali alimentari, specialmente americane, non possono permettere che sia messa al bando. Tra l’altro, è una molecola comunemente presente in natura, anche se i chimici hanno trovato il modo di sintetizzarla artificialmente. Tornando agli alimenti, viene a volte addizionata al vino, secondo una pratica che risale all’antica Roma. La storia delle sofisticazioni alimentari è molto lunga: i romani già mescolavano il vino con l’acetato di piombo per renderlo più dolce. Aggiungendo che il monossido di diidrogeno creavano una miscelato tossica. Per fortuna alcuni alimenti come l’olio extravergine di oliva ne sono privi, ma è presente nel latte che comperiamo dalla grande distribuzione. L’industria però ha cominciato a produrre latte senza monossido di diidrogeno per l’alimentazione dei neonati. Il burro è uno dei pochi elementi in cui la presenza di questa sostanza è regolamentata da una soglia massima fissata per legge, mentre la panna da cucina a lunga conservazione venduta nei supermercati ne contiene sicuramente. Poiché è presente nel latte, il monossido di diidrogeno si ritrova in tutti latticini, anche nelle mozzarelle di bufala campana DOP. I formaggi stagionati ne contengono una quantità inferiore. Che cosa può fare il cittadino informato? Può cominciare segnalando il pericolo alle persone che conosce e che gli sono più care. In altri paesi si stanno già muovendo. Nel 2001 lo staff del deputato al Parlamento Sue Kedgley del partito dei Verdi della Nuova Zelanda, sollecitato da chi si batteva contro il monossido di di idrogeno, si dichiarò “assolutamente d’accordo con la campagna per bandire questa sostanza tossica dalla Nuova Zelanda”. [1]

– Continua –

[1] Bressanini, D. (2010), Pane e Bugie, Editore Chiarelettere, Milano, pp. 43-44

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Facebook fa male?

Facebook fa maleIl post di oggi segnala un articolo comparso su Repubblica che mi ha molto incuriosito. Si parla della possibilità che l’uso intensivo del più famoso social network, Facebook per l’appunto, possa fare male. Forse vi starete chiedendo chi dice questo. Qualche mio collega ha svolto uno studio sui rischi del frequentare troppo assiduamente il social network? Qualche università ha cercato di capire come funzioni la sovraesposizione da Facebook? Niente di tutto questo visto che la fonte di questa notizia è… Facebook stesso. 

Qualche tempo fa proprio sulla pagina di profilo ufficiale dell’azienda fece capolino un messaggio che faceva una correlazione tra il mangiare troppo e l’uso di Facebook. La frase esatta era: “Le torte di compleanno sono fatte dalle persone per stare insieme, mangiarne troppe fa male e Facebook è molto simile alle torte”. Sembra proprio che il social network stesso, consapevole dell’uso fin troppo intensivo che alcuni utenti, specie minorenni possono fare, invitata a non abusare dell’uso del social stesso.

Molti tra gli utenti che hanno letto l’avviso hanno risposto con ironia, molti sono stati infastiditi dall’invito alla moderazione che veniva fatto. E’ pur vero che questo annuncio pone un problema di considerazione di quanto alcuni dei comportamenti compulsivi che vengono coltivati tramite Facebook, possano portare, alla lunga, a dei veri e propri disturbi comportamentali per coloro i quali questi comportamenti attuano senza nessuna consapevolezza.

Sopratutto i ragazzi minorenni, non sembrano del tutto consapevoli circa le conseguenze che un abuso di questo tipo può provocare sulla vita e sui rapporti quotidiani con le persone. Al di là del fatto che non ci siano ancora prove e correlazioni circa disturbi su uso intensivo che questi strumenti possono provocare, valga, anche in questo caso una regola di buon senso: non esageriamo. E, sopratutto per i minori, non lasciamo che passino troppo tempo da soli di fronte ai social network. Se è vero, infatti, che ci hanno cambiato la vita, e lo continueranno a fare creando una piattaforma di condivisione che non ha uguali nella nostra storia, è pur vero che un uso moderato o meglio un uso consapevole del mezzo non possono che rendere questa esperienza ancora più completa e al riparo da eccessi che potrebbero rivelarsi pericolosi.

Qui il link dell’articolo che vi ho citato:

L’articolo è di Ugo Leo, Repubblica.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Chirurgia estetica anti bullismo?

Chirurgia estetica anti bullismoIl post di oggi riguarda una preoccupante tendenza che sembra si stia diffondendo con facilità tra i genitori di bambini presi di mira per difetti fisici che possono andare dalle orecchie a sventola, al naso grosso. Secondo un articolo comparso sul Corriere della Sera, che riporta i dati dell’American Society For Aesthetic Plastic Surgery, l’associazione americana dei Chirurghi Plastici, il numero degli interventi di chirurgia plastica di questo tipo sarebbe aumentato del 30% negli ultimi dieci anni. Nell’articolo, si riporta il caso di Samantha Shaw, sette anni, sottoposta ad un intervento di otoplastica per correggere le orecchie. Questo nelle intenzioni dei genitori doveva servire a far cessare le continue prese in giro dei compagni di classe di Samantha. Ora le considerazioni che vengono in mente sono diverse. Se alcuni di questi difetti sono fisicamente impattanti e disturbanti anche per la conduzione di una vita ‘normale’, ben venga la possibilità di correggere e di rimediare a quello che viene percepito come un problema. E’ anche vero che spesso le continue prese in giro e gli atti di bullismo, soprattutto se focalizzati su una singola persona, possono risultare pesanti e destabilizzanti per l’autostima di una persona che proprio in quegli anni sta formando la sua personalità. E anche vero che nessun genitore immagino vorrebbe vedere il suo bambino deriso e dileggiato per una sua caratteristica fisica. E’ pur vero che anche considerate queste premesse, trovo che la notizia sia in sé abbattente e costituisca una pesante sconfitta educativa non solo per il ragazzo e per i suoi compagni, ma anche per i genitori. Quale messaggio passa in questo modo? Che l’unico modo per non essere presi in giro sia quello di adeguarsi alla richiesta del gruppo? O ci si uniforma o si viene sempre derisi? E quale genitore può considerare questa una soluzione al problema? Anziché intervenire a monte del problema, cercando di educare alla comprensione e al rispetto dell’altro, si interviene a valle, modificando il proprio aspetto per farlo diventare socialmente accettabile. Non so, non mi suona bene tutto questo. Sarebbe come se, dato che il surriscaldamento globale porta allo scioglimento dei poli, ci portassimo avanti sciogliendoli artificialmente. Così il surriscaldamento non potrà più farci nulla. Ecco, siamo sicuri che questa sia la soluzione più adatta? O non è forse un palliativo adatto a non affrontare più in profondità dinamiche che, se non risolte o affrontate correttamente, potrebbero ripresentarsi quando, anziché per il naso, verremo presi in giro per la macchina che guidiamo? Cosa faremo allora? Correremo in concessionaria per cambiarla?

In questo un ruolo fondamentale lo dovrebbero giocare gli adulti, ma temo che il morbo dell’uguaglianza fisica sia in parte frutto della loro visione, una scorciatoia emotiva che permette loro di sentirsi ‘bravi genitori’ per i figli e per non averli fatti soffrire. Certo, può essere assolutamente comprensibile la molla che spinge ad agire in questo modo, ma siamo sicuri che sia un buon esempio per i ragazzi? Credo che l’unica alternativa, anche se più lunga e costosa, sia quello di comprendere e supportare, più che correggere. Comprendere il disagio del ragazzo preso in giro, supportare la conquista di una sua autonomia emotiva che gli consenta di accettare i suoi piccoli difetti fisici come parte di lui anziché errori da correggere. Attraverso la scorciatoia chirurgica forse i risultati sembreranno più immediati ma, dal punto di vista psicologico, probabilmente più labili.

Intanto qui  il link all’articolo:

Naturalmente sono consapevole di quanto il discorso sia complesso e foriero di implicazioni psicologiche e sociali. Spero di aver dato solo uno spunto di riflessione. Qualora voleste raccontare il vostro punto di vista o la vostra esperienza non fareste altro che arricchire il dibattito.

A presto…

Fabrizio

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