‘Amici’ su Twitter…

Amici su Twitter...Questa riflessione nasce dall’osservazione che sempre più persone interagiscono tra loro tramite l’utilizzo o la mediazione dei social network che, ogni giorno di più, ingrossano le fila dei loro utilizzatori. Chi di noi non è iscritto in uno dei numerosi social network? Chi di noi non trova agevole fare amicizia su internet? Perché sembra sempre più facile fare questo tipo di amicizie e coltivarle rispetto e, a volte a discapito, delle amicizie reali? Cosa si nasconde dietro questo mondo che si ingrossa sempre di più di persone, di storie e che abusa di termini con i quali, un tempo, definivamo i rapporti con gli altri?

La vera questione di questo tipo di rapporti riguarda il fatto stesso che si possano definire amicizie. L’amicizia nasce (nasceva?) dalla conoscenza diretta con la persona, dalla condivisione di una parte importante della nostra vita (la scuola, le vacanze, un viaggio) e permetteva di inserire quella persona in una cerchia ristretta di conoscenze con le quali potevamo dire di sentirci vicine. Tutto questo è stato rivoluzionato dall’avvento e dal concetto che dell’amicizia danno i social network. L’amicizia sembra, in questo caso, legata più al numero delle persone che si ‘conoscono’, piuttosto che dalla reale interazione che poi si ha con queste stesse persone. Per molte di loro è importante avere un gran numero di amicizie, senza che ci si curi minimamente di cosa voglia dire avere queste ‘amicizie’. E qui entra in gioco uno dei fattori che hanno favorito la diffusione di questo tipo di reti: il contatto con l’altro. Se è vero che le persone che vengono conosciute su questi nuovi media non possano dirsi amiche, è anche vero che viene favorito uno scambio continuo tra persone che difficilmente si sarebbero potute incontrare nella vita. Questa quantità di rapporti non può essere confusa, però, con la qualità. E, secondo me, non è vero che tendono a favorire i confronti perché generalmente le persone si circondano di contatti che abbiano interessi simili ai loro, non favorendo un contatto tra persone che possono pensarla diversamente.Tanto che, spesso, qualunque discussione degenera facilmente nell’insulto. Questa parentesi ci porterebbe lontano: ho affrontato questo tema nel post Perchè siamo così aggressivi su internet pubblicato l’11.09.12. Tornando a noi, credo che la proliferazione di questi luoghi di incontro virtuali nasca anche dalla difficoltà che si ha nello stabilire rapporti reali e dalla facilità con cui, invece, questi rapporti possono essere gestiti su internet. Mi spiego meglio: un’amicizia può essere anche un’esperienza faticosa: il nostro amico può richiedere un’attenzione o un impegno che noi, sempre presi dalle mille corse quotidiane, possiamo sempre più raramente permetterci di concedergli. O che non vogliamo concedergli. Un’amicizia su internet può essere molto più facilmente gestita spesso senza nessun coinvolgimento diretto tra le persone. Se ci pensiamo, si tratta di condividere un link oppure metter un ‘mi piace’ su qualcosa postato da qualcuno. Un altro aspetto che entra in gioco nel successo di questo tipo di contatti ha a che fare con la possibilità di investire poco della nostra personalità nella relazione stessa. L’immagine che noi diamo di noi stessi sui social network è molto edulcorata, e può non rispondere al vero per moltissimi aspetti. Ovviamente, questo è un problema che può colpire anche una relazione ‘reale’ dato che possiamo mentire ed essere poco sinceri su noi stessi. In una relazione ‘reale’, però, il gioco è molto più dispendioso e, se la conoscenza continua, può difficilmente essere mantenuto a lungo a costo della relazione stessa. In un rapporto virtuale, invece, questo gioco può andare avanti per parecchio se non caratterizzare l’intera durata della ‘conoscenza’. Non fraintendetemi, non sto dicendo che i social network siano dannosi o che non costituiscano nulla di valido. Sono una realtà con la quale confrontarci e che ormai permea gran parte della nostra stessa quotidianità.

La riflessione voleva arrivare a chiarire quali possano essere le differenze tra una relazione nella quale giochiamo per intero e una relazione che ci può far giocare solo in minima parte. Forse è vero che entrambi siano relazioni. Ma non so se per una delle due possa essere esplicativo il termine amicizia.

A presto…

Fabrizio

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Gli articoli del blog sul vostro ebook…

Gli articoli del blog sul vostro ebook...Questo post illustra un servizio pensato per tutti coloro che, come me, leggono spesso articoli o documenti a cui sono interessati sul proprio ebook. Per questo motivo ho pensato di convertire tutti gli articoli del blog in formato PDF, di modo che possano essere caricati più facilmente dai vostri lettori.

Come funziona il tutto? Il modo che descriverò è quello che funziona per l’ebook più diffuso, il Kindle di Amazon. Se avete un altro tipo di ebook, vi consiglio di consultare le istruzioni fornite al momento dell’acquisto o reperibili su internet specifiche per il vostro lettore. Il punto da cui partire è l’apertura del file al quale siete interessati.  Dopo averlo selezionato dall’elenco, per aprire un file dovete semplicemente cliccarci sopra e, una volta aperto, salvarlo. Dopo averlo salvato, potete procedere in questo modo:  una volta registrati sul sito di Amazon (seguite, per questo, le istruzioni sulla guida presente sul Kindle stesso), aprite la vostra email personale, scrivetene una nuova, mettete come destinatario l’indirizzo email che è stato generato al momento della registrazione su Amazon, allegate i file che volete mandare sul Kindle e mettete, come oggetto della mail il testo CONVERT. Vi assicuro che è più difficile da scrivere che da fare! Dopo di che riceverete, quando il vostro ebook si trova connesso ad internet, l’articolo pronto per essere letto comodamente quando ne avete l’opportunità. Insomma, un modo nuovo di fruire della possibilità di poter leggere quello che più vi interessa. Cliccando sul link in arancio di sotto, sarete reindirizzati alla pagina del sito www.lopsicologovirtuale.it sul quale trovare la lista di tutti gli articoli. Verranno aggiornati a brevi intervalli quindi potete controllare di tanto in tanto le nuove uscite.

Il link è presente, comunque, alla fine della pagina ATTIVITA’  STUDIO e sulla barra laterale a destra sotto la voce ‘SCARICA IL PDF DEGLI ARTICOLI DEL BLOG’.

Vi lascio con il link sul quale cliccare:

– CLICCA PER ACCEDERE ALLA LISTA GRATUITA DEGLI ARTICOLI –

Fatemi sapere che ne pensate!
A presto…

 

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La gioco-dipendenza…

La gioco-dipendenza...L’articolo del quale voglio parlarvi oggi riguarda una realtà che è sotto gli occhi di tutti noi. Mi riferisco all’aumento spropositato di persone che soffrono di disturbo da gioco, vera e propria nuova mania nazionale aggravato, per molti, anche dalle condizioni economiche di questo periodo. Ma andiamo con ordine. Secondo la Alea, associazione per lo studio del gioco, sarebbero mezzo milione le persone che avrebbero un rapporto patologico con il gioco. Ci si riferisce a persone che non sono in grado di controllare l’impulso di giocare, che non sono in grado di smettere autonomamente e che sono in grado, invece, di passare ore e ore di fronte a macchinette o giocarsi l’intero stipendio (o pensione) nella speranza di poter guadagnare qualcosa. Di questi 500.000 ben 100.000 sarebbero minorenni, persone che non potrebbero neanche giocare. Non ci si deve stupire di questi numeri: i minorenni vengono iniziati al gioco tramite delle apparentemente innocue applicazioni che spopolano, per esempio, su Facebook. Questi giochi, anche se apparentemente non sono dannosi perché non si vince o non si perde nulla se non ‘soldi virtuali’, in realtà sono potenzialmente molto distruttive nel momento in cui iniziano ad innescare nel minore sia la comprensione che la passione per il gioco fine a se stesso. Quel minore sarà, poi, un adulto che conoscerà non solo tutte le regole del gioco ma avrà provato l’ebbrezza di vincere e perdere virtualmente. Il salto nel reale è solo l’ultimo passo per una dipendenza coltivata da anni.

Parlando di gioco, non stiamo parlando, ovviamente, solo di macchinette o poker, ma di tutti quei mille modi con cui le persone tentano la fortuna in Italia: gratta e vinci in primis. Ormai sono talmente diffusi che sembra impossibile uscire da un negozio qualunque senza averne giocato almeno uno. Promettono premi sempre più grossi e alcuni propongo dei veri e propri vitalizzi. La tentazione si fa sempre più grossa sopratutto per quelle fasce sociali che, invece, hanno sempre più difficoltà ad arrivare a fine mese. Non stupisce, allora, come tra le categorie di giocatori più a rischio vengano citati pensionati, casalinghe, disoccupati, fasce deboli della popolazione e che queste categorie costituiscano addirittura il 40% dei giocatori  più a rischio di sviluppare dipendenza.

Sono dati allarmanti considerato che spendiamo mediamente 8o miliardi di euro all’anno per giochi, gratta e vinci, scommesse e lotterie. Lo Stato è il vero vincitore di questo giro immenso di soldi. Si calcola che incassi all’incirca 20 miliardi di euro l’anno. Prima di pensare che questa cifra giustifichi e spieghi l’investimento, bisognerebbe forse, pensare a tutti i costi, materiali, psicologici, sociali che questo tipo di dipendenza invece comporta per le stesse casse dello Stato. Molte di queste persone, non essendo in grado di uscire autonomamente dalla dipendenza, hanno bisogno di aiuto qualificato e si rivolgono ai servizi psicosociali delle Asl, andando ad aumentare il grado di congestione del servizio stesso. Molti, spinti dal miraggio della ricchezza, si ritrovano ad essere sempre più poveri. In alcune fasce questo potrebbe provocare l’aumento di tensione familiare, coniugale, genitoriale. Sono tutti costi imponderabili, ma che sarebbe bene mettere sul piatto della bilancia. Solo allora risulterebbe difficile lavarsi la coscienza con il ritornello gioca il giusto!

Intanto il link: 

http://www.repubblica.it/salute/2012/03/23/news/giocodipendenza_6mila_italiani_in_cura-32078025/ 

L’articolo è di Repubblica ed è firmato da Caterina Pasolini

A presto…

Fabrizio

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Dottore, sta scherzando?

Dottore, sta scherzandoIl post di oggi è dedicato ad un aspetto talvolta trascurato o frainteso all’interno di una seduta di psicoterapia. Mi riferisco all’uso dell’umorismo, della battuta di spirito che può cambiare il corso della conversazione. L’umorismo è un’arma potentissima all’interno della seduta dal momento che permette, se correttamente e sapientemente utilizzata e proposta, di cambiare la prospettiva all’interno della narrazione e aprire porte e brecce laddove la situazione sembrava non permetterlo. Molti potrebbero obiettare che talvolta, nei guai e nelle vicende delle persone, non ci sia nulla da ridere. Se da un lato è vero, perché veramente certe situazioni pongono di fronte a delle vite nelle quali le vicende sono state tragiche, è pur vero che la scelta dell’umorismo è anche un fattore catalizzante per un cambio di prospettiva rispetto alla visione che ne abbiamo sempre avuto. L’utilizzo dell’umorismo all’interno della terapia è una cartina al tornasole che permette di verificare anche la ‘distanza emotiva’ che esiste tre terapeuta e paziente. L’utilizzo dell’umorismo, infatti, permette al terapeuta di non farsi invischiare dalla visione che ne porta il paziente e di introdurre una vera e propria variabile all’interno del racconto che la persona ci porta. A questo proposito possiamo citare la posizione di Murray Bowen, psichiatra americana e pioniere della terapia familiare e sistemica. Il brano è calibrato sulla terapia familiare ma si può tranquillamente applicare anche alla terapia individuale.

Inoltre c’è sempre un lato umoristico e comico in tutte le situazioni più serie. Se sono troppo, posso rimanere coinvolto nella serietà della situazione. D’altra parte, se sono troppo distante rischio di non entrare in reale contatto con loro. La ‘giusta’ posizione per me è quella che sta tra la serietà e l’umorismo; cioè quando sono in grado di dare delle risposte sia serie che umoristiche per facilitare il processo nella famiglia (…) Se (il terapeuta) riesce a mantenere con il sistema un giusto grado di distanza e di contatto emotivo, è quasi automatico che dica o faccia la cosa più appropriata. Se resta in silenzio e non riesce a dare una risposta significa che è troppo coinvolto emotivamente. (…) Dei commenti casuali comunicano efficacemente che il terapista non è coinvolto più del necessario. Il ‘capovolgimento’, cioè un commento che mette in risalto un lato inusitato o completamente opposto di un dato problema, o che ne coglie l’aspetto prosaico o leggermente umoristico, è uno degli strumenti di maggiore efficacia per alleggerire una situazione eccessivamente seria. [1]

Naturalmente, come tutti gli strumenti, va saputo utilizzare, con modo e rispetto. Non stiamo infatti parlando di buttarla sullo scherzo qualsiasi sia l’argomento di conversazione. Si tratta di utilizzare, con rispetto e attenzione della storia della persona che ci si siede di fronte, una vera e propria tecnica che consente di cambiare prospettiva sulla storia che la persona ci racconta.

E’ questo un modo che mi piace utilizzare nella terapia, un modo che mi appartiene e che sento di riuscire a calibrare. Non si tratta di una mancanza di attenzione e di rispetto della storia che mi si  sta raccontando: è un altro modo con il quale penso di poter aiutare l’altro a rapportarsi diversamente con ciò che mi porta e nel contempo che si possa rendere meno ingombrante e impattante la storia che lo imprigiona nella sofferenza.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Bowen, M. (1980), Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma

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Il calamaro e la balena…

Il calamaro e la balena...Il film che vi voglio raccontare oggi ha un titolo curioso e particolare: Il calamaro e la balena. Il film è del regista Noah Baumbach (2005). Racconta la storia di una famiglia composta da due genitori e due figli maschi che, apparentemente perfetta, viene sconvolta dalla improvvisa separazione dei genitori. Il motivo della separazione dei genitori ha una funzione fondamentale nello scatenare alcune dinamiche della vita familiare stessa: la madre inizia ad avere più successo del padre nel lavoro. Entrambi hanno pubblicato dei libri, ma se il lavoro del padre non sembra riscuotere più molto successo, la pubblicazione della madre invece lo è. Ovviamente, questo sembra il pretesto per dichiarare la fine di una storia che sembrava ormai finita da tempo. La cosa che incuriosisce e che rende interessante il film, sono tutti i meccanismi che vengono utilizzati da entrambi i genitori per cercare di non guardare in faccia la realtà del cambiamento che sta interessando la loro famiglia. Da una parte la donna, che accusa il marito di non essere più stato lo stesso dopo la fine del suo successo creativo. Dall’altro lui accusa la madre di aver ‘distrutto la famiglia’ prendendo una decisione del quale entrambi sembravano consapevoli. In mezzo i figli che, come in ogni buona separazione conflittuale che si rispetti, vengono utilizzati dai genitori come pedine su una scacchiera, e chiamati a schierarsi con l’uno o con l’altro genitore. Il primogenito si schiera col ‘povero’ padre mentre il secondogenito con la madre. Il secondogenito è interessante nella collocazione del film: inizia a mettere in atto azioni sempre più provocatorie man mano che la separazione dei genitori assume contorni sempre più conflittuali. In realtà i suoi atti sembrano più che altro grida di dolore che nessuno sembra in grado di ascoltare. Potrete notare come, in queste scene, il ragazzo sia sempre da solo e non sembri esserci nessuno in grado di avvertire il suo richiamo. In tutto questo la strategia migliore del padre sembra quella di cercare di costruire una sorta di doppione della ex-casa di famiglia che consenta ai figli di vivere al meglio un cambiamento che lui per primo, non sembra in grado di gestire. L’emblema del film è rappresentato dal gatto che è costretto a fare la spola tra una casa e l’altra fino a quando, alla prima occasione fugge da entrambe. Una fuga che il primogenito sembra non riuscire ad attuare.
Insomma, un bel film che vi consiglio di guardare, un film che riesce a descrivere lo sconvolgimento e le strategie che caratterizzano i membri di una famiglia che si trova a vivere un cambiamento del quale avrebbe fatto volentieri a meno ma che non sembrava più rinviabile. Una famiglia che attraversa un momento di passaggio non dissimile da quello che tante famiglie si trovano, per varie ragioni, a dover affrontare. Un film che riesce a descrivere l’inevitabile passaggio che la fine di una relazione può comportare. Un film che potrebbe descrivere, in uno dei personaggi, qualcuno che conoscete in realtà!


A presto…
Fabrizio

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S’ accabadora…

S' accabadora...Il post di oggi riguarda una vicenda della quale ben poco sapevo fino a non molto tempo fa ma che ha forti risvolti con un dibattito in corso attualmente. Pur essendo sardo, non avevo mai sentito parlare della figura de s’accabadora. Per chi non lo sapesse il termine fa riferimento alla persona de s’accabadora, termine che potremmo tradurre con ‘colei che da la fine’, una sorta di incaricata dell’eutanasia delle persone moribonde nei piccoli paesini della Sardegna. Il termine ebbe un risalto nazionale grazie al libro della scrittrice sarda Michela Murgia che, nel 2009, pubblicò un libro dal titolo Accabbadora e che vi consiglio di leggere se voleste saper qualcosa di più sul tema. Ma torniamo a noi. Perché mi sto occupando di questo tema? Il pretesto de s’accabadora è utilizzato per parlare più specificamente dell’eutanasia. Il termine eutanasia composto dal suffisso eu-buona e dal sostantivo tanatos-morte, vuol dire appunto buona morte. Il tema è dibattuto ancora oggi e lo è stato molto in occasioni particolari come la morte di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby. In realtà, il tema dell’accompagnamento delle persone sofferenti alla morte è stato, e la figura dell’accabadora sembra dimostrarlo, sempre presente nella società. Forse era necessaria nelle società pre-mediche, società dove, cioè, la medicina non aveva ancora questa aura salvifica, una figura che fungesse da ‘intermediario’ tra le sofferenze della persona malata, la famiglia e la morte stessa. La funzione di questo tipo di figura era, essenzialmente, quella di dare una degna fine alla vita di un individuo non più in grado di viverla, alleviando non solo le sue sofferenze, anche solo quella di non poter più considerare quella che stava vivendo come Vita, ma anche quella del gruppo familiare e sociale più esteso dato che si doveva comunque fare fronte all’accudimento di una persona non più autosufficiente e per il quale, magari, non c’erano strumenti che consentissero di consentirgli di vivere in maniera decente. Curiosamente, anche dal punto di vista religioso s’accabadora godeva di un certo status, dal momento che, non considerata ‘assassina’, aveva una valenza sociale riconosciuta. Questa premessa dava luogo ad una certa considerazione: prima dell’avvento della medicina di massa, esisteva un forte legame tra la vita e la morte dove la seconda era considerata come necessaria conseguenza della prima. 

Ho l’impressione che noi abbiamo perso tutto quest’insieme di simbolismi e di concezioni sulla morte. Schiavi ormai dell’idea di una medicina onnipotente, prendiamo in considerazione con sempre maggiore difficoltà che ci siano condizioni nelle quali la morte è preferibile ad una non-vita. Convinti fermamente di poter decidere in tutto e per tutto cosa ci possiamo (o no) permettere, siamo accecati da questa apparente onnipotenza. Questa onnipotenza viene meno nel momento in cui potremmo decidere della nostra fine. In questo la società sembra essere molto categorica e si rifugia dietro dogmi religiosi: non si può avere una ‘dolce morte’, partendo dal rispetto dei tempi della morte, perché la vita non è nelle nostre disponibilità e, privandocene, non rispetteremmo il volere di dio. In realtà, a ben pensare, se dovesse essere rispettato il volere di dio probabilmente bisognerebbe spegnere le apparecchiature che, artificialmente, tengono in vita le persone grazie al mantenimento, sempre artificiale, di tutte le funzioni vitali più importanti.

Chi non rispetta allora il volere di dio? E ancora più paradossale sembra essere il fatto che siamo privati della possibilità di decidere sulla nostra morte anche se la nostra palese volontà è quella di far terminare la vita al di là di qualsiasi accanimento terapeutico. E tutto ciò avviene in una società che apparentemente spinge a pretendere indipendenza e poi la nega sulle scelte di vita più intime e private. Solo a me pare un enorme contraddizione?  

Perché è andato perso il valore sociale della possibilità di porre fine alla nostra vita? Sembra come se, una volta che venisse tenuto in vita a qualsiasi costo, la persona stesse ‘vivendo’. Forse dovremmo necessariamente partire da questa accezione meccanica della vita (la mia vita è respirare o io sono qualcosa di più del mio solo battito cardiaco?) per cercare di riconsiderare il senso intero della nostra esistenza.

Non vorrei che, ottenebrati dalla possibilità di vivere ‘per sempre’, non finissimo davvero per considerare vita il solo respirare.

A presto…

Fabrizio

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Ho sognato di volare… Che significa?

Ho sognato di volare... Che significaSpesso capita che quando le persone vengono a sapere che sono uno psicologo mi sottopongano i loro sogni anche nei contesti più improbabili: al bar, in strada, in spiaggia… Di solito la conversazione comincia con un: ‘tu che sei psicologo…’ Poco tempo fa, per esempio, mi è stato chiesto in spiaggia di cercare di interpretare cosa volesse dire sognare di volare!

Questo tipo di domande mi fanno sempre uno strano effetto perché se da un lato segnalano la fortissima curiosità che circonda il tema della psicologia applicata al quotidiano, come per esempio i sogni, è anche vero che denotano una forte banalizzazione del tema come se uno psicologo, forte delle proprie doti divinatorie, potesse comprendere attraverso un sogno il mondo ricco e complesso di un individuo. Alla mia reticenza nell’interpretazione spesso le persone non reagiscono bene. Questo pensiero semplificatorio è, credo, frutto di anni e anni di disinformazione, nei quali riviste e giornali (o altri mezzi di comunicazione) hanno accolto la pagina dedicata allo psicologo di turno in grado di dare soluzioni a tutto. Secondo me è una banalizzazione eccessiva e tutte le rubriche di questo tipo dovrebbero ricordarlo ai propri lettori o ai propri ascoltatori. Mettendo da parte un momento questa polemica, che ci porterebbe troppo lontano dal tema che voglio affrontare, le ragioni per cui io non mi sento di accondiscendere a questo tipo di richieste sono fondamentalmente due: da una parte credo che per utilizzare al meglio uno strumento come il sogno questo vada inserito in una conoscenza della persona che lo porta. E’ del tutto inutile che azzardi a caso un’interpretazione basata sul nulla, che non ha alcun valore probativo rispetto a quello che può dire chiunque altro voglia interpretarlo. In più, e questo è il secondo forte motivo, mi sembrerebbe di fare un torto al sogno se banalizzassi così il suo significato.

In realtà credo che il sogno sia una porta enorme e affascinante sul mondo interno dell’individuo. Come tutte le cose va saputo significare nel migliore dei modi, ne va capito il senso in relazione alla vita dell’individuo che lo porta. Già Freud nel suo testo fondamentale L’interpretazione dei sogni (1898)[1] pose in luce alcune delle funzioni e dei meccanismi di funzionamento del sogno stesso e il valore assolutamente rilevante che i sogni potevano avere non solo nel lavoro terapeutico con il paziente, ma anche nella complessa economia conoscitiva delle modalità di funzionamento psichico dell’individuo che quei sogni portava. La ricerca attuale sul sogno, accantonando molte delle presunte non oggettività del percorso psicanalitico, si è concentrata sui correlati fisiologici del sogno stesso, grazie ai potenti mezzi di visualizzazione dell’attività cerebrale dei quali possiamo disporre attualmente. Pur non ritenendo necessaria la possibilità di studiare una materia complessa come i sogni, data la loro difficile classificazione secondo il metodo scientifico, viene comunque da chiedersi perché, all’interno di un’ottica evolutiva che privilegia i cambiamenti necessari, il sogno sia rimasto un elemento presente nell’attività mentale umana. Questo grande interrogativo non permette di liquidare i sogni come semplici sottoprodotti dell’attività cosciente. In questo senso sono perfettamente in linea con le parole della collega Occhionero: alcuni liquidano il sogno come un fenomeno assolutamente irrilevante per per l’economia cognitiva: l’attività mentale durante il sonno è un semplice epifenomeno del sonno stesso. Detto in altri termini, il cervello, in quanto tale, non può non produrre fatti cognitivi anche se non ve ne è nessuna necessità. Non esiste alcuna condizione (…) in cui il cervello dell’uomo non sia in grado di produrre una qualche attività mentale. (…) Il sogno è uno stato mentale e come tale ha a che fare con la coscienza, meglio, esso è uno stato della coscienza, essendoci un accordo generale tra tutti i ricercatori nel considerare la coscienza come un universo a molti livelli di complessità. [2] 

Questa complessità è l’aspetto che più mi fa stare alla larga dalla semplificazione del sogno stesso, da una facile lettura e ridefinizione che non tenga conto della stratificazione di significati, vissuti, pensieri che il sogno stesso rappresenta. E, se questa premessa è vera, non si può non dover riconsiderare il bisogno di un lavoro attento e preciso sull’interpretazione del sogno stesso, un lavoro che necessariamente non può prescindere da un lavoro più ampio sulla persona stessa.

Altrimenti l’interpretazione di un sogno rimane alla stregua di un gioco. Certo, si può fare e può essere divertente. Ma non si dovrebbe dimenticare che come gioco è nato e che di gioco si tratta. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Freud, S. (2010), L’interpretazione dei sogni, Newton Compton, Roma

[2] Occhionero, M. (2009), Il sogno, Carocci, Roma, pag. 89

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InVita laVita

InVita laVitaSono lieto di comunicarvi che ho iniziato la collaborazione con la onlus InVita laVita, associazione di Cagliari che si occupa del supporto di persone colpite da tumore. Il progetto, ha come scopo quello di dare sostegno e armi, in un momento di debolezza e disorientamento, alle persone che sono state colpite dal cancro, tra le malattie la più terrorizzante. Scopo dell’associazione è quello, dunque di fornire un supporto alle persone che vengono colpite da questo tipo di malattia o naturalmente, ai familiari. Il metodo che viene utilizzato è fondamentalmente quello dell’auto aiuto, basato sul meccanismo che persone che stanno vivendo, o hanno vissuto situazioni di vita simili, adeguatamente formate, facciano da sostegno e da supporto per persone che stanno entrando in questo tipo di situazioni. L’associazione è costituita ed è coadiuvata da una molteplicità di figure professionali che si occupano, ognuno con la propria professionalità, nel supportare le persone colpite dalla malattia.

Trovo che questa iniziativa sia non solo un ottimo modo per sostenere le persone in un momento di difficoltà, ma un ottimo modo per far si che la propria professionalità vada incontro alle esigenze della collettività. Ho, per questi motivi aderito alla proposta fatta da una delle socie fondatrici, la dottoressa Manca, e ho messo a loro disposizione la mia competenza, la mia attenzione e il mio tempo.

Chi fosse interessato alla tematica e si sentisse portato a partecipare, può, per maggiori informazioni o chiarimenti, contattare direttamente l’associazione al numero: 333 4303672 oppure attraverso mail invitalavita@gmail.com. Spero che ognuno di noi possa, per quanto gli è possibile, partecipare a questo splendido progetto.

A presto…

Fabrizio

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Perchè siamo così aggressivi su internet?

Perchè siamo così aggressivi su internetIl post di oggi scaturisce da una riflessione che ho avuto e riguarda sopratutto i mezzi di comunicazione come i social network o i messaggi. Non so se sia solo una mia impressione ma le posizioni, qualunque esse siano e qualunque argomento riguardino, sembrano sempre propendere per delle estremizzazioni che, talvolta, appaiono veramente eccessive. Persone che augurano apertamente la morte di qualche personaggio pubblico, la maggior parte delle volte politici accusati di qualunque possibile crimine, interventi che inneggiano direttamente alla violenza contro qualcuno (come per esempio pedofili).

Addirittura si arriva all’assurdo per cui persone che non consumano carne, per una scelta di rispetto e di antiviolenza credo, sperano che coloro che ne consumano facciano la stessa fine degli animali di cui si nutrono. Come sempre, credo che questa degenerazione debba avere una spiegazione e mi chiedevo come fosse possibile che posizioni sempre più estreme sembrino quelle che riscuotono il maggior successo. Ho due chiavi di lettura: da una parte le eccessive polarizzazioni delle posizioni in qualunque dibattito pubblico, dall’altra una comunicazione deficitaria che, non permettendo una reale comprensione del messaggio porta ad una eccessiva semplificazione dello stesso. Cerco di spiegarmi meglio. Non so se avete fatto caso ma oramai le persone non hanno più opinioni: hanno certezze. Non hanno più idee: hanno fedi. Non sono più in grado di pensare autonomamente: sono tifosi faziosi di qualche posizione che non concede repliche. Questa estremizzazione porta a scontri sempre più forti tra i ‘tifosi’ di una parte e quelli della parte avversa che, non aiutando a capire le ragioni dell’una o dell’altro, portano ad accentuare ulteriormente le posizioni e, di conseguenza, le tifoserie avversarie. Uno dei fattori che credo abbia contribuito a questa polarizzazione è l’anonimato, inteso come non conoscenza, che sta alla base del meccanismo col quale comunichiamo sui cosiddetti social network come Facebook o Twitter. Per anonimato intendo specificamente la mancanza di conoscenza diretta, la mancanza di una relazione reale che supporti quella virtuale. Alla base del successo di queste piattaforme, o delle chat, sta,secondo me, la possibilità che offrano una sorta di filtro nella relazione, un filtro che si frappone fra noi e il mondo e che, pur permettendoci di essere visti, ci protegge dall’esporci in un modo che potrebbe risultare ‘scomodo’. Questa protezione può permettere che la rabbia che sentiamo per un argomento possa uscire con molta più facilità, non filtrata dal fatto di starci mettendo la faccia. In un rapporto diretto, ‘reale’, saremo tenuti a tenere in qualche modo a bada questo sentimento. Notate come una discussione su Facebook spesso degeneri con una facilità estrema. Probabilmente, se la stessa discussione fosse avvenuta tra persone che si vedevano e che, dunque comunicavano anche in altra maniera oltre a quella scritta, sarebbe forse stata meno cruenta o non sarebbe degenerata in questo modo. Le persone avrebbero magari saputo mediare tra le diverse posizioni. Se questa comunicazione fosse avvenuta faccia a faccia, sarebbero entrati, nella comunicazione stessa anche altri livelli comunicativi che avrebbero influenzato la comunicazione stessa. Mi riferisco a tutti quei livelli di comunicazione non verbale (sguardo, postura, tono della voce, ecc) che entrano in gioco nel processo comunicativo, che lo caratterizzano e lo significano (sapete cogliere al volo se una persona sta scherzando con voi o facendo sul serio e in base a quello che cogliete potete rispondergli!) e che sono assenti nella comunicazione virtuale. Questi due aspetti potrebbero contribuire a spiegare il perché questa capacità di mediazione sembra essersi persa su internet.

Un altro fattore che potrebbe giocare un ruolo importante è il numero delle persone coinvolte. Su internet chiunque può intervenire in ogni discussione dell’altro e questo ci fa sentire esposti ad un livello più ampio. La mancata mediazione e l’esposizione potrebbero aumentare il livello di aggressività con cui si risponde. Questo meccanismo può essere considerato come circolare ed autorinforzantesi perché più vediamo questo tipo discussioni, più aumenta in noi la percezione che ci siano persone con un grado di aggressività alto, più ci farà avere meno freni inibitori quando ci ritroveremo a dover sostenere la nostra tesi in un’altra discussione. Ovviamente la mia è un ipotesi e, come tale, andrebbe considerata. Se ci pensate il fraintendimento comunicativo avviene spesso anche via sms proprio perché viene a mancare tutto il lato comunicativo non verbale che sottende e conferma la comunicazione scritta. Se con un sms possiamo comunicare con una persona, con Facebook o con Twitter possiamo comunicare contemporaneamente con molte persone e questo può aumentare esponenzialmente il grado di possibile fraintendimento della comunicazione stessa. Forse dovremo considerare questo prima di lanciarci nel difendere la nostra tesi a spada tratta e prima di pensare, insultandolo, che l’altro ci volesse offendere. E dovremmo considerare anche come i nostri irrigidimenti non ci portino a comunicare ma anzi a sottrarci alla possibile messa in discussione della nostra prospettiva

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Sempre a proposito di ADHD…

Sempre a proposito di ADHD...Vi segnalo un articolo in cui si parla di uno strumento, Eis, che sarebbe utile nella rilevazione della diagnosi di ADHD, il disturbo da deficit dell’attenzione e da iperattività. Mi sono già occupato di questo tema nel post ADHD. Cliccandoci sopra, potrete leggere il post in questione. Nell’articolo si sottolinea come questo tipo di diagnosi siano ancora gravate, soprattutto nel bambino, da frequenti errori. Ciò può portare a errati trattamenti con effetti collaterali a carico del cervello che potrebbero avere pesanti ricadute in là negli anni.  Questo tipo di esame, che si baserebbe sul principio della bioimpedenza, cioè della conducibilità di piccoli flussi di  corrente attraverso i tessuti corporei, (stesso principio usato per esami molto comuni come, per esempio l’elettrocardiogramma), come riporta l’articolo, costa poco ed è facilmente utilizzabile di routine, offrendo la possibilità di monitorare in maniera obiettiva l’andamento del quadro clinico, anche in risposta ai trattamenti. Inoltre consente di confermare la diagnosi clinica di ADHD con una specificità del 98% e una sensibilità dell’80%.

Nello studio, pubblicato su Psychology Research & Behaviour Managementgli autori tengono a precisare che questo esame non può da solo diventare l’unico marker diagnostico di ADHD, ma se questi risultati saranno confermati, diventerà certamente quell’ausilio pratico che finora era sempre mancato nella diagnosi clinica. D’altro canto, anche se questa metodica è stata impiegata per la prima volta in questa malattia, ha alle spalle anni di utilizzo nella diagnosi di altre patologie, da quelle cardiache a quelle neurologiche e metaboliche. L’avvento di una nuova metodica che permetta una migliore diagnosi è sempre da salutare con favore. Spero che il miglioramento diagnostico porti ad evitare tutta quelle serie di diagnosi errate che spesso, sono dettate più da altre ragioni che da motivi reali. Detto questo, mi inquieta sempre leggere di effetti collaterali a carico del cervello che hanno ricadute in là negli anni. Trovo la leggerezza con cui si riferiscono certe cose abbastanza sconcertante, tenendo anche conto che stiamo parlando di bambini. Ma come, quello che mi dovrebbe far star meglio potrebbe avere pesanti ricadute? Indubbiamente, non si pretende la perfezione in un campo, quello medico, nel quale essa è molto lontana. Ma una maggiore attenzione credo sia assolutamente doverosa. Se potessimo prestare più cura alle influenze che questi farmaci possono avere, se, cioè, fossimo informati meglio, ne guadagnerebbe la salute e il cervello in là con gli anni. 

Magari non ne guadagnerebbero le case farmaceutiche, ma temo che questo sia un altro discorso. O no? 

Intanto il link: http://www.corriere.it/salute/11_ottobre_30/adhd-diagnosi-avatar-computerizzato-peccarisi_50459938-fef3-11e0-b55a-a662e85c9dff.shtml

L’articolo è del Corriere della Sera ed è a firma di Cesare Peccarisi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (2)

Travestiti che usciamo (2)Temo di non essere del tutto d’accordo su alcune parti di questa citazione. Tanto per cominciare vorrei porre l’accento sulla velata colpevolizzazione della figura materna nello sviluppare il terreno fertile in cui crescerebbe, poi, il transessualismo. La stessa critica che mi sentirei di rivolgere alla definizione di madre frigorifero dello psicoanalista Bruno Bettelheim (per intendere una donna affettivamente fredda) per spiegare le cause dell’autismo infantile. Queste definizioni sono perfette per essere ricordate ma, a mio parere, estremamente riduttive. Tanto riduttive che non se ne coglie la possibilità d’uso. Da un punto di vista sistemico, poi, sono ancora più incomprensibili dal momento che non si capisce come una sola persona, sebbene stiamo parlando della madre, possa essere così influente. Verrebbe da chiedersi dove sia il padre di questo bambino. E poi, dobbiamo sempre ipotizzare che madre e figlio vivano isolati, soli, in un bunker? Nessun gruppo sociale ha altre influenze su questo bimbo? Non ha altri modelli?

Sempre in tema, non sono d’accordo nel puntare l’indice su una supposta responsabilità nello sviluppo del transessualismo. Ditemi voi chi può simpatizzare per la figura materna sopra descritta: prima vezzeggia la parte femminile del figlio, la sua sensibilità (e anche qua ci sarebbe da aprire una parentesi: ma la sensibilità è solo prerogativa femminile?) poi, nel momento in cui ha sviluppato ‘il mostro’ lo tradisce perché socialmente inaccettabile. Credo che questo tipo di spiegazioni sia non solo forzata quanto poco rispondente al vero. Se conoscessi questa madre al massimo potrei chiederle che senso può avere per lei vezzeggiare le parti femminili in un figlio maschio. Ampliare il discorso, non chiuderlo in soluzioni così standardizzate. Insomma, non credo che questo tipo di generalizzazione possa essere d’aiuto nella comprensione di una questione così delicata.

E ancora, perché si da ad intendere che l’unico sbocco del transessualismo sia la prostituzione? Suppongo sia uno degli inevitabili sbocchi di queste scelte ma perché farne l’unico? Abbiamo anche delle descrizioni che sono involontariamente comiche:il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Sicuro? Non comprendo in cosa il travestito possa essere sicuro. Anzi. Credo sia proprio l’ambiguità, i possibili passaggi a cavallo tra i due sessi, l’essere fisicamente un uomo che usa armi di seduzione femminile, possono giocare un ruolo importante per il loro ‘successo’. E non mi piace molto neanche la frase povero di strumenti alternativi come tutti i diversi. Cosa significa povero di strumenti alternativi? Alternativi a cosa? Al transessualismo? Quest’ottica si pone nei confronti del transessualismo come un’ottica per cui sia una scelta ingiusta, da correggere. Certo, sarebbe meglio se la persona avesse strumenti alternativi tra i quali scegliere. Forse sarebbe più libero. Ma perché costruire artificiosamente la categoria dei diversi poveri di strumenti? Quasi fosse una certezza.

Credo sia convincente, invece l’analisi dei possibili ‘punti di sbocco’: una scelta definitiva di cambio di sesso, una diversità meno esibita, possibili condotte di tipo deviante.

Forse vi starete chiedendo perché vi abbia segnalato questo articolo se non lo condividevo molto. Ho considerato potesse essere spunto di riflessione su un tema di cui non si parla molto, se non in relazione a scandali che possano coinvolgere persone famose. Chi si sentisse di dire qualcosa in proposito può, ovviamente, farlo anche privatamente alla mia email. Spero anzi che ci siano testimonianze che possano smentire l’equazione travestito=prostituzione. Sarebbe un bel passo avanti per smontare un cliché forse troppo ricorrente. 

 

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (1)

Travestiti che usciamo (1)Il post di oggi ha come tema il travestitismo, persone che indossano indumenti propri del sesso opposto. Il termine non è da confondere con transessualismo, termine che indica persone la cui identità psicologica non corrisponde all’identità fisica e che, per questo, si atteggiano, vestono, comportano sempre come persone del sesso opposto. Spesso, queste persone hanno come obiettivo il cambiamento chirurgico del sesso. Fatta questa piccola premessa, leggevo in un libro un passo riguardante i travestiti che vi riporto integralmente. Credo che nel brano il termine travestitismo sia usato con accezione più ampia rispetto a come l’ho esemplificata io, e coinvolga anche il transessualismo.

Il brano: un esempio recente e particolarmente drammatico di interazione fra fattori di ordine personale, familiare e sociale nello sviluppo sociopatico è quello proposto dalla vita e dalla storia dei travestiti che si prostituiscono sui marciapiedi delle grandi città dell’Occidente. Una ricostruzione attenta della loro vita familiare permette di collegare, in alcuni casi, le incertezze del loro orientamento sessuale alla valorizzazione delle loro tendenze femminili da parte, in particolare, della madre (che li vestiva da donna quando erano piccoli, che sottolineava la loro sensibilità, dolcezza, attitudine alle faccende di casa e che insisteva comunque sul significato affettivo per lei di questi comportamenti). “Traditi” dalla madre nel momento in cui la loro problematica e il loro comportamento diventano socialmente ed emotivamente insostenibile, molti di questi giovani affrontano situazioni conflittuali gravi all’interno di una famiglia che non accetta la loro diversità e si sentono costretti ad andarsene di casa. L’attrazione e il rifiuto che essi determinano negli uomini con l’ambiguità della loro presenza sessuale diventano a questo punto la loro forza e la loro debolezza, condizionando in modo spesso definitivo le loro scelte successive. Per strada, di sera, il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Di giorno, nei luoghi della vita comune, è un diverso di cui ci si vergogna. Povero di strumenti alternativi come tutti i diversi la cui crisi si esprime in fasi decisive per la formazione e per l’acquisizione degli strumenti  culturali necessari  al lavoro, egli si sente respinto irresistibilmente (come accade appunto nello ‘sviluppo’) verso la prostituzione: un comportamento riprovato (la polizia) e sollecitato (i clienti, fra cui bisogna valutare ovviamente, a volte anche i  poliziotti) da un sistema sociale che utilizza fino in fondo la loro diversità.

Interessante, anche nel caso dei travestiti, l’osservazione relativa al decorso naturale della loro condizione di sofferenza. In mancanza di casi documentati di “guarigioni” ottenute con interventi basati sul tentativo di farli desistere dal loro comportamento, quelle che è possibile documentare sono infatti:

  • evoluzioni integrative attraverso il cambiamento definitivo, anagrafico e anatomico, del sesso; 
  • evoluzioni positive verso l’accettazione di una diversità meno esibita e progressivamente più integrata nelle comunità omosessuali;
  • evoluzioni di tipo psicopatico con lo stabilizzarsi di una prostituzione sempre più esibita, aggressiva e conflittuale e con il sopravvenire di disturbi comportamentali di secondo livello (alcool e droga). [1]
– Continua –
 
[1] Cancrini, L., et al., Il transessualismo e il cambiamento di sesso, in Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pp. 227-228
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