InVita laVita

InVita laVitaSono lieto di comunicarvi che ho iniziato la collaborazione con la onlus InVita laVita, associazione di Cagliari che si occupa del supporto di persone colpite da tumore. Il progetto, ha come scopo quello di dare sostegno e armi, in un momento di debolezza e disorientamento, alle persone che sono state colpite dal cancro, tra le malattie la più terrorizzante. Scopo dell’associazione è quello, dunque di fornire un supporto alle persone che vengono colpite da questo tipo di malattia o naturalmente, ai familiari. Il metodo che viene utilizzato è fondamentalmente quello dell’auto aiuto, basato sul meccanismo che persone che stanno vivendo, o hanno vissuto situazioni di vita simili, adeguatamente formate, facciano da sostegno e da supporto per persone che stanno entrando in questo tipo di situazioni. L’associazione è costituita ed è coadiuvata da una molteplicità di figure professionali che si occupano, ognuno con la propria professionalità, nel supportare le persone colpite dalla malattia.

Trovo che questa iniziativa sia non solo un ottimo modo per sostenere le persone in un momento di difficoltà, ma un ottimo modo per far si che la propria professionalità vada incontro alle esigenze della collettività. Ho, per questi motivi aderito alla proposta fatta da una delle socie fondatrici, la dottoressa Manca, e ho messo a loro disposizione la mia competenza, la mia attenzione e il mio tempo.

Chi fosse interessato alla tematica e si sentisse portato a partecipare, può, per maggiori informazioni o chiarimenti, contattare direttamente l’associazione al numero: 333 4303672 oppure attraverso mail invitalavita@gmail.com. Spero che ognuno di noi possa, per quanto gli è possibile, partecipare a questo splendido progetto.

A presto…

Fabrizio

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Perchè siamo così aggressivi su internet?

Perchè siamo così aggressivi su internetIl post di oggi scaturisce da una riflessione che ho avuto e riguarda sopratutto i mezzi di comunicazione come i social network o i messaggi. Non so se sia solo una mia impressione ma le posizioni, qualunque esse siano e qualunque argomento riguardino, sembrano sempre propendere per delle estremizzazioni che, talvolta, appaiono veramente eccessive. Persone che augurano apertamente la morte di qualche personaggio pubblico, la maggior parte delle volte politici accusati di qualunque possibile crimine, interventi che inneggiano direttamente alla violenza contro qualcuno (come per esempio pedofili).

Addirittura si arriva all’assurdo per cui persone che non consumano carne, per una scelta di rispetto e di antiviolenza credo, sperano che coloro che ne consumano facciano la stessa fine degli animali di cui si nutrono. Come sempre, credo che questa degenerazione debba avere una spiegazione e mi chiedevo come fosse possibile che posizioni sempre più estreme sembrino quelle che riscuotono il maggior successo. Ho due chiavi di lettura: da una parte le eccessive polarizzazioni delle posizioni in qualunque dibattito pubblico, dall’altra una comunicazione deficitaria che, non permettendo una reale comprensione del messaggio porta ad una eccessiva semplificazione dello stesso. Cerco di spiegarmi meglio. Non so se avete fatto caso ma oramai le persone non hanno più opinioni: hanno certezze. Non hanno più idee: hanno fedi. Non sono più in grado di pensare autonomamente: sono tifosi faziosi di qualche posizione che non concede repliche. Questa estremizzazione porta a scontri sempre più forti tra i ‘tifosi’ di una parte e quelli della parte avversa che, non aiutando a capire le ragioni dell’una o dell’altro, portano ad accentuare ulteriormente le posizioni e, di conseguenza, le tifoserie avversarie. Uno dei fattori che credo abbia contribuito a questa polarizzazione è l’anonimato, inteso come non conoscenza, che sta alla base del meccanismo col quale comunichiamo sui cosiddetti social network come Facebook o Twitter. Per anonimato intendo specificamente la mancanza di conoscenza diretta, la mancanza di una relazione reale che supporti quella virtuale. Alla base del successo di queste piattaforme, o delle chat, sta,secondo me, la possibilità che offrano una sorta di filtro nella relazione, un filtro che si frappone fra noi e il mondo e che, pur permettendoci di essere visti, ci protegge dall’esporci in un modo che potrebbe risultare ‘scomodo’. Questa protezione può permettere che la rabbia che sentiamo per un argomento possa uscire con molta più facilità, non filtrata dal fatto di starci mettendo la faccia. In un rapporto diretto, ‘reale’, saremo tenuti a tenere in qualche modo a bada questo sentimento. Notate come una discussione su Facebook spesso degeneri con una facilità estrema. Probabilmente, se la stessa discussione fosse avvenuta tra persone che si vedevano e che, dunque comunicavano anche in altra maniera oltre a quella scritta, sarebbe forse stata meno cruenta o non sarebbe degenerata in questo modo. Le persone avrebbero magari saputo mediare tra le diverse posizioni. Se questa comunicazione fosse avvenuta faccia a faccia, sarebbero entrati, nella comunicazione stessa anche altri livelli comunicativi che avrebbero influenzato la comunicazione stessa. Mi riferisco a tutti quei livelli di comunicazione non verbale (sguardo, postura, tono della voce, ecc) che entrano in gioco nel processo comunicativo, che lo caratterizzano e lo significano (sapete cogliere al volo se una persona sta scherzando con voi o facendo sul serio e in base a quello che cogliete potete rispondergli!) e che sono assenti nella comunicazione virtuale. Questi due aspetti potrebbero contribuire a spiegare il perché questa capacità di mediazione sembra essersi persa su internet.

Un altro fattore che potrebbe giocare un ruolo importante è il numero delle persone coinvolte. Su internet chiunque può intervenire in ogni discussione dell’altro e questo ci fa sentire esposti ad un livello più ampio. La mancata mediazione e l’esposizione potrebbero aumentare il livello di aggressività con cui si risponde. Questo meccanismo può essere considerato come circolare ed autorinforzantesi perché più vediamo questo tipo discussioni, più aumenta in noi la percezione che ci siano persone con un grado di aggressività alto, più ci farà avere meno freni inibitori quando ci ritroveremo a dover sostenere la nostra tesi in un’altra discussione. Ovviamente la mia è un ipotesi e, come tale, andrebbe considerata. Se ci pensate il fraintendimento comunicativo avviene spesso anche via sms proprio perché viene a mancare tutto il lato comunicativo non verbale che sottende e conferma la comunicazione scritta. Se con un sms possiamo comunicare con una persona, con Facebook o con Twitter possiamo comunicare contemporaneamente con molte persone e questo può aumentare esponenzialmente il grado di possibile fraintendimento della comunicazione stessa. Forse dovremo considerare questo prima di lanciarci nel difendere la nostra tesi a spada tratta e prima di pensare, insultandolo, che l’altro ci volesse offendere. E dovremmo considerare anche come i nostri irrigidimenti non ci portino a comunicare ma anzi a sottrarci alla possibile messa in discussione della nostra prospettiva

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Lentamente muore…

Lentamente muore...Il post di oggi è una delle mie poesie preferite. Erroneamente attribuita a Pablo Neruda, è in realtà della scrittrice brasiliana Martha Medeiros. In portoghese si intitola A Morte Devagar (Una morte lenta). Un inno al cambiamento, alla trasformazione, al non adagiarsi su quello che si ha, al mutamento che passa attraverso le piccole cose, a tutte quelle curiosità che spingono a mettere in discussione ciò che diamo per acquisito, abitudini che spesso si trasformano in gabbia all’interno della quale ci muoviamo inconsapevoli, bloccati dalla morsa protettiva della routine che rischia di farci, appunto, morire lentamente e inconsapevolmente:

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,

ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,

chi non cambia la marcia,

chi non rischia e cambia colore dei vestiti,

chi non parla a chi non conosce.

 Muore lentamente chi evita una passione,

chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i”

piuttosto che un insieme di emozioni,

proprio quelle che fanno brillare gli occhi,

quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,

quelle che fanno battere il cuore

davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,

chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza

per l’incertezza, per inseguire un sogno,

chi non si permette almeno una volta nella vita

di fuggire i consigli sensati.

 Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge,

chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

 Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,

chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi

della propria sfortuna o della pioggia incessante.

 Lentamente muore chi abbandona

un progetto prima di iniziarlo,

chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,

chi non risponde quando gli chiedono

qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,

ricordando sempre che essere vivo

richiede uno sforzo di gran lunga maggiore

del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento

di una splendida felicità. 

Spero sia stata una piccola scoperta!

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (2)

Travestiti che usciamo (2)Temo di non essere del tutto d’accordo su alcune parti di questa citazione. Tanto per cominciare vorrei porre l’accento sulla velata colpevolizzazione della figura materna nello sviluppare il terreno fertile in cui crescerebbe, poi, il transessualismo. La stessa critica che mi sentirei di rivolgere alla definizione di madre frigorifero dello psicoanalista Bruno Bettelheim (per intendere una donna affettivamente fredda) per spiegare le cause dell’autismo infantile. Queste definizioni sono perfette per essere ricordate ma, a mio parere, estremamente riduttive. Tanto riduttive che non se ne coglie la possibilità d’uso. Da un punto di vista sistemico, poi, sono ancora più incomprensibili dal momento che non si capisce come una sola persona, sebbene stiamo parlando della madre, possa essere così influente. Verrebbe da chiedersi dove sia il padre di questo bambino. E poi, dobbiamo sempre ipotizzare che madre e figlio vivano isolati, soli, in un bunker? Nessun gruppo sociale ha altre influenze su questo bimbo? Non ha altri modelli?

Sempre in tema, non sono d’accordo nel puntare l’indice su una supposta responsabilità nello sviluppo del transessualismo. Ditemi voi chi può simpatizzare per la figura materna sopra descritta: prima vezzeggia la parte femminile del figlio, la sua sensibilità (e anche qua ci sarebbe da aprire una parentesi: ma la sensibilità è solo prerogativa femminile?) poi, nel momento in cui ha sviluppato ‘il mostro’ lo tradisce perché socialmente inaccettabile. Credo che questo tipo di spiegazioni sia non solo forzata quanto poco rispondente al vero. Se conoscessi questa madre al massimo potrei chiederle che senso può avere per lei vezzeggiare le parti femminili in un figlio maschio. Ampliare il discorso, non chiuderlo in soluzioni così standardizzate. Insomma, non credo che questo tipo di generalizzazione possa essere d’aiuto nella comprensione di una questione così delicata.

E ancora, perché si da ad intendere che l’unico sbocco del transessualismo sia la prostituzione? Suppongo sia uno degli inevitabili sbocchi di queste scelte ma perché farne l’unico? Abbiamo anche delle descrizioni che sono involontariamente comiche:il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Sicuro? Non comprendo in cosa il travestito possa essere sicuro. Anzi. Credo sia proprio l’ambiguità, i possibili passaggi a cavallo tra i due sessi, l’essere fisicamente un uomo che usa armi di seduzione femminile, possono giocare un ruolo importante per il loro ‘successo’. E non mi piace molto neanche la frase povero di strumenti alternativi come tutti i diversi. Cosa significa povero di strumenti alternativi? Alternativi a cosa? Al transessualismo? Quest’ottica si pone nei confronti del transessualismo come un’ottica per cui sia una scelta ingiusta, da correggere. Certo, sarebbe meglio se la persona avesse strumenti alternativi tra i quali scegliere. Forse sarebbe più libero. Ma perché costruire artificiosamente la categoria dei diversi poveri di strumenti? Quasi fosse una certezza.

Credo sia convincente, invece l’analisi dei possibili ‘punti di sbocco’: una scelta definitiva di cambio di sesso, una diversità meno esibita, possibili condotte di tipo deviante.

Forse vi starete chiedendo perché vi abbia segnalato questo articolo se non lo condividevo molto. Ho considerato potesse essere spunto di riflessione su un tema di cui non si parla molto, se non in relazione a scandali che possano coinvolgere persone famose. Chi si sentisse di dire qualcosa in proposito può, ovviamente, farlo anche privatamente alla mia email. Spero anzi che ci siano testimonianze che possano smentire l’equazione travestito=prostituzione. Sarebbe un bel passo avanti per smontare un cliché forse troppo ricorrente. 

 

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (1)

Travestiti che usciamo (1)Il post di oggi ha come tema il travestitismo, persone che indossano indumenti propri del sesso opposto. Il termine non è da confondere con transessualismo, termine che indica persone la cui identità psicologica non corrisponde all’identità fisica e che, per questo, si atteggiano, vestono, comportano sempre come persone del sesso opposto. Spesso, queste persone hanno come obiettivo il cambiamento chirurgico del sesso. Fatta questa piccola premessa, leggevo in un libro un passo riguardante i travestiti che vi riporto integralmente. Credo che nel brano il termine travestitismo sia usato con accezione più ampia rispetto a come l’ho esemplificata io, e coinvolga anche il transessualismo.

Il brano: un esempio recente e particolarmente drammatico di interazione fra fattori di ordine personale, familiare e sociale nello sviluppo sociopatico è quello proposto dalla vita e dalla storia dei travestiti che si prostituiscono sui marciapiedi delle grandi città dell’Occidente. Una ricostruzione attenta della loro vita familiare permette di collegare, in alcuni casi, le incertezze del loro orientamento sessuale alla valorizzazione delle loro tendenze femminili da parte, in particolare, della madre (che li vestiva da donna quando erano piccoli, che sottolineava la loro sensibilità, dolcezza, attitudine alle faccende di casa e che insisteva comunque sul significato affettivo per lei di questi comportamenti). “Traditi” dalla madre nel momento in cui la loro problematica e il loro comportamento diventano socialmente ed emotivamente insostenibile, molti di questi giovani affrontano situazioni conflittuali gravi all’interno di una famiglia che non accetta la loro diversità e si sentono costretti ad andarsene di casa. L’attrazione e il rifiuto che essi determinano negli uomini con l’ambiguità della loro presenza sessuale diventano a questo punto la loro forza e la loro debolezza, condizionando in modo spesso definitivo le loro scelte successive. Per strada, di sera, il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Di giorno, nei luoghi della vita comune, è un diverso di cui ci si vergogna. Povero di strumenti alternativi come tutti i diversi la cui crisi si esprime in fasi decisive per la formazione e per l’acquisizione degli strumenti  culturali necessari  al lavoro, egli si sente respinto irresistibilmente (come accade appunto nello ‘sviluppo’) verso la prostituzione: un comportamento riprovato (la polizia) e sollecitato (i clienti, fra cui bisogna valutare ovviamente, a volte anche i  poliziotti) da un sistema sociale che utilizza fino in fondo la loro diversità.

Interessante, anche nel caso dei travestiti, l’osservazione relativa al decorso naturale della loro condizione di sofferenza. In mancanza di casi documentati di “guarigioni” ottenute con interventi basati sul tentativo di farli desistere dal loro comportamento, quelle che è possibile documentare sono infatti:

  • evoluzioni integrative attraverso il cambiamento definitivo, anagrafico e anatomico, del sesso; 
  • evoluzioni positive verso l’accettazione di una diversità meno esibita e progressivamente più integrata nelle comunità omosessuali;
  • evoluzioni di tipo psicopatico con lo stabilizzarsi di una prostituzione sempre più esibita, aggressiva e conflittuale e con il sopravvenire di disturbi comportamentali di secondo livello (alcool e droga). [1]
– Continua –
 
[1] Cancrini, L., et al., Il transessualismo e il cambiamento di sesso, in Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pp. 227-228
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La felicità? Arriva dopo i 40 anni!

La felicità Arriva dopo i 40 anniCercando di riequilibrare il post che affrontava il tema della depressione a 40 anni (La depressione? Arriva a 40 anni! pubblicato il 02.07.12), vi segnalo l’articolo del Corriere della Sera che invece sostiene la tesi contraria: la felicità sarebbe al picco nella fascia d’età tra i 40 e i 60 anni. Secondo l’autore David Bainbridge, autore del libro Middle Age (Mezza età) le persone che si trovano tra i 40 e i 60 anni sarebbero più stabili emotivamente, più felici e più intelligenti che in ogni altro periodo della vita. All’interno di questo range d’età le persone, prese nel mezzo delle loro molteplici incombenze di vita, sarebbero più resistenti e portate ad utilizzare al massimo le risorse che sentono di avere a disposizione. Insomma, altro che depressione. Si avrebbe in questo periodo, complice anche quella sensazione di essere ‘formati’, di essere adulti che si dovrebbe acquisire in quegli anni, una sorta di picco di autoconsapevolezza che sarebbe del tutto diversa da quella che si può ottenere prima dei 40 (in cui si è giovani e si risente dei saliscendi emotivi e di autostima propri della giovinezza) o dopo i 60 (anni nei quali si può invece riverberare sulla nostra vita lo spettro della fine, dell’inutilità che spesso accompagna, ingiustamente, la terza età).

Naturalmente la mia opinione è quella che andrebbero vagliate le singole storie personali piuttosto che ragionare in termini di età. Se è vero che questi studi possono favorire la descrizione di tendenze generali, è anche vero che non tutti raggiungono un grado di maturità tale a quell’età e che molti sono i maturi o gli immaturi prima della fatidica soglia dei 40. Vero altrettanto è che, probabilmente, una persona arrivata in quella fascia d’età tracci i primi bilanci sulla sua vita, ma questi, come abbiamo visto nell’altro post, potrebbero non corrispondere con quello che una persona si era immaginata nella sua vita e quindi ingenerare un senso di frustrazione o di delusione. Insomma un terreno ben più insidioso e mobile che non so quanti aiuti classificare per categorie così ampie ed eterogenee. 

Questo il link di riferimento se voleste leggere l’articolo:

http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_19/agnese-felicita-quaranta-anni_7bc16b5e-7195-11e1-b597-5e4ce0cb380b.shtml 

L’articolo è della giornalista Maria Luisa Agnese.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

P.s. Non ho aggiunto un particolare. L’autore del libro è un veterinario che, credo in base alla sua esperienza acquisita sul campo, ha esteso le sue osservazioni al mondo degli umani. Mi ha molto incuriosito questo dettaglio. Forse il suo punto di vista privilegiato gli ha permesso di scorgere aspetti che noi, evoluti, non riusciamo a scorgere più in noi. Non so. Spero, comunque, che questo dettaglio non influenzi la vostra riflessione!

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La depressione? Arriva a 40 anni!

La depressione Arriva a 40 anniVi segnalo un articolo di Repubblica che riguarda un aspetto particolare della depressione. Uno studio pubblicato dall’IZA Institute di Bonn, svolto dai ricercatori delle Università di Warwick e di Stirling, stabilirebbe, infatti, che, in Europa, un quarantenne su 10  ha assunto almeno un antidepressivo nel corso del 2010. I paesi che avrebbero il più alto consumo di antidepressivi sarebbero Inghilterra, Portogallo, Francia e Lituania. In questa particolare classifica il nostro Paese si collocherebbe nella fascia più bassa con appena l’1% della popolazione di 40enni che fa uso di farmaci antidepressivi per più di quattro volte a settimana.

La ricerca metterebbe in luce come, nella fascia d’età presa in considerazione, sarebbero più colpite le donne rispetto agli uomini. Ad aggravare il consumo inciderebbero caratteristiche come il fatto di essere disoccupate, divorziate o separate.

Quello che colpisce di più è la motivazione che spiegherebbe il perché dell’insorgenza della depressione in questa particolare fascia d’età. Il motivo sarebbe legato al disvelamento dell’impossibilità di perseguire i propri sogni. Mi spiego meglio: da giovani si ha l’impressione che ogni tipo di obiettivo possa essere alla nostra portata, che per ogni cosa si desideri, ci sia la possibilità temporale di conquistarla. Mano a mano che la vita procede, i nostri sogni dovrebbero fare i conti con il dato di realtà che, spesso, si rivela inferiore alle aspettative. Questo può causare quel senso di scoramento o di fallimento che porta ad un consumo di sostanze antidepressive. Ovviamente ci sarebbe da discutere sul perché ormai sembriamo così inadatti a fare i conti con la realtà. Forse, drogati da anni di investimenti in sogni-alla-portata-di-tutti, appena la nostra vita si discosta dal magico mondo che qualcuno aveva immaginato per noi, ci sentiamo incompleti, non arrivati. Falliti.

Non sarebbe ora di rivedere le nostre priorità? E di deciderle da noi invece di farcele imporre da qualcuno?

Per il momento il link:

http://www.repubblica.it/salute/forma-e-bellezza/2011/06/23/news/depressi_a_40_anni-18108441/

L’articolo è di Irma D’Aria.

A presto…

Fabrizio

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L’ansia è un cortocircuito cerebrale?

L'ansia è un cortocircuito cerebraleVi segnalo un interessante articolo che tratta il tema dell’ansia (Repubblica, 02.08.2011). Secondo lo studio, condotto dall’Irccs Medea di San Vito al Tagliamento, in collaborazione con le università di Udine e di Verona alla base del disturbo ci sarebbe un deficit di collegamento comunicazionale tra due aree del cervello che non dialogherebbero appunto, tra di loro. nel momento in cui avviene questo si ingenererebbe nel cervello una sorta di panico che farebbe entrare in crisi il cervello. E noi di conseguenza! Le aree che si troverebbero implicate in questo processo sono le aree parietali e callosali posteriori dell’emisfero destro che sarebbero implicate nella percezione sociale e al riconoscimento del proprio corpo nello spazio. Non vi nascondo quanto mi affascinino queste scoperte, quanto mi piacciano queste infinite porte che stiamo aprendo nel cervello umano.

Credo, naturalmente, che questo tipo di spiegazioni sia del tutto insufficiente per spiegare un fenomeno più complesso e, per sua natura stessa, sociale. Nel momento stesso in cui una realtà è dotata della capacità di auto-osservarsi, entra in gioco una complessità di fattori, una molteplicità di combinazioni che rendono queste spiegazioni deficitarie da vari punti di vista. Tralascia, soprattutto, il valore che quel malessere provoca all’individuo. E questo rende necessariamente lo sguardo dell’ansia dal punto di vista ‘chimico’ uno sguardo parziale. Certo, se questo tipo di conoscenze potessero permettere passi avanti nella conoscenza dei meccanismi che sottostanno al nostro funzionamento non potrebbero che essere salutate con entusiasmo. Il rischio è che, però, si cerchi più una disfunzione e una cura corrispondente che ignorano, come detto, il senso che il malessere ha nella vita dell’individuo che ne soffre. Sono piani paralleli di indagine e per entrambi una polarizzazione eccessiva verso i rispettivi estremi non possono giovare alla comprensione della complessità di una realtà così sfaccettata. 

Intanto, eccovi il link.

L’articolo è a firma di Flavio Bini.

A presto…

Fabrizio

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Bambini: la differenza di classe (sociale)…

Bambini la differenza di classe socialeIl post di oggi riguarda un argomento che è sotto gli occhi di tutti ma del quale spesso fingiamo di non accorgerci e di non notare. Il tema è un argomento scabroso dal momento che riguarda le differenze di sviluppo tra bambini a seconda della classe di reddito a cui appartiene. La riflessione è scaturita dalla lettura di un passo del testo Il vaso di Pandora[1] La tesi che si sostiene è che il bambino cresca per imitazione del modello che viene proposto dagli adulti per lui importanti in quella prima fase di vita. Questo rapporto avrebbe conseguenze sul successivo sviluppo del bimbo e anche sullo sviluppo di alcune patologie. Secondo gli studi di Hollingshead e di Redlich si riscontrerebbe un’alta incidenza di disturbi di tipo nevrotico nelle classi sociali più alte, un’alta incidenza di disturbi psicopatici nelle classi sociali più deboli. Ovviamente, trattandosi di una tesi per il quale lo sviluppo del bambino avviene fondamentalmente per imitazione, il modello che viene fornito al bambino può essere diverso a seconda di quelli che sono i mezzi e gli strumenti che hanno gli adulti stessi. E se si dovesse far un raffronto con le differenze tra bambini di classi sociali diverse, potremmo notare come queste siano dovute alle competenze degli adulti significativi. Come abbiamo visto, alcuni studi dimostrano infatti come i disturbi psichiatrici siano distribuiti diversamente a seconda della classe sociale. Questa diversa distribuzione avrebbe delle influenze anche linguistiche e sulla costruzione del sé del bambino. I bambini  che che vivono in un ambiente proletario o sottoproletario apprendono dai loro genitori e utilizzano nella loro interazione un codice (linguistico) ‘ristretto’, povero di riferimenti alle emozioni vissute e di tendenza alla simbolizzazione. In termini interattivi ciò corrisponde evidentemente allo sviluppo di una patologia di tipo piuttosto comportamentale che nevrotico. Il contrario accade, evidentemente, per bambini che vengono addestrati ad utilizzare un codice ‘elaborato’: soprattutto se vivono all’interno di famiglie in cui l’uso ampio e consensuale di meccanismi di difesa basati sulla rimozione (…)li spinge alla ricerca di formulazioni allusive e di elaborazioni simboliche del loro vissuto. Cosa vuol dire questo? Sostanzialmente si tratta di verificare come nelle classi sociali più alte ci sarebbe una diversa sensibilità all’utilizzo di un linguaggio che possa aiutare a definire i propri stati emozionale. Questo permetterebbe al bambino di apprendere a riferirsi a queste realtà emozionali in termini simbolici e di poterle astrarre. Per questo motivo, tale capacità appresa potrebbe essere alla base, nel caso di sviluppo di patologie, ad un decorso nevrotico piuttosto che psicotico o comportamentale, che sarebbe invece la ‘strada patologica’ di bambini che non sono stati abituati a fare questo da adulti che, probabilmente, non avevano le risorse necessarie per farlo neanche con se stessi. Questi studi sono di matrice americana, e descrivono una realtà sociale per certi versi diversa dalla nostra. Credo che questa riflessione fosse interessante se prendiamo in considerazione il fatto che non esiste un modello puro ma che stiamo parlando di tendenze utili per la descrizione. Se è vero che le classi possono fare la differenza sullo sviluppo, è anche vero che oggi viviamo circondati da tutta una serie di stimoli che potrebbe attenuare queste tendenze.

Voi che ne pensate?

 A presto…

Fabrizio

[1] Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pag. 163

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American History X

American History XSulla scia del post Bernardo e l’angelo nero (29.12.11), il film che voglio raccontarvi oggi si intitola American History X, del regista Tony Kaye (1998) e con protagonista Edward Norton. Il film racconta sostanzialmente le vicende di due fratelli, Dereck (Norton) e Danny (Edward Furlong), intrecciate tra loro non solo a causa di vicende familiari, quanto per la ‘passione’ col quale Dereck sembra essere vicino al mondo neonazista. Il film inizia con una sorta di prologo che ci spiega quale vicenda ha portato in carcere Dereck: durante un tentativo di rapina, sventa il furto e uccide una persona di colore. Danny assiste a tutta la scena e da questa vicenda sembra essere particolarmente influenzato. Tramite continui salti temporali, troviamo Danny alle prese col preside della sua scuola. L’uomo (tra l’altro di colore) lo convoca perchè Danny, per un compito, ha scritto una tesina sul Mein Kampf, il libro nel quale Adolf Hitler espose le sue deliranti idee politiche e sociali. Il preside gli da come compito quello di scrivere una American History x che tratti della storia del fratello e di quello che la sua vicenda ha provocato nella sua famiglia. Grazie a questo pretesto narrativo verremo pian piano a sapere la più complessa vicenda della famiglia e le vicissitudini che hanno portato a questo avvicinamento all’ideologia nazista.

Come già accennato il film ha una sequenza temporale particolare e la vicenda si articola tramite diversi flashback. Attraverso la storia della famiglia iniziamo a capire cosa ha portato Dereck ad avvicinarsi a questo tipo di posizioni. Un incidente (è difficile raccontare una trama senza svelare troppo e levare a voi il gusto di vedere il film!) provoca in lui un rifiuto per tutti i diversi, coloro che provengono da altri paesi e che non meritano di stare nel suo. Possiamo solo notare come, nel momento in cui le nostre certezze sembrano vacillare, abbiamo bisogno di un capro espiatorio, qualcuno che paghi in un solo colpo quello che si percepisce come ingiusto, vano, orribile. Qualunque cosa, nel dolore, sembra essere un’ancora di salvezza. Anche la più bieca ideologia diventa allora un porto sicuro. Dereck finisce in carcere, dove esce dopo tre anni. In uno degli spostamenti temporali abbiamo la possibilità di vedere quanto sia cambiato in carcere, quanto sia ormai lontano da posizioni con cui prima sembrava identificarsi molto di più. All’esterno del carcere, invece, le posizioni sembrano essere rimaste le medesime. Tanto lui è cambiato quanto gli altri sembrano non essere in grado di mutare, di accettare l’evoluzione, di pensare al cambiamento. Sembrano essere rimasti gli stessi di prima. Altra riflessione: tanto più le persone si sentono in difficoltà con la mutevolezza della realtà, tanto più si consegnano ad ideologie assolutistiche, rigide, insindacabili. L’ideologia neonazista è una di queste.Questo, secondo me, è uno dei temi portanti del film. L’identità. Non solo la nostra identità rispetto agli altri (chi è diverso? rispetto a cosa?) quanto la nostra identità con le persone che ci stanno vicino (familiari e amici) e con noi stessi. Quanto gli altri possono accettare il cambiamento in noi? Quanto possono riconoscercelo e averci a che fare? In questo film tutti sembrano avere a che fare più con immagini stereotipate, statiche, piuttosto che con persone reali. E allora fare accettare la nostra nuova immagine agli altri, il nostro nuovo noi, deve passare necessariamente per strappi, atti di forza. Una delle scene emblema è quella nella quale Dereck litiga con la fidanzata. Fuori di sé dalla rabbia ad un certo punto lei gli grida: ‘questo non sei tu’. Proprio questa incapacità di essere consapevoli della possibilità che una persona ha di cambiare rende il film simbolico. Qual è il vero Dereck? Il neonazista o l’altro? Scindere ci aiuta? O è forse una semplificazione? Dereck è il nazista ed è il Dereck nuovo. Uno non esclude l’altro. Uno ci aiuta a capire meglio il percorso dell’altro. E comprendiamo, allora, i movimenti avvenuti in carcere, gli avvicinamenti alle persone con le quali deve per forza di cose interagire. E allora che la conoscenza permette di superare il facile pregiudizio dietro cui ci si trincera. La conoscenza permette l’accettazione, l’integrazione. Solo con l’accettazione (dell’altro e dei propri dolori) si può fare i conti con la realtà nella quale ci troviamo, accettazione che fa dire a Dereck: ‘all’epoca ce l’avevo con tutti, adesso sono stanco di essere incazzato’.
Altra riflessione: quanto peso hanno, nelle nostre decisioni, le influenze dell’ambiente familiare? Dereck si rende conto del peso che sta avendo sul fratello minore e lo esorta a non seguire le sue orme per compiacerlo. Ha un ‘ottima consapevolezza di quello che sta avvenendo, ha gli strumenti per capire che è una strada che non lascia molti margini di manovra. Questo passaggio avviene non solo tra fratelli ma anche tra padre e figlio maggiore. Anche Dereck, scopriamo, aveva solo questo modo di avvicinarsi al padre, lo mantiene e lo coltiva allo stesso modo in cui fa il fratello quando Dereck è in carcere. Se però Danny è fortunato nel poter essere disinnescato da Dereck, quest’ultimo non ha avuto la stessa fortuna e diventa in qualche modo portatore di una visione non sua. Quanto dobbiamo stare attenti ai messaggi che possiamo passare ai nostri figli?

Il film tratta una tematica che molti di noi possono sentire impattante. Molte figure del film sono a dir poco disturbanti, con idee basate più sul preconcetto che su dati di realtà. Persone che ripetono stereotipi che immaginavamo potessero appartenere ad un passato che non ci rappresentava più. E che, invece, sono come un fiume carsico: a volte sembriamo non vederlo ma, sotto la superficie, continua a scorrere. Un film duro sul razzismo, sulle differenze, sulla nostra capacità di tollerarle nell’altro. Sulla nostra realtà. Dove, forse, non basta coprire una svastica con la mano per cancellare. Ma dove forse è vero che la violenza genera violenza. Ed è anche vero che imprigionarci nell’odio ci fa vivere in una gabbia dalla quale è molto difficile evadere.

A presto…
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Ancora sulla psichiatria…

Ancora sulla psichiatria...Ho già accennato al movimento psichiatrico e a quello anti-psichiatrico (cfr. Il manifesto del delirio). In quell’articolo riportavo un passo del testo Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia di Carl Whitaker. Sempre nel post, si parlava dell’esistenza di due grandi ’scuole’ di pensiero: da una parte coloro che ritengono la malattia mentale la semplice disfunzione di un sistema e che, perciò, non avrebbe nessun significato ma andrebbe solo ‘corretta’, dall’altro coloro che ritengono che ogni malattia mentale assuma un significato, un senso per la persona che quella malattia stessa manifesta. Il primo approccio è l’approccio ‘psichiatrico’, per cui la cura dello scompenso è legata all’assunzione di una sostanza con capacità terapeutiche. Il secondo approccio è legato alla cosiddetta anti-psichiatria e fa riferimento all’opposizione per metodi di cure che prevedano l’uso massivo di farmaci o l’internamento del paziente in strutture cosiddette ‘istituzioni totali’ sottoposti a cure coatte (come poteva avvenire negli istituti psichiatrici).

Come accennato, in realtà, a ben pensarci, questo secondo tipo di approccio è molto più rivoluzionario di quanto considerato fino a questo punto. Infatti, nel primo caso, il focus dell’attenzione è legato al portatore della malattia mentale che si trova così, solo, di fronte ai suoi deficit, alle sue mancanze che vanno corrette. Dall’altra, c’è tutto un movimento ‘sociale’ che cerca di strappare il primato della malattia mentale dal singolo per ricollocarlo nella giusta dimensione: la dimensione sociale. La dimensione di sistema. Allora, e il capovolgimento di prospettiva è totale, non è il singolo ad avere una malattia da curare, quanto il portavoce di un sistema di relazioni che non funzionano. Dovremmo, dunque parlare di relazioni patologiche. Non più persone. Ma se il focus della malattia non è più sul singolo, giocoforza non è più il singolo da curare, ma il sistema intero nella quale il singolo si trova.

Questo approccio sociale, è stato fondamentale nel cambiare poi gli interventi che si volevano attuare nella comprensione del disagio mentale. Non aveva senso isolare una persona malata, in una istituzione totale (un’istituzione cioè, che sovraintendeva a qualsiasi aspetto della vita pratica di un indivduo come potevano essere i manicomi), ‘curarla’ e contenerla, perchè nessuna cura poteva prescindere dalla considerazione del contesto più vasto nella quale quella persona stessa era cresciuta.

Che senso avevano, in questa nuova prospettiva, gli istituti psichiatrici?

Nessuno. Basaglia stesso in proposito diceva: Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (…); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo. (Franco Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, 1964).

Parole che, a distanza di quasi 50 anni, fanno decisamente ancora riflettere.

A presto…

Fabrizio

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Terza età? Nuova chance…

Terza età Nuova chance...Il post odierno riguarda un articolo comparso su Repubblica (27.07.11) a firma di Mariapaola Salmi. Riporta i risultati del IV Rapporto Auser-Filo d’argento. Auser e Filo d’argento sono due realtà che si occupano di dare voce alla cosiddetta terza età. Stando ai risultati di questo rapporto, gli anziani si sentirebbero sempre più soli e abbandonati a se stessi. Questo sentimento sarebbe più forte nelle regioni del Nord Italia laddove sarebbe più carente il ruolo familiare che gli anziani potrebbero giocare. Invece al Centro e al Sud questo ruolo sarebbe ancora uno dei fattori che fanno sentire attive le persone anziane. Altro dato che colpisce è la netta maggioranza di donne che si rivolge a questo tipo di servizi (70% circa). Questo sembra testimoniare una maggiore propensione delle donne ad ascoltare e cercare di risolvere i loro disagi rispetto agli uomini, da sempre abituati a mettere in secondo piano le loro emozioni. Comunque quello che più colpisce è una domanda che mira a ridefinire, lontano dagli stereotipi che spesso circondano la terza età, un ruolo più attivo all’interno della società, legato non solo a quelli che sono i servizi di assistenza ma a funzioni più partecipative che “includono l’integrazione, l’aggregazione, il divertimento, il contatto diretto con l’ambiente in cui vivono”.

Questo notizie lasciano sempre l’amaro in bocca. Mi sembra sempre che un enorme serbatoio di potenzialità, di esperienze, di capacità venga lasciato li, in disparte, non cogliendone il reale valore. Anche se è vero che alcuni segnali positivi iniziano a scorgersi (come, per esempio, i nonni vigile a Cagliari o le persone che sorvegliano il verde pubblico!), il panorama generale rimane abbastanza carente. Se conoscete altre iniziative di questo tipo segnalatemelo pure tramite i commenti oppure con una mail privata!

Per il momento il link:

http://www.repubblica.it/salute/2011/07/12/news/anziani_d_italia_sempre_pi_soli-19019067/

A presto…

Fabrizio

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Bianca come il latte, rossa come il sangue

Bianca come il latte, rossa come il sangueIl post di oggi è dedicato ad un libro che mi ha colpito molto. Si intitola Bianca come il latte, rossa come il sangue è stato scritto da Alessandro D’Avenia (2010). Il libro narra la storia di Leo un sedicenne come tanti altri calato nella tipica realtà di un sedicenne di oggi: lo sport, le amicizie, i primi amori, la scuola. Leo, come apprendiamo fin dall’inizio del libro, ha una idiosincrasia per alcuni colori e ne ama altri: odia il bianco che per lui significa l’assenza e la perdita e ama invece il rosso che per lui ha come valenza quella legata alla vita, alla passione. E  rossi sono i capelli della persona che suscita la sua passione: Beatrice. Beatrice viene conosciuta e avvicinata tramite l’amica Silvia, che costiutisce un porto sereno nella vita di Leo e che appunto fa da tramite tra i due. Silvia è innamorata di Leo, in un gioco di intrecci e rimandi amorosi per cui spesso ci si innamora delle persone più lontane e non ci si accorge di quelle persone che sono a noi più vicine. Beatrice viene conosciuta con lentezza e rispetto e molte delle cose che la caratterizzano sembrano per lo meno strane. Solo con la frequenza Leo si accorge del fatto che sia malata: questa consapevolezza rende il loro rapporto splendidamente tenero, vivo e vero e permette loro di conoscersi e di fidarsi l’uno dell’altro. Tanto Beatrice quanto Leo iniziano ad imparare delle cose l’uno dell’altra, ma è la malattia di Beatrice che sembra dettare i tempi della loro conoscenza. In questo, Leo soprattutto, inizia ad cambiare percezione della vita, passando da una sequela di avvenimenti poco coinvolgenti emotivamente, nel quale l’unica cosa che sembra dare piacere è pensare a come infastidire il nuovo proefessore di filosofia, ad una percezione basata sul confronto con l’altro, i suoi tempi, e le sue prerogative. Questo passaggio è molto coinvolgente e porta ad una ristrutturazione della vita stessa di Leo e delle sue priorità. Questo è uno dei momenti più importanti nel libro, secondo me, e porta ad affrontare un tema di solito tabù per questo tipo di libri: la morte. La morte non è più solo la fine di tutto, diventa un passaggio tramite il quale maturare, potersi specchiare nelle proprie paure e poter in qualche modo riuscire a ricavare una forza o una nuova prospettiva in grado di cambiare la percezione della vita stessa. Leo in questa fase di passaggio sembra apparentemente solo rispetto a quello che gli sta capitando. Lo è nel momento in cui, solo, è obbligato a confrontarsi con se stesso, con i suoi timori soprattutto quella della perdita e con la morte, non solo quella fisica ma soprattutto quella simbolica del suo mondo, un mondo nel quale tutto sembrava permesso, nel quale esistevano dei riti saldi e conosciuti (il calcetto, la scuola…) e aveva dei tempi che lui dettava. Tutto cambia dopo, nella percezione del protagonista. Nella nuova percezione del tempo, la vita va avanti e Leo può apprendere che, per affrontare il cambiamento, dovrà restaurare la stessa idea che aveva della sua vita.  Allora tutti i riti conosciuti acquistano un nuovo valore e anche con gli adulti è possibile costruire rapporti che neanche avrebbe immaginato. E il professore di filosofia diventerà non solo la persona da infastidire ma una delle persone più vicine al quale confidare i propri patemi. 

lnsomma, un libro molto bello e delicato sull’adolescenza. Ma in  generale sulla vita. Un libro che può costituire un ottimo spunto di discussione se condiviso tra genitori e figli. Un libro che consiglio anche agli adulti che vogliano avvicinarsi al mondo dell’adolescenza per ricordare come possono essere totalizzanti certe esperienze in quella fase della nostra vita. 

A presto…

Fabrizio

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