Super 8

Super 8Ecco un altro film molto interessante da condividere con voi per le tantissime implicazioni narrative e simboliche che il film stesso rappresenta. Parlo di Super 8 film uscito nelle sale nel 2011. Il regista è J.J. Abrams che molti di voi, probabilmente, conosceranno come ideatore e regista della serie televisiva culto Lost, e prodotto da Steven Spielberg che credo non abbia bisogno di presentazioni. Il film è,narrativamente, apparentemente molto semplice. Tratta della storia di un gruppo di ragazzi coetanei, di 13 anni circa, con una passione condivisa: il cinema. Il loro grande progetto è quello di realizzare un film, per girare il quale usano una pellicola super 8 la stessa che da il titolo al film. Nel girare questo film si ritrovano coinvolti in una storia molto più grande di loro che avrà delle conseguenze non solo sulle loro vite ma su quella di tutta la cittadina teatro del film. Non vi racconto altro per timore di potervi rovinare la trama.

Ripeto, se dovessimo fermarci ad un livello narrativo, il film non sembra raccontare molto di nuovo. Invece, credo che, dal punto di vista simbolico, sia un film ricco di spunti interessanti. Credo che il tema del film sia essenzialmente uno: il diventare grandi. Crescere. Questi ragazzi si trovano alle prese con una serie di problemi tipici della loro età pre-adolescenziale. Innanzitutto la morte (in questo caso sia fisica che simbolica) dei genitori e della loro onnipotenza. Da bambini pensiamo, infatti, che i nostri genitori siano plenipotenziari, che riescano cioè a fronteggiare qualunque tipo di situazione. Fa parte del processo di crescita anche l’idea di perdere questa prospettiva, e riuscire a vederli come esseri umani con le loro forze e le loro debolezze. Nel film abbiamo la morte di un genitore di uno dei protagonisti, che lascia dietro uno strascico di incomprensioni (perché lei?) e di rapporti da ristrutturare. Paradossalmente (o forse no!) la morte fisica non sembra essere causa di una maggiore assenza nella vita degli individui. La madre, infatti, sembra riuscire ad essere molto più presente del padre che, invece, fatica ad adattarsi ai cambiamenti che la nuova situazione impone.

Anche nel rapporto padre-figlio è possibile intravedere una serie di passaggi molti importanti tipici dell’età adolescenziale. Il padre vorrebbe che il figlio andasse in un campo scuola, e si gioca la relazione da un punto di vista genitoriale (so qual’è il bene per te!) che può funzionare quando il figlio è piccolo (e crede nella conoscenza del papà!) ma non quando questa è messa in discussione. Il figlio riuscirà a far capire al padre, ribellandosi, quello che lui stesso vuole e solo dopo questo passaggio sembrano riuscire a riacquistare un rapporto migliore.

Altro tema rilevante è la paura. Anzi Le Paure. La personificazione di una di queste paure (il diverso, l’alieno) pervade l’intero film (non voglio svelarvi altro!) e complica notevolmente la trama. Affrontare queste paure con la forza non porta a nulla se non a rendere la paura stessa ancora più potente nella devastazione. C’è una scena, per me bellissima, nella quale la paura non solo viene riconosciuta, ma accettata e compresa. Ci si può rapportare. Solo allora ci si può accorgere che forse non tutto quello che ci spaventa è brutto, che forse non tutto quello che ci terrorizza può ucciderci. Che, forse, il modo migliore per rendere inoffensive le nostre paure e cercare di maneggiarle, esplorarle e capire come rapportarsi con loro. Così, acquistano un nuovo significato, una nuova prospettiva.

Un altro aspetto altamente simbolico riguarda il fatto che il passato stesso permette di voltare pagina nel momento in cui viene superato e lo si lascia andare. Il protagonista sembra essere bloccato da un medaglione per lui molto importante. In una delle scene finali (ancora le immagini raccontano più di tante parole!), il medaglione troverà una nuova collocazione che sembra infine rendere più libero il suo piccolo proprietario.

E come dimenticare di citare il peso di tanti altri campi della vita che cambiano: gli amici (il gruppo dei pari sembra acquisire, in questa età, un peso pari o superiore a quello della famiglia!), i primi amori ( in quest’età si collocano i primi innamoramenti e le prime delusioni d’amore!), le passioni (girare un film sembra per loro l’esperienza più totalizzante della loro vita!), il peso dell’autorità (sia tramite i genitori che tramite le istituzioni, in questo caso l’esercito). Tematiche che iniziano a far parte della trama della nostra vita proprio in quella fase di passaggio.

Insomma un film che nasconde una complessità di sguardi e di piani che affascina. E che, forse, tenta di riflettere la stessa complessità che quella fase di vita, l’adolescenza, ci porta per la prima volta ad intravedere nella nostra esistenza.

A presto…

Fabrizio

 

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Biutiful

BiutifulIl primo dei film che volevo analizzare con voi si intitola Biutiful di Alejandro González Iñárritu(2010). Tra una serie di attività illecite, si svolge la vita della famiglia di Uxbal, padre di due bambini, una femmina e un maschio, Mateo, che vivono con lui. Il film racconta di un contesto familiare sfilacciato, reso precario tanto dalle condizioni economiche quanto da alcuni problemi intrinseci alla famiglia stessa. Fin dall’inizio, infatti, non sembra esserci una figura materna. La marginalità di questa figura fa si che Uxbal si accolli il peso dell’intero nucleo familiare. Il farlo gli provoca tensioni che si ripercuotono, poi, sui figli stessi. Soprattutto Matteo sembra risentire di questa situazione. Manifesta tutto il suo disagio con fenomeni come l’enuresi notturna, spia somatica di malesseri più profondi. Il bambino particolarmente viene conteso tra i genitori che lo usano come ‘merce di scambio’. Credo tutto il film sia attraversato da una evidente difficoltà comunicativa, tra padre e madre, tra padre e figli, tra madre e figli. Questa difficoltà viene ulteriormente accentuata non traducendo i dialoghi tra le varie comunità che vengono rappresentate (asiatica e africana) e sottolinea la problematicità nel comunicare. La mancanza di dialogo pesa sul padre che non riesce ad esprimere la malattia da cui è affetto a nessuno, forse neanche a se stesso. Si sente responsabile dei figli e non sembra poter accettare il fatto che possa mancare loro. Tutti i protagonisti si muovono in un contesto sociale disgregato. Non sembrano esserci amici. Non sembrano esserci famiglie d’origine. Sono soli. Isole. Si intravede un fratello di Uxbal, col quale sembra intrattenere pessimi rapporti. E, per la prima volta, viene citata la madre del protagonista, a cui entrambi si rivolgono con l’epiteto di puttana. Credo sia l’unico riferimento ai genitori. Le famiglie d’origine sono citate tramite alcuni oggetti simbolici e grazie ad alcune immagini che aprono e chiudono il film, come se un ciclo fosse portato a compimento. I protagonisti si muovono in un contesto urbano degradato che trasfigura l’immagine classica di Barcellona, città nella quale il film è ambientato. D’altronde anche loro sembrano essere la trasfigurazione di una famiglia ‘tipo’. Infatti, il rapporto di coppia è problematico. Lui rinfaccia a lei di non esserci ma la soccorre nel momento in cui sta male. Su cosa si incontrano allora? Su cosa fondano il loro ?stare assieme’. Essenzialmente, sono l’incontro di due esigenze complementari: tanto sull’incapacità di lei di prendersi in carico le sue responsabilità (famiglia, figli, lavoro), tanto su quelle di lui di volersi accollare qualunque cosa da solo (famiglia, figli, lavoro). Nel racconto di questa vicenda la realtà non si dice. Si scopre. È infatti la figlia a cercare la verità sulla malattia dopo che lui ha cercato di nasconderla.

Lo spaccato di una famiglia multi problematica sembra dunque l’oggetto di questo film. Ma, credo, sia un film legato anche all’incomunicabilità. Incomunicabilità tra parenti, tra familiari, tra amici. Incomunicabilità con se stessi, con le proprie paure, con le proprie sconfitte. Il film è duro, raccontato con l’uso di colori freddi, a volte glaciali, insoliti per una città mediterranea. Anche la scelta cromatica sottolinea la mancanza di calore, di incontro. L’incomunicabilità, tratto in comune, paradossalmente di incontro, tra i vari membri, esaspera le problematiche presenti e non ne permette una soluzione. Cosa potrebbe voler dire? Che dovremmo imparare a comunicare? Forse. Che potremmo imparare a dirci determinate cose? Forse. O, forse, ci fa vedere come, la mancanza di dialogo, costituisca un terreno dove prosperano le incomprensioni, i non detti, le paure, le indifferenze. Le distanze. Forse.

A presto…

Fabrizio

 

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Il telefono no…

Il telefono no...Cosa direste se vi dicessi che le persone associano l’emozione di una perdita profonda per un oggetto che fino a 20 anni fa nemmeno esisteva come lo conosciamo oggi? Che sto scherzando? Ebbene no. Stando all’articolo che vi segnalo questi sono i sentimenti che un gruppo di persone ha associato alla perdita del proprio telefonino. Segnala, sicuramente, una delle tendenze preponderanti della nostra epoca. Come siamo legati al cellulare? L’articolo riporta uno studio fatto su un gruppo di persone che hanno detto di non poter sopravvivere alla perdita del telefonino. Ormai siamo talmente abituati a questo tipo di tecnologie che le consideriamo estensione di noi stessi. E la loro perdita è vissuta come se perdessimo una parte di noi. Sarebbe interessante estendere il discorso e considerare che cosa definisca ed entri a far parte nella costruzione della nostra identità. Tema su cui potremmo riflettere in un futuro post. L’articolo è del Corriere della Sera (27.07.11) ed è di Elena Meli

Questo il link: http://www.corriere.it/salute/11_luglio_22/cellulare-perdita-disperazione-meli_bff1e256-b3c0-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml

Sono quasi sicuro che, se rivolgessi a voi la stessa domanda, probabilmente mi rispondereste allo stesso modo!

A presto…

Fabrizio

 

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– CRISI –

- CRISI -Tagli. Tasse. Default. Crisi epocale. Crisi di modelli sociali. Crisi della democrazia. Chi di noi può salvarsi dal fuoco di fila dei mezzi di comunicazione che, ogni giorno, non smettono di ribadire quanto siamo sull’orlo del baratro di una crisi non facilmente prevedibile nelle sue conseguenze? Tutti i giorni, il nostro risveglio è accompagnato da un bollettino di guerra che ci ricorda come la nostra condizione finanziaria sia sempre più legata ad una sequela di pessime notizie che ci riguardano o ci riguarderanno a breve.

Ma sono solo informazioni finanziarie? Come volete possa reagire l’animo umano di fronte a realtà di questo tipo? Questo continuo stillicidio di notizie catastrofiche per cui noi, a parte fare i sacrifici di cui tutti parlano, non abbiamo nessuna responsabilità diretta, causa un continuo senso di precarietà, di insicurezza che non può non farci stare male. In questo scampolo d’estate sembra che la gara sia a chi spara l’aggiornamento più catastrofico, su chi preveda lo scenario più inquietante, su chi azzeccherà la previsione peggiore di tutti.

E noi?

E noi a gestire un senso di scontento, uno sconforto, una tristezza che, spesso, possono essere i prodromi di veri e propri episodi depressivi. Il sentirsi minacciati nelle certezze e sicurezze, non può non avere conseguenze nefaste su di noi. Il fatto, poi, che i nostri ‘piccoli’ guai siano associati a scenari così foschi non può che incrementare il nostro senso di sfiducia generale. Altro fattore potenzialmente molto pericoloso, in questo cocktail micidiale, è la durata. Questo tipo di notizie sono infatti in prima pagina da mesi. Ribadiscono giornalmente come le borse di tutto il mondo brucino centinaia di miliardi di euro, come siano in picchiata, come non ci sia accordo politico su come fronteggiare la situazione.

E noi?

Sempre più piccoli, sempre più precari, sempre più instabili. Sempre più vacillanti. Sempre più alla ricerca di uno sprazzo di luce, un barlume di speranza che non faccia affievolire ulteriormente la possibilità di sentire che non tutto è perduto. Non so se tutto questo catastrofismo sia fondato. Non so quanto di vero ci sia in queste previsioni. So, però, quanto non sia positivo far intravedere il baratro e non una strada alternativa. Questo è il terreno fertile in cui possono nascere e crescere episodi di tipo depressivo. Naturalmente ciò che descrivo è un innestarsi su istanze personali. Mi spiego meglio: è come se l’incertezza, la paura da cui ci sentiamo circondati quotidianamente (e che in questo post sto associando soprattutto a crisi di tipo economico. Ma, credo, ci sarebbero numerosi altri esempi con cui si ottiene lo stesso risultato!) risuonasse familiare a delle aree che già erano in noi. Aree che, per svariati motivi, non ci potevamo permettere di maneggiare senza sentirci minacciati. E, risuonando in noi, queste aree possono dar vita ad un vero e proprio circolo vizioso che, come vi dicevo, può atterrirci, può sovrastare tutte le parti vitali del nostro Io che si trovano accerchiate da queste istanze depressive. Quale può essere la soluzione? Credo che una delle soluzioni più semplici, e alla portata di tutti, sia la condivisione. Condivisione delle nostre paure, dei nostri timori, delle nostre incertezze. Delle parti ‘deboli’ di noi che, abituati a non riconoscercele, non sappiamo maneggiare neanche quando diventano parti centrali. Il momento in cui le nostre paure prendono il sopravvento: li il catastrofismo ha vinto. In quel momento la nostra vitalità, la nostra creatività sono in maggiore difficoltà. Cerchiamo un amico, un parente, un orecchio che possa condividere con noi i nostri timori. E prestiamo maggiore attenzione alle paure degli altri. Magari sono anche le nostre. Avremmo sconfitto anche l’egoismo che, da sempre, caratterizza i momenti dominati dalle insicurezze. Questo è un enorme periodo transitorio. Dal quale, non è detto, non possa nascere qualcosa di buono.

È vero: forse le borse continueranno a cadere. Ma il fardello delle nostre paure ci sembrerà un po’ più leggero. E noi potremmo dire di conoscerci meglio. Vi sembra tutto perduto?

A presto…

Fabrizio

 

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Intelligenza, ultima chiamata!

Intelligenza, ultima chiamataVi segnalo un articolo che mi ha incuriosito molto. Si riportano i risultati di diverse ricerche che sostengono che l’uomo sarebbe arrivato al massimo dell’intelligenza possibile a causa di due fattori: 1) le cellule neuronali sarebbero al massimo della loro miniaturizzazione e non potrebbero diventare più piccole di così; 2) si sarebbe raggiunto il massimo numero possibile di connessioni tra queste stesse cellule. Senza contare che già adesso il cervello per funzionare utilizza moltissima energia. Se potesse crescere, come potremmo soddisfare questo bisogno di energia? A meno di non poter implementare la grandezza della scatola cranica (anch’essa, si suppone, ormai pressoché al massimo possibile a causa di alcune ragioni strutturali ( postura, muscoli della schiena..)), saremmo perciò arrivati al capolinea dell’evoluzione dell’intelligenza. Questa stasi potrebbe, addirittura, prospettare una sorta di involuzione? Il che non sembrerebbe così futuristico considerati gli esempi di nostri contemporanei non proprio esaltanti! A parte gli scherzi, non sarei così pessimista circa le conclusioni dell’articolo. Non solo la natura ci ha spesso mostrato di saper prendere strade che neanche immaginiamo, ma non tengono conto del peso delle infinite stimolazioni cui sono sottoposte le ultime generazioni grazie all’ausilio dell’information technology. Forse, ma queste sono mie considerazioni, non potendo più incrementare le nostre reti neuronali, abbiamo intrapreso la strada di aumentare le connessioni tramite l’ausilio dei computer. Che già adesso fanno quel lavoro di rete che, a noi, forse è precluso in quella misura. Insomma mi sembra ci sia ben poco di involutivo. L’articolo è di Repubblica (La Repubblica, 01.08.11) ed è di Alessandra Baduel.

Il link:

http://www.repubblica.it/scienze/2011/08/01/news/il_cervello_umano_al_limite_mai_pi_intelligenti_di_cos-19857329/?ref=HRERO-1

A presto..

Fabrizio

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Lontano da chi?

Lontano da chiEccoci ad un altro tema di attualità. Di brutta attualità. Avrete sicuramente sentito o letto della strage in Norvegia. Per chi non sapesse, un uomo di nome Breivik ha fatto esplodere una bomba in pieno centro ad Oslo e si è messo a sparare all’impazzata su un gruppo di persone che si trovavano su un isola. In tutto è responsabile della morte di 85 persone. Quando capitano casi di cronaca di questo tipo, che generano sgomento e incredulità, mi chiedo come sia possibile succedano cose del genere. Cosa può spingere un uomo a compiere massacri così cruenti su persone sconosciute?

Ovviamente non so nulla del caso specifico dal momento che non ho conoscenza diretta della persona che ha compiuto la strage. Non so, perciò, delle possibili cause personali che possano averlo spinto a tanto. Mi ronzano, però, idee e noto delle somiglianze, ricorrenti in diversi casi, che volevo condividere con voi. Una delle cose che più mi colpiscono è quella che definirei esternalizzazione del male. Con questo termine mi riferisco al fatto che, quando capitano fatti particolarmente efferati di cronaca, il primo aspetto in risalto riguardi il diversificare il colpevole da noi con qualche segno distintivo che lo renda differente. Credo sia un meccanismo protettivo, tranquillizzante. Nel momento in cui avvertiamo il male troppo vicino a noi, cerchiamo in qualche modo di scostarlo, di allontanarlo. Di esternalizzarlo, appunto. Questo meccanismo è noto, in psicanalisi, col termine di proiezione. E’ un meccanismo di difesa per cui sentimenti o caratteristiche proprie, sentite come inaccettabili, vengono proiettate all’esterno, su cose o persone. Questo meccanismo di esternalizzazione non sempre è applicabile. Nel momento in cui non c’è nulla che possa diversificare il colpevole da noi, come, per esempio, nel caso norvegese (non è zingaro, o nero, o povero, o straniero ecc..) allora interviene la salute mentale. “È malato” ci diciamo. Così che noi, ‘sani’, possiamo sentire quello che è successo lontano da noi.

E, se invece, non fosse così lontano? Non fraintendetemi, non credo che ognuno di noi sia un potenziale serial killer. Semplicemente, credo che ognuno di noi abbia delle parti oscure, delle parti non risolte che, in particolari situazioni, possano avvitarsi e ingigantirsi, dando vita ad idee persecutorie che vengono poi agite in fatti simili. Sebbene siano in molti a non conoscere queste parti oscure di se non sono, per fortuna, molti ad agire in maniera così cruenta. Penso dipenda dal fatto che le cause che possono esacerbare questi conflitti interiori debbano essere pesanti e prolungate nel tempo. Ma quali sono queste parti oscure che possono entrare in gioco? Credo riguardino la soppressione di sentimenti che vengono ritenuti non adatti. O mostruosi. Per esempio la rabbia e l’odio sono sentimenti non del tutto tollerati nella nostra società. Il disprezzo, l’avversione non possono essere manifestati e sono in qualche modo censurati. Repressi. Anche in questo passaggio spero non ci siano fraintendimenti. Non credo che ognuno di noi, per evitare che nascano conflitti, dovrebbe andare a disprezzare l’altro, o odiarlo apertamente. Tutt’altro. Credo la conoscenza anche di questi nostri aspetti possa farceli gestire meglio. Il rischio, altrimenti, credo sia che con un sostrato adatto (poca apertura mentale, rete sociale debole, famiglia assente, gruppo di amici, nessuna empatia, fattori ideologici), renda questa conoscenza deficitaria di se stessi facile terreno di coltura per propensioni ‘anti’ (antisociali, anti razziali, ecc.) e che, unite a protettive convinzioni ideologiche, possano sfociare in fatti del genere.

Altra ridondanza: sembrano sempre più numerosi atti di questo tipo. Se da una parte può esserci un desiderio di emulazione, amplificato dal tempo che i mass media dedicano a questo tipo di eventi (e con particolari sempre più macabri) credo che questa accentuazione sia dovuta anche ad una generale disgregazione della funzione sociale. Porre sempre l’accento sul singolo (sulle sue potenzialità, sulle sue esigenze, sui suoi desideri) fa si che il singolo si senta autorizzato a perseguire qualunque cosa per lui necessaria. Nessun problema sorge quando le mete che il singolo si pone sono socialmente riconosciute. Ma se, in una logica distorta o persecutoria, la meta diviene sterminare il maggior numero possibile di persone, allora l’accento posto sul singolo si trasforma in un totale fallimento per la società.

Credo che un primo passo verso una possibile soluzione possa essere quello di iniziare a considerare queste parti di noi, maneggiarle e accettarle di modo da conoscerle, non reprimerle e non proiettarle sugli altri come se non ci appartenessero. Un lavoro personale, non necessariamente con professionisti, unito alla ricucitura di alcuni strappi sociali (maggiore attenzione alle esigenze del gruppo, interesse collettivo che si colloca su quello particolare, sostegno alla genitorialità e alla famiglia) possono essere fattori depotenzianti il verificarsi di simili tragedie.

P.s.: Certo, se a tutto questo si aggiungesse una legislazione molto più severa sulle armi, forse avremo fatto un ulteriore passo verso una diminuzione di analoghe sciagure.

A presto...

Fabrizio

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Solo canzonette?

Solo canzonetteVi segnalo un articolo di Repubblica (La Repubblica 18.07.11) nel quale vengono citati i risultati di alcune ricerche che, sembra, abbiano dimostrato come il cervello umano colpito da ictus riesca a recuperare meglio alcune abilità (come, per esempio, un miglioramento del tono dell’umore, della memoria verbale e dell’attenzione) anche tramite l’ascolto di musica. Inutile vi dica quanto queste notizie confermino le enormi e non ancora del tutto esplorate potenzialità plastiche del nostro cervello. Nell’articolo, tra l’altro, viene citato il neurologo Oliver Sacks del quale vi consiglio il libro:L’uomo che scambiò sua moglie per un capello (ed. Adelphi) . Contiene una serie di casi clinici trattati con una attenzione e, nello stesso tempo, con una leggerezza che, per me rimangono esemplari. Devo la conoscenza di questo testo al consiglio di una mia paziente che, nel suggerirmelo, dimostrò di conoscermi bene!

Eccovi il link dell’articolo:

http://www.repubblica.it/salute/medicina/2011/07/12/news/neuromusica_guarire_l_ictus_con_le_note_la_riabilitazione_che-19012316/

A presto…

Fabrizio

 

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Back to Black

Back to BlackEccoci di fronte all’ennesimo giovane caduto per mano (sembra) di problemi con dipendenza da sostanze. Solo che questo caduto è famoso. E si chiama Amy. Mi riferisco, ovviamente, alla morte della cantante Amy Winehouse, deceduta il 23 luglio scorso. In realtà, sarebbe la classica cronaca di una morte del tutto annunciata stando alle continue dichiarazioni/filmati/interviste che la ritraevano sempre brilla o non in grado di reggersi in piedi in qualche occasione pubblica. Un modello autodistruttivo trattato con una certa ambiguità dai mass media: da una parte additata per il suo non riuscire ad essere mai a posto, dall’altro vagamente esaltata per il suo stile di vita molto rock che, ad un artista, si perdona sempre. Sarà pur stata una morte annunciata eppure l’ho sentita come una morte dolorosa. Non credo di essere stato un suo grande fan, a parte dei suoi pezzi più famosi, eppure la sua morte mi ha toccato. Penso ad una vita spezzata, all’impossibilità di reagire ed uscire da una spirale autodistruttiva che prende sempre più, che impedisce alla persona di vedersi come nient’altro.

E la cosa che mi ha, forse, più colpito in questa vicenda sono stati i commenti letti o sentiti. Frasi del tipo “era solo un ubriacona, nulla di diverso da tante altre“, “una persona con quel talento che si riduceva a questo”, “aveva tutto e si è distrutta la vita”, “ha sprecato un dono meraviglioso”, fino al tragico “in fondo se l’è cercata” mi sono sembrati la classica ciliegina su una torta. Su una torta indigesta, però. Che cosa rispondere a frasi così qualunquiste? Che, forse, non aveva tutto? Che, forse, doveva stordirsi così tanto proprio perché sentiva che le mancasse qualcosa? E che, magari, quel qualcosa fosse molto importante? Più di tutti i soldi e il successo che poteva avere. Ma, si sa, il metro di tutto è quello. Il successo. Il denaro. Come può una persona che ha raggiunto tutto questo, avere problemi? Non può. E infatti i problemi “se li cerca”. E al diavolo tutti i possibili problemi personali, relazionali, emotivi che una persona potrebbe avere. Neanche si può pensare che la disperazione, anche quella ricca e famosa, possa impedirci di scorgere il ‘dono’ con cui siamo nati.

Credo che il fatto di vedere queste persone spesso sui giornali o sulle tv ci faccia pensare di conoscerli quasi personalmente. E, come se li conoscessimo bene, ci fa emettere giudizi impietosi su vicende di cui, in fondo, non sappiamo nulla. Percepiamo solo la superficie e, in base allo scintillio, giudichiamo il resto.

La verità è che non conosciamo niente. E, nel non sapere, forse è meglio tacere.

Potremmo solo rispettare la fine di una persona di 27 anni.Che, forse, non aveva tutto.

A presto…

Fabrizio

 

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Pietà!

Pietà!Mi perdonerete se entro in uno degli esempi più fulgidi di schizofrenia istituzionale che siano capitati da un pò di tempo a questa parte. Mi riferisco all’annullamento dello spettacolo della compagnia Lucido Sottile in (ex) programma all’Orto Botanico di Cagliari. Bene, non potendo entrare nel merito dello spettacolo in questione, visto che non ci è permesso vederlo, vorrei entrare nel merito del perchè si sia arrivati a questo. Il casus belli sarebbero i poster pubblicitari dello spettacolo che, se avete fatto in tempo a vedere prima che delle menti illuminate li strappassero, ritrae, in una citazione della Pietà di Michelangelo, una sorta di Cristo-Pinocchio in braccio ad una Madonna- fata turchina. Posso ammettere che il poster sia provocatorio, scioccante, dissacrante, anche disturbante se vogliamo, ma leggere interviste in cui si dice (e cito testualmente): non si intende assolutamente censurare lo spettacolo. Amiamo troppo la libertà di pensiero e di espressione per non accettare che si possa rappresentare in maniera blasfema un Cristo Pinocchio e una Madonna fata turchina (l’Unione Sarda 07.07.11) lascia veramente interdetti.

Amano così tanto la libertà di pensiero che lo spettacolo non verra più realizzato. Improvvisamente, infatti, il Rettore dell’Università di Cagliari ha ritirato la disponibilità a svolgere lo spettacolo all’Orto Botanico per un improvvisa, quanto provvidenziale inagibilità (…) per manifestazioni di carattere pubblico (sempre Unione Sarda 07.07.11) E, sia chiaro, non si intende assolutamente censurare lo spettacolo. E il fatto che non se ne faccia più nulla suppongo sia solo una circostanza fortuita dovuta al fato.

Cosa si portava in scena con questo spettacolo? Quale messaggio si voleva far passare? Non è dato sapere. La cosa che mi colpisce di più è la contemporaneità di un’ altra rappresentazione della Pietà di Michelangelo fatta dall’artista belga Jan Fabre che ritrae una Madonna con un teschio al posto del volto. Evidentemente, alla Biennale di Venezia in cui è stata esposta, non giudicavano l’opera così blasfema. Magari ne hanno colto l’intento provocatorio, magari hanno semplicemente permesso, ESPONENDO E NON CENSURANDO, alle persone di farsi un’idea di quello che l’artista proponeva. Non fraintendetemi, non sto difendendo aprioristicamente lo spettacolo, quanto la possibilità che le persone possano vederlo. Perché delle persone devono decidere per me cosa è giusto che veda e cosa no? Cosa è blasfemo e cosa no? Il sotto testo che mi sembra di cogliere è che non siamo in grado di capire autonamente ciò che vediamo e che qualcuno ce lo debba permettere o proibire. Una sorta di paternità istituzionale che mira alla nostra educazione.

Insomma, ancora una volta mi trovo costretto a parlare di libertà e di rispetto, anche per chi non la pensa come noi. Non so se sia di Voltaire, ma è una frase che mi piace spesso citare: non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire.

A presto…

Fabrizio

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Scuola, insegnanti & genitori…

scuola insegnanti e genitoriCiao Fabrizio…come tu sai sono un’insegnante di sostegno ormai da tanti anni. Approfitto di questo blog per chiederti quali sono le strategie che è meglio utilizzare per aiutare i genitori a rivolgersi con fiducia ad uno psicologo, dal quale potrebbero trarre enormi vantaggi sia in termini di aiuto nell’accettazione dell’handicap ma soprattutto per individuare percorsi agevoli ed efficaci nell’educazione dei ragazzi. Troppo spesso il nostro consiglio viene frainteso o visto come atto d’accusa. grazie e grazie soprattutto per aver messo a disposizione di tutti la tua professionalità e competenza. un bacio Gloria

Ciao Gloria..

Innanzitutto grazie per l’ottimo quesito. Ho già affrontato in parte l’argomento in un precedente articolo dal titolo Salute mentale e malattia…(08.03.11). La mia posizione è che dallo psicologo non ci vadano per niente i matti quanto persone che vogliono in qualche modo fare il punto sulla loro situazione. Il mio punto di vista non è però supportato dalla stragrande maggioranza delle persone per le quali vale sempre il sottotesto per cui, se ti rivolgi ad uno psicologo, c’è qualcosa che non va in te. Quindi credo di capire il problema che mi poni. Mi chiedi quali siano le strategie. Sinceramente, non credo ci sia una strategia per far capire alle persone quanto potrebbero giovarsi di questo tipo di percorso. Credo che una possibile strategia sia la fiducia nel rapporto che hai instaurato con loro. Voglio dire: se sanno con quanta dedizione ti occupi al tuo lavoro, se pensano a come consideri i tuoi allievi non lavoro ma persone, se conoscono la passione con la quale ti occupi dei loro problemi, non possono non vederti come un punto di riferimento anche in questioni extrascolastiche. Nel momento in cui tu, in base alla tua esperienza, dovessi fare una proposta del genere a dei genitori come pensi che potrebbero pensare che li stai giudicando? Anzi, forse ti saranno grati per avere saputo indirizzarli verso un possibile appianamento della situazione. La questione potrebbe sorgere, secondo me, nel momento in cui questo consiglio viene dato solo per scaricare su altri un presunto problema. In quel momento i genitori possono non sentirsi supportati e pensare che li si stia giudicando inadeguati e incompetenti.

Questo punto mi porta alla considerazione più ampia per cui dovrebbe esistere un lavoro di rete, di società che, lontano dal volere approfittare dei malesseri altrui, possa in qualche modo fungere da fattore di indirizzamento e di orientamento per varie persone. Questa eccessiva parcellizzazione delle mansioni porta a non volersi mai prendere carico di qualcosa che vada appena al di fuori delle nostre responsabilità. Forse, invece, è ora di assumere queste nostre responsabilità per far si che il nostro passo in più possa, in qualche modo, aiutare l’altro.

Questo è uno dei motivi principali che mi ha spinto a creare questo blog: la possibilità che si potesse far rete, che persone con esperienze diverse potessero mettere in gioco ognuno il suo punto di vista mossi da una visione comune. Dovremmo cercare di renderci conto delle enormi potenzialità che l’affrontare una questione da molteplici punti di vista grazie all’integrazione piuttosto che alla frammentazione degli interventi potrebbe portarci.

A presto…

Fabrizio 

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A proposito di famiglie…

A proposito di famiglie...Vorrei affrontare oggi un argomento forse più legato al rispetto che alla psicologia. Ma, volendo fare di questo blog un luogo vivo, non posso esimermi dal commentare alcune notizie apparse in questi giorni sui giornali. E poi credo che il mio lavoro debba tenere sempre presente il rispetto per le altrui vicende. La notizia è del 23 aprile, antivigilia di Pasqua. E riguarda una pubblicità. Più esattamente riguarda la pubblicità della catena svedese Ikea. Nella pubblicità per il mercato italiano si vedono due uomini presi per mano, fotografati di spalle, accompagnati dallo slogan “Siamo aperti a tutte le famiglie”. Voi, forse, direste: ebbè? L’avrei detto anch’io, se non fosse che questa campagna pubblicitaria è stata accusata niente meno che di offendere la Costituzione Italiana. Un Senatore, nonché Sottosegretario del Parlamento Italiano, infatti, ha dichiarato che “il termine ‘famiglie’ è in aperto contrasto contro la nostra legge fondamentale che dice che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio, ed è usata in quella pubblicità in polemica contro la famiglia tradizionale, considerata datata e retrograda”(fonte: La Repubblica).

La pochezza di questa polemica avrebbe già dovuto indurmi a non continuare. Ma vorrei solo aggiungere alcune considerazioni: A) non viene detto da nessuna parte che quella famiglia (due uomini) sia in contrasto con la famiglia tradizionale, ne che la prima sia moderna e d’avanguardia mentre la seconda datata e retrograda. Forse questa è più l’idea del Sottosegretario in questione? mah; B) il fatto che esista un tipo di famiglia non organizzato su padre/madre/due figli/cane/station wagon/vacanze ad agosto non vuol dire che un modello sia meglio dell’altro: semplicemente esistono entrambi; C) primo aggettivo che mi lascia perplesso: naturale. Manderei al Sottosegretario una mail per chiedere cosa intenda per naturale. Probabilmente la leggerebbe, forse non rispondendo, tramite un pc. O, peggio ancora, un palmare. E’ forse naturale quello che vi ho descritto potrebbe fare? Se fosse per la natura, lui non riceverebbe nessuna mail (e tanto meno, aggiungo, siederebbe in qualche parlamento). Propongo al Sottosegretario di essere pagato d’ora in poi con frutti della terra invece che con realtà così innaturali come le banconote. Immagino la risposta…; D) secondo aggettivo: TRADIZIONALE.. tradizionale? E quale sarebbe questa fantomatica famiglia tradizionale? Uomo+donna? Uomo+donna+figlio naturale? Uomo+donna+figlio adottivo? Uomo vedovo? Uomo vedovo+figlio naturale? Donna vedova+figli del compagno morto? Uomo separato + figli? Donna risposata+secondo marito+figli del primo matrimonio del secondo marito? Ragazza madre+figlio non riconosciuto dal padre naturale ma adottato dal nuovo compagno? Quale di queste avrebbe il titolo di tradizionale? E, badate, sono rimasto nell’ambito di una relazione uomo/donna. Altrimenti questa lista sarebbe potuta andare avanti per parecchio!

Quando queste persone smetteranno di semplificare la realtà in maniera così superficiale e banale, forse non avremmo risolto il problema. Ma almeno potremmo riflettere mettendo da parte facili giudizi e ancor più facili moralismi.

P.S. Il Sottosegretario in questione non viene mai nominato perché non vorrei mai che lui, usando giustappunto una pubblicità, usasse questo pretesto polemico irrisorio, con un unico scopo: farsi pubblicità! Il fatto che questa polemica sia stata aperta alla vigilia di Pasqua era del tutto casuale, suppongo. Sarò anche aperto a tutte le famiglie ma non sono ancora aperto a tutte le sciocchezze.

A presto…

Fabrizio

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