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Lo Psicologo Virtuale

PORTALE DI PSICOLOGIA & PSICOTERAPIA – Dr. FABRIZIO BONINU – Psicologo & Psicoterapeuta –

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Tag: Psicologo

Pubblicato il 2 Aprile 20192 Giugno 2020

La banalità del male

arton14091-b7a64Questo post ha bisogno di una piccola/grande premessa che inizia dalla visione di un film:  Hannah Arendt (2012). Il film narra la vita di Hannah Arendt tra il 1960 e il 1964. In quel periodo la Arendt ha circa cinquant’anni, ed è un’intellettuale di origine tedesca, naturalizzata statunitense per sfuggire alle persecuzioni naziste nei confronti degli ebrei della seconda guerra mondiale. Nel 1961 la rivista The New Yorker la mandò a Gerusalemme come cronista di quello che si annunciava come uno dei processi del secolo: il caso di Adolf Eichmann, uno dei più grandi criminali nazisti, catturato in Argentina e processato da un tribunale ebraico (e, per la cronaca, condannato a morte nel 1962). Da intellettuale prestata alla ‘cronaca’, la Arendt approfittò del punto di vista privilegiato che aveva sulla vicenda per una profonda riflessione circa la mancanza di mostruosità nella persona di Eichmann, sulla sua presunta normalità, sulla impossibilità di pensare che quel piccolo ometto calvo e con gli occhiali potesse essere non un burocrate ma una delle personificazioni del male per come lo aveva conosciuto il mondo pochi anni addietro. La riflessione portò la Arendt a scrivere uno dei suoi libri più famosi, La banalità del male, libro nel quale affronta appunto la banalità del male che ci circonda, dovuto non a casi eccezionali o a predisposizioni particolarmente malvagie e sanguinarie delle singole persone, quanto dell’inconsapevolezza che le scelte, anche piccole di ognuno di noi, hanno nel costruire un risultato disastroso quanto quello che si era creato durante la seconda guerra mondiale. 

Lasciamo qua la Arendt (vi invito naturalmente a leggere il libro o a guardare il film se voleste saperne di più delle vicende narrate) e passiamo ad un’altra piccola/grande premessa, qualcosa di più vicino a noi. Tempo fa assisto al convegno di Massimiliano Frassi (se voleste saperne di più sul tema, vi rimando al post nel quale lo intervisto. Cliccate sul link PEDOFILIA: intervista a Massimiliano Frassi) all’Exmè di Cagliari, organizzato da Domus de Luna. Il tema del convegno è di quelli che fanno timore: la pedofilia. Uno degli aspetti sul quale Massimiliano non si stanca di insistere, è che dobbiamo fare più attenzione alle situazioni ‘normali’, quelle nelle quali abbassiamo la guardia, piuttosto che quelle apertamente equivoche nelle quali, invece, la nostra attenzione può essere più vigile. Il pedofilo non è il personaggio interpretato da Bela Lugosi, non è il mostro delle fiabe, brutto, sporco e cattivo; è più probabile si celi dietro il gentile e premuroso sconosciuto che avvicina il bambino e che non desta nessuna apparente preoccupazione.

Nazismo e pedofilia: suppongo che, a questo punto, vi starete chiedendo: qual è il punto? Dove vuole arrivare questo post? Qual è il filo rosso che congiunge due premesse apparentemente così tanto distanti?

Il filo rosso è una mia personale riflessione sulla banalità del male, sulla necessità di abbandonare l’idea che il male sia una realtà sovrumana che non ci appartiene ma che rientri nella quotidianità di ciascuno di noi. È molto liberatorio e gratificante pensare che il male, le persone veramente cattive, quelle che sono nei libri di storia alla voce ‘i peggiori di sempre’, siano altra cosa da noi, siano casi eccezionali nella storia dell’umanità, siano lontani anni luce dalle nostre piccole cattiverie quotidiane, siano completamente separati dalla nostra vita. Credo che dovremmo riconsiderare questa separazione. Questo distacco risulta del tutto arbitrario perché qualsiasi atto, per quanto abietto lo si possa considerare e per quanto immense siano state le sue conseguenze, è partito da piccole cose, da piccoli aspetti sottovalutati, da piccole disattenzioni, da piccole mancanze di rispetto nel quotidiano e che hanno, giorno dopo giorno, costruito una realtà ben più grande.

Ed è a questo livello che dobbiamo intervenire per riconoscere la nostra banalità del male: dobbiamo allenarci a riconoscere i segnali, le disattenzioni, il menefreghismo, la sopraffazione che quotidianamente si affacciano nella nostra vita. E siamo sempre noi il punto di osservazione migliore dal quale partire: siamo noi che dobbiamo stare attenti alle nostre intolleranze, alle nostre invidie, alla nostra noncuranza per il prossimo, alle nostre piccole e continue cattiverie. Perché solo conoscendo queste parti di noi è possibile integrarle con le parti più accoglienti, tolleranti, comprensive e generose. Ed è grazie a questa integrazione che può esserci un equilibrio tra le nostre varie parti.

È questo, secondo me, un grande passo verso la consapevolezza di se stessi, consapevolezza il cui fine ultimo è l’accettazione di ogni parte di noi, anche quelle che non ci piacciono, parti di noi che, se non comprese e assimilate, costituiscono l’humus ideale per fatti di portata e rilevanza storica ben più ampia.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Pubblicato il 10 Ottobre 20182 Giugno 2020

Cosa NON fare con l’ansia (2)

Continuiamo la nostra riflessione su cosa non sia funzionale fare quando una persona soffre di ansia. Abbiamo visto, nel post precedente, come il primo aspetto individuato sia minimizzare quello che succede. Vediamone altri:

Non incitare/spronare: Altra strategia che potrebbe essere poco utile , è quella di incitare o spronare la persona ad una reazione che la porti a opporsi all’insorgenza dell’ansia.

Frasi come: ‘reagisci, sennò è peggio’ hanno come unico risultato quello di esacerbare il senso di impotenza e inadeguatezza della persona che con l’ansia ha a che fare. Due infatti sono gli esiti possibili: se la persona fosse in grado di reagire, l’avrebbe già fatto e non sarebbe preda di questa sensazione; se, come più spesso accade, è palese che non riesca ad opporsi all’ansia, ricordarglielo potrebbe avere un effetto ancora più demoralizzante perché, oltre all’ansia, la persona avrebbe anche un senso di manchevolezza per non riuscire a fronteggiare questa sensazione sgradevole. 

Sentirsi incitati o spronati e produce spesso esiti ancora più disastrosi, perché va ad agire sul senso di impotenza e di inadeguatezza che è lo stesso cuore pulsante dell’ansia in adolescenza, non facendo altro che confermare il motivo per cui ci si è ammalati: che si potrebbe, ma non ci si riesce.[1] Anche in questo caso sarebbe più funzionale, anche se decisamente più complesso da portare avanti, cercare di focalizzarsi su quello che sta succedendo, comprendendone il significato. Incentrare la risposta sulla reazione che si dovrebbe tenere, spostando l’attenzione da quello che si prova ad una ipotetica reazione, ha a che fare con il passaggio di cui abbiamo parlato prima di passare dal sentire all’agire, non permettendo di concentrarsi sul sentire, sullo ‘stare’ nell’emozione.

Appoggiare questa concentrazione sull’emozione, anziché cercare di deviare il focus dell’attenzione, è una parte fondamentale del processo di accoglienza emotivo: Se è ormai chiaro che l’ansia non è un problema bensì solo la sua espressione, sentirsi legittimati a stare come si sta è di per sé una parte della cura.[1]

Non pensare che passi da sola: altra ‘tecnica’ i cui risultati andrebbero vagliati con più attenzione, è quella di pensare che sia una cosa ‘passeggera’ e che passi da sola, così come spesso sembra essere arrivata. Frasi come ‘non pensarci, adesso passa’ o ‘non concentrarti su questa cosa, pensa ad altro’, non riescono spesso a raggiungere nessun intento. Le spiegazioni possono essere molteplici: in parte dipende da quello che abbiamo già visto nei punti precedenti: cercare di distrarsi da quello che si sta provando non ha mai un grande funzione, dal momento che impedisce di capire cosa quell’emozione stia comunicando su di noi. 

Altro aspetto da tenere in considerazione credo sia il sottotesto di un atteggiamento di questo tipo che è quello di porre l’accento sulla sciocchezza del sintomo stesso, sottolineandone l’irrilevanza, quasi che fosse una cosa di poco conto. Piuttosto che cercare di capirne il senso si pensa che non dandogli troppo peso tenderà a regredire e/o scomparire da sola: questo tipo di convinzione (…) racchiude tutti gli stereotipi sull’ansia di solito sostenuti da coloro che fanno di tutto per non averci a che fare, ovvero: non si tratta di nulla di serio che meriti una cura (…), bensì è poco più di un brutto fastidio con cui non si sa bene cosa fare ma che in fondo hanno più o meno tutti. Non pensarci, passerà![1]

Queste risposte elicitano nell’individuo che non riesce a fronteggiare la sua ansia, ancora più frustrazione dal momento che:

A) per chi la vive non è per niente una cosa di poco conto;

B) non sente accolte né le sue emozioni né il suo malessere;

C) sente di non essere capito da chi gli sta intorno;

D) potrebbe tendere a non comunicare più i suoi stati d’animo con le persone che lo circondano. 

Insomma, pur comprendendo l’intenzione con la quale spesso queste frasi sono pronunciate, sarebbe necessario prestare molta più attenzione a come si interviene in casi del genere. Cercare di liquidare velocemente certi stati d’animo può, a prima vista, sembrare una buona e rapida soluzione, ma spesso, anziché d’aiuto, sono strategie di corto respiro che risultano d’ostacolo per la comprensione e il superamento del malessere manifestato. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Andreoli, S. (2016), Mamma, ho l’ansia, Bur, Milano, pp. 238-243

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Pubblicato il 3 Agosto 201817 Maggio 2020

Cosa NON fare con l’ansia (1)

Una delle richieste che spesso portano i pazienti in studio, riguarda quella che è considerata come uno dei più grandi nemici dell’uomo: l’ansia. L’ansia è descritta come elemento particolarmente sgradevole della vita delle persone ed è sicuramente vero che, a livelli alti, può rendere problematica la quotidianità. L’ansia è subdola perché si manifesta in forme e tratti diversi: per alcune persone può, per esempio, dare luogo ad una difficoltà nelle interazioni sociali, per altre può avere conseguenze nella vita lavorativa; in alcuni si manifesta con sintomi fisici (tremore, rossore,…) altri possono non manifestare nessun tipo di sintomo dal punto di vista fisico. Data la poliedricità con la quale si manifesta, è spesso difficile capire cosa la singola persona intenda usando il termine ‘ansia’. Il primo passo che compio insieme al paziente che porta questa richiesta, è quello di cercare di vagliare e comprendere cosa intenda utilizzando il termine ansia e come, per lei, si manifesti.

Generalmente, con questo termine si descrive uno stato di forte preoccupazione, che può essere dovuta o a stimoli specifici oppure a cause non individuabili con precisione. Nel primo caso l’ansia è più ‘controllabile’, dato che il soggetto potrà eventualmente evitare contatti od esposizione alla singola causa; nel secondo caso il discorso diventa decisamente più complesso, dal momento che il soggetto non si sente tranquillo in molte occasioni o con diversi stimoli. In questo secondo caso, l’ansia potrebbe interferire con la vita quotidiana, rendendola di fatto più complessa. Ovviamente, se accettiamo la premessa di cui abbiamo parlato prima e cioè che l’ansia possa manifestarsi in singoli modi nei diversi individui, non si può certo standardizzare un approccio, un trattamento generico. La richiesta andrebbe attentamente valutata e altrettanta attenzione sarebbe necessario riservare, a mio avviso, al significato che l’ansia ricopre all’interno della vita dell’individuo.

Come tutte le problematiche che una persona presenta, anche l’ansia non è una tematica che riguarda solo il singolo; assume invece rilevanza relazionale dal momento che la persona con quel disagio manifesterà la propria difficoltà all’interno di un contesto di relazione: potrà, per esempio, richiedere l’appoggio delle persone più care per fronteggiare la situazione. Da personale, la prospettiva si sposta sul piano relazionale. Le persone che circondano il nostro soggetto in questione, con le loro reazioni o le loro risposte, possono elicitare una serie di comportamenti che hanno la possibilità di aiutarlo o metterlo in difficoltà. La riflessione riguarda proprio questi comportamenti: quali sono quelli che possono aiutare e quali quelli che invece sono di ben poco aiuto in un caso di ansia (ma, secondo me, utili in generale)? L’attenzione andrà su alcuni aspetti che, pur comprendendone le motivazioni, sono secondo me poco utili e funzionali.

Minimizzare: sicuramente una delle prime cose che sarebbe meglio non fare con una persona che ha provato ansia, sarebbe quella di minimizzare quello che la persona sta provando. Frasi come ‘non è nulla’, ‘vedrai che passa’, ‘non ti può preoccupare questa cosa, non è grave…’ sono frasi che non aiutano molto la persona. Possiamo presupporre che, di contro, aiutino la persona che li pronuncia, dato che consente di non confrontarsi con la frustrazione di non poter essere utile, ma questo sarebbe decisamente un altro discorso. Infatti sentir minimizzare la propria sofferenza è sempre molto doloroso, e assolutamente non rassicurante, tanto più che l’ansia e il panico danno un forte senso di perdita di controllo e vengono sempre vissuti come gravi e spaventosi da parte li chi di prova. (…) [1]

La minimizzazione di un’emozione o di una condizione psicologica non gioca mai molto d’aiuto. La persona che sta provando ansia sentirà che quello che sta provando non è compreso, accettato dall’altro il cui unico sforzo sembrerà quello di attutire l’emozione. 

Intanto perché chi ci prova, a non pensarci, due volte su tre non ci riesce. Quella volta che ce la si fa, poi, si pagherà con gli interessi alla prima occasione: (…) l’ansia è esattamente l’espressione di pensieri non pensati ed emozioni non provate, che in quanto disturbanti sono state chiuse ermeticamente da qualche parte.

Se accettiamo la premessa che l’ansia sia la manifestazione di pensieri non pensati, pensieri cioè del quale lo stesso soggetto è all’oscuro, minimizzare diventerebbe parte dello stesso processo, ovvero la restituzione del mondo esterno che si comporterebbe nello stesso modo: non riconoscendo l’importanza di quello che sta avvenendo. Cosa sarebbe necessario fare allora? Se si volesse fare qualcosa di buono per qualcuno che si trova nel pieno di un attacco di ansia, lo si dovrebbe al contrario invitare a pensare, a stare dentro, a trovare le parole: quanto più si potrà parlare con il vocabolario, – a fatica, arrendendosi ai ‘non lo so’, odiando l’idea di doverlo fare – tanto che ci sarà bisogno di farlo attraverso l’ansia, lasciando parlare il corpo. La cosa migliore da fare, anziché spostare l’attenzione da quello che sta succedendo, sarebbe esattamente il contrario: portare l’attenzione su quello che il nostro corpo, tramite l’ansia, ci sta dicendo. Se prestassimo maggiore attenzione, anziché pensare a quanto poco importante sia quello che sta succedendo, ne potremmo trarre indubbio vantaggio. È un processo difficoltoso, dal momento che, in automatico, siamo portati a fare il contrario, siamo portati a cercare di allontanarci da quello che ci fa star male, ad eluderlo ed evitarlo. Se è un processo comprensibile, non è, però, funzionale, dato che sposta il focus dell’attenzione su un altro piano: da ‘cosa sento’ a ‘cosa faccio’, dal sentire all’agire. Questo passaggio non permette di comprendere cosa l’ansia significhi né cosa ci stia dicendo su noi stessi;

– CONTINUA IN UN PROSSIMO ARTICOLO –

 [1] Andreoli, S. (2016), Mamma, ho l’ansia, Bur, Milano, pp. 238-243

Che ne pensate?

P.s.: Alessandro, questo post è dedicato a te! Non potrai più chiedermi quando pubblico qualcosa di nuovo:)

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Pubblicato il 5 Marzo 20182 Giugno 2020

Cosa resta di Freud?

87Avete mai sentito parlare (o letto) di ‘Psicopatologia della vita quotidiana‘? È un testo scritto da Sigmund Freud e pubblicato nel 1901. Il libro è particolarmente leggibile, pur affrontando un tema complesso, ed è fondamentalmente una serie di esempi tratti dalla vita quotidiana che Freud cerca di significare alla luce della sua (all’epoca) nuovissima teoria sul comportamento umano. Credo sia uno dei testi più ‘godibili’ di Freud, ma mi rendo conto che pochissimi l’hanno letto, anche tra colleghi, e che molti non l’hanno mai sentito nominare. E mi chiedo allora cosa rimanga dell’impianto freudiano, cosa rimanga della teorizzazione del capostipite di tutti noi, padre fondatore della nostra disciplina.
Insomma, cosa rappresenta Freud per uno psicologo ‘moderno’, uno psicologo 2.0, uno psicologo che ha a che fare con strumenti e realtà (privacy, post, blog…) che il padre della nostra disciplina non avrebbe neanche mai potuto immaginare? Come reagirebbe se leggesse quello che più di un secolo dopo scrivono i suoi figli professionali? Iniziando da me, posso dire che ho con Freud un rapporto ambivalente, di amore e odio. Amore perché, come per ogni padre, è a lui che dobbiamo la nostra stessa esistenza, ma sopratutto è a lui che dobbiamo il rivolgimento dell’attenzione dell’uomo verso se stesso, la riflessione che iniziò sul più grande mistero della natura: noi stessi.

Fu lui che portò un capovolgimento di prospettiva immenso nei confronti dell’uomo, introducendo in ognuno di noi una parte insondabile, l’inconscio, a noi stessi ignoto e per noi stessi fuori portata. E fu lui che ipotizzò questa ‘lotta’ tra diverse istanze, presenti contemporaneamente in ognuno di noi. La guerra, da esterna, fu interiorizzata in noi. È stata una rivoluzione copernicana nel modo di intendere la persona, il singolo, ognuno di noi, portatore non consapevole di istanze a lui stesso sconosciute. Questa teorizzazione si è riverberata in tutta la cultura occidentale, modificandone la visione. Al di là delle singole teorizzazioni, comunque rivoluzionarie all’epoca, è questo l’elemento a mio avviso più dirompente dell’impianto freudiano.

D’altro canto, come tutti i padri putativi e figurati, è stata anche una figura ingombrante, un punto di riferimento che, con le sue teorie, ha profondamente condizionato il dibattito per decenni, teorie spesso caratterizzate da una vena che oggi diremmo sessista, con le sue celeberrime teorizzazioni sull’invidia del pene per esempio, che non ho mai capito perché non ci fosse un complesso di invidia dell’utero, giusto per bilanciare le invidie, dando per scontato che solo una donna potesse invidiare un uomo e non il suo contrario risentendo, in questo, nell’accettazione di uno degli stereotipi più duri a morire anche oggi. Questa parzialità si ridimensiona considerando i tempi nei quali queste teorie nacquero, e non si può chiedere certo un salto di paradigma così marcato ad una sola persona; per capire la rivoluzionarietà delle sue idee basti pensare come, nel 2018, sia ancora insito in molti l’idea della superiorità maschile rispetto a quella femminile.

Detto questo, credo che il pregio maggiore di Freud possa essere riassunto nella sua capacità di relativizzare il male assoluto e parcellizzarlo in ognuno di noi. In altri termini, Freud fu rivoluzionario nella capacità che ebbe di portare il male (termine da intendere nella sua accezione più ampia: problemi, malattie, difficoltà) da categorie assolute e lontane verso ognuno di noi. Non esisteva il ‘malato mentale’ dell’iconografia classica, matto, legato, completamente avulso dall’ordinarietà delle persone normali e sane. Viceversa instillava il dubbio che un piccolo ‘matto’ abitasse ognuno di noi, relativizzava le differenze, apriva la porta su una serie di domande ancora molto scomode rispetto alle differenze tra ognuno di noi. Ancora distrusse, credo definitivamente, l’iconografia sopravvissuta fino all’inizio del Novecento della figura del bambino-angelo, il bambino asessuato e angelico che nelle società occidentali si continuava a proporre, contrapponendovi la visione secondo la quale i bambini potevano essere egocentrici, egoistici, coi loro desideri, un loro istinto di piacere e finanche una loro acerba sessualità.

Potremmo discutere all’infinito su come anche questa visione del bambino potesse risentire della considerazione piuttosto bassa che all’epoca si aveva dell’infanzia, categoria che acquistò un suo rilievo e una sua dignità nel secondo dopoguerra (e solo nei paesi occidentali). Ma se lo facessimo, ripeteremmo l’errore di guardare con occhi odierni quello che all’epoca era semplicemente rivoluzionario. È indubbio che il nuovo ritratto che ne fece Freud modificò in maniera permanente l’idea che dell’infanzia avevano gli adulti, anche in questo introducendo un elemento di rottura, un ‘male relativo’ in ogni bambino. Gli sviluppi di una teorizazione così ampia, ovviamente, non potevano che attecchire col tempo e ci sono voluti decenni di reinterpretazioni, di dibattito, di scontri e di nuove riletture per arrivare alla consapevolezza che abbiamo adesso su noi stessi, consapevolezza che neanche adesso può considerarsi arrivata, ma ancora del tutto in costruzione.

Cosa dobbiamo allora al nostro padre professionale? Credo che una riflessione sul ruolo che ricopre sia sempre doverosa, alla luce della rivoluzione che compì più di un secolo fa. E credo che sia solo conoscendo le proprie radici, in questo caso professionali, che si possa riuscire a guardare meglio al futuro. Per questo invito chiunque a leggere le sue opere e a cercare di informarsi sulla sua teorizzazione. Sopratutto miei colleghi che bollano troppo frettolosamente come sorpassate le sue costruzioni. Conoscendole, infatti, è possibile farsi un’idea di dove la riflessione psicologica abbia assunto i connotati di un sapere a sé stante e credo possa risultare più chiara la direzione nella quale si vuole (professionalmente) tendere.

Ora, naturalmente non so come avrebbe reagito Freud al contesto nel quale un suo collega si muove oggi con mail, messaggi, Facebook, blog, ma credo che, da bravo precursore dei tempi quale è stato, si sarebbe avventurato nel mondo del digitale. Nonostante il tempo intercorso tra la nascita del suo modello e oggi, credo sia doveroso tributargli il riconoscimento dell’importanza che il suo apporto ha consentito di dare alla nascita della psicologia così come la conosciamo oggi. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Pubblicato il 8 Gennaio 20182 Giugno 2020

Un caso clinico: la storia di Lucio

nathanQualche mese fa, mi contatta un ragazzo che vuole prendere un appuntamento. Mi dice che ha trovato il mio nome su internet, leggendo di psicologia, e che gli piace il modo in cui parlo delle cose e ne scrivo. Fissiamo un appuntamento. A prima vista, non sembra abbia particolari difficoltà a condurre la sua vita. È laureato da diverso tempo, ha fatto un’esperienza di qualche anno fuori casa, è fidanzato con una ragazza. Insomma, appare come un ragazzo come tanti. Come tanti altri suoi coetanei (Lucio ha 25 anni), si ritrova in difficoltà a capire quello che vorrebbe fare nella vita. Come tanti si ritrova, dopo diversi anni nei quali tutto sembrava pre-impostato ed ordinato ed una strada era in qualche modo tracciata, in difficoltà su quello che vorrebbe costruire e sui progetti che vorrebbe portare avanti.

Il dilemma non riguarda solo cosa ma anche il dove: pensano e riflettono sulla scelta di rimanere in Italia, e se Italia deve essere, specificamente dove, oppure se andare all’estero e tentare, come molti altri prima di loro, di costruirsi una vita più lontano. Inizialmente questo è il punto qualificante della richiesta di terapia: cercare un aiuto nel capire cosa fare della propria vita. Col tempo della terapia, emergono le peculiarità, le specificità della storia di questo ragazzo-come-tanti: il ragazzo-come-tanti in questione, per esempio, ha un’ottima fantasia, scrive e inventa diversi racconti. Il ragazzo-come-tanti  è molto sensibile, ha una capacità di immedesimazione negli altri particolarmente spiccata. Il ragazzo-come-tanti è un ragazzo che ha subito, fin dalle scuole elementari e per la durata intera delle scuole medie, diversi episodi di bullismo, ad opera dei suoi coetanei, perché era ‘diverso’, non si adeguava a quelli che erano gli standard dei coetanei dell’epoca, non si vestiva come loro, non si interessava alle cose che interessavano loro, non si omologava. E quando, odiando la sua differenza, ha provato ad omologarsi a quello che gli altri si aspettavano da lui, è stato ancora più deriso, schernito perché visibilmente fuori norma per i canoni imperanti. E si è odiato anche lui, per essersi imposto un modo che non era suo. Lo stesso ragazzo-come-tanti non è riuscito a trovare, nel frattempo, figure adulte che comprendessero la gravità di quello che succedeva, adulti competenti che riuscissero a supportare il suo percorso ed affiancarlo nella sua crescita, e che non fossero mossi semplicemente dalla volontà di sdrammatizzare quello che Lucio raccontava ogni giorno di più nella sua vita

Il ragazzo-come-tanti in questione ha allora imparato una lezione abbastanza fastidiosa: per andare d’accordo con gli altri, ed essere accettati, talvolta non è sufficiente adeguarsi. Lui, però, è riuscito a ritornare sui suoi passi, convinto che, se neanche la finzione di essere quello che non era funzionava per essere accettato dai coetanei, tanto valeva ritornare a vestire i propri panni, cercando di difendere la sua originalità, cercando di rimarcare le sue peculiarità, cercando di evidenziare le sue differenze. Tutto questo però ha avuto un costo, dal momento che distinguersi dagli altri e difendere la propria originalità, ha un prezzo in termini di sofferenza psicologica. Questo è ancora più vero durante l’adolescenza, perché rimarcare la propria autonomia, soprattutto in una fase di passaggio come l’adolescenza, può farci sentire  la difficoltà di gestire la differenza con gli altri. Questo costo può presentare il suo conto nel momento in cui ci rende particolarmente vulnerabili e indecisi riguardo alle nostre scelte, al percorso di vita che vogliamo intraprendere. Se per tutta la vita ci hanno fatto credere (e noi abbiamo creduto, naturalmente) che le nostre scelte fossero ‘strane’, non fossero quelle di tutti gli altri, non fossero quelle giuste, giunti all’età adulta come faremo a rovesciare questa equazione e a non dubitare delle nostre possibilità? Il dubbio che quello che facciamo sia giusto è fortemente instillato dentro di noi. Nella sua vita Lucio non ha trovato persone che riuscissero ad aiutarlo a capovolgere questa prospettiva. Gli adulti intorno a lui erano preoccupati a minimizzare quello che succedeva, a non rendersene conto oppure a cercare di distrarlo (‘lasciali perdere e pensa ad altro’ è un grande classico della (non) pedagogia).

E arriviamo a Lucio oggi, la fase di vita nella quale l’ex-ragazzo-come-tanti, nel frattempo diventato uomo, si trova a vivere, una fase nella quale molte delle cose che gli vengono in mente o molte delle cose che possa pensare di costruire, non sembrano essere la cosa giusta, non sembrano quelle adatte. Come aiutarlo a ricostruire la fiducia in sè stesso? Come dimenticare tutte le volte nelle quali ha dubitato di quello che sentiva/provava perché il mondo circostante ne rimarcava la diversità? La ricostruzione della propria autostima non può che partire, a mio parere, dall’idea che non possa né debba esserci dimenticanza. Il punto non è dimenticare quello che è stato, ma comprenderlo e integrarlo in quello che siamo diventati. Lucio non dovrebbe dimenticare il dolore per la non accettazione, la difficoltà di sentirsi bene con gli altri (e con sé stesso), non dovrebbe dimenticare la paura che ogni cosa che facesse provocasse il biasimo di coloro che aveva intorno. Lucio dovrebbe ripartire da li, dando voce al dolore provato, ammettendo quanto sia stato difficile avere a che fare con tutto questo e quanto fosse frustrante non trovare nessuno che comprendesse quello che stava avvenendo.

Solo arrivando all’integrazione del passato nel presente, possiamo provare ad arricchire quel capitolo che, in caso contrario, rischia di rimanere aperto in un doloroso presente nel quale tutto quello che facciamo può essere messo in discussione e considerato come inutile o vano. Fare pace con il proprio passato non significa semplicemente rivangarlo in eterno. Significa comprendere il valore che anche esperienze dolorose hanno avuto sulla nostra vita. Significa afferrare il perché di quello che è successo, le cause di quel dolore e non far finta che non esistano, non cercare di archiviarle ma, appunto, accoglierle e ricomprenderle in quello che siamo diventati. Solo da questa comprensione può partire la capacità di fronteggiare il mondo attuale.

Non è facile, ne sono consapevole. È la strada più impervia nella comprensione di sé stessi. Ma è anche uno dei pochi modi per non perpetuare, nei confronti di noi stessi, la stessa mancanza di ascolto che abbiamo subito in altre età della nostra vita. Non lasciando agli altri il complesso compito di fare questo al posto nostro.

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Pubblicato il 13 Novembre 20172 Giugno 2020

La psicologia al tempo dei social network

dipendenza-da-social-netw-590x442Viviamo in un mondo decisamente interconnesso, un mondo nel quale molti dei rapporti e delle relazioni sociali finiscono per passare tramite mediatori quali messaggi o social network. È difficile negare il peso che la mediazione di questi mezzi di comunicazione sta oramai avendo sulle nostre vite quotidiane: rapporti che prima avvenivano solamente faccia a faccia, ora avvengono quasi esclusivamente filtrati da specifiche connessioni: e-mail, messaggi, Whatsapp, social network, eccetera. Questo tipo di comunicazione, spesso definita comunicazione 2.0, ha enormi ripercussioni all’interno della nostra società, sia perché ha modificato e ampliato le possibilità di interazione tra le persone, mediandole appunto, sia perché ha provocato, nella ricchissima messe di possibilità di contatto, una dispersione sulle possibilità di contatto tra le persone.

Queste nuove modalità comunicative non potevano non coinvolgere il mondo della psicologia. Lo psicologo, persona inserita all’interno del contesto sociale nel quale vive (o perlomeno così lo si immagina!), può ricevere diverse possibilità di contatto sotto forme e con modi completamente diversi. Vi posso parlare della mia esperienza personale: durante la settimana ricevo mail, messaggi su Facebook, tantissimi messaggi su Whatspp  (questi ultimi sostanzialmente dai miei pazienti). Aggiungete a tutto questo l’opzione di richiedere un percorso di consulenza psicologica online e vi renderete facilmente conto di quante possibilità di contatto esistano.

Questa frammentazione può creare difficoltà o perplessità, e molti colleghi tendono ad ostacolare e scoraggiare modalità di contatto che non siano la semplice interazione telefonica diretta, rifiutando il contatto tramite messaggi, tramite social network o Whatsapp da parte dell’utenza.

Mi sono trovato perciò a riflettere circa l’opportunità di accogliere o meno questo tipo di interazione e la riflessione ha avuto un esito opposto. La premessa che mi si è chiarita, e che ho sempre considerato prioritaria, è che il compito principale dello psicologo debba essere quello di cercare di capire e accogliere le richieste da parte dell’utenza. Nell’infinito novero di possibilità che le persone possono utilizzare in questo momento, esiste anche la possibilità che mi contattino tramite diversi e ‘non tradizionali’ (ma quotidiani) canali di comunicazione. E di questo non posso non tenere conto.

Sono consapevole del fatto che un contatto di questo tipo, mediato e meno diretto di una telefonata, possa essere considerato ‘deficitario’. Ma, in accordo con il primo principio della comunicazione postulato da Paul Watzlawick, la possibilità, cioè, che non si possa non comunicare, è anche dalla scelta del primo contatto che si possono avere informazioni preziose sulle dinamiche relazionali che quella persona privilegia rispetto ad altre che tende magari a non utilizzare. Se una persona preferisce contattarmi la prima volta in maniera scritta, credo stia trasmettendo  informazioni circa la preferenza ad avere una modalità più distante, mediata, piuttosto che un contatto diretto. La consapevolezza di queste informazioni possono giocare un ruolo molto importante all’interno della terapia stessa, marcando un contesto relazionale che dall’essere distante può essere ricalibrato in prossimo, utilizzando questi aspetti per costruire riflessioni che portino la persona ad interrogarsi sul significato che la distanza relazionale gioca nella sua vita.

Per questo motivo sento di avere difficoltà nell’osteggiare la modalità di approccio che i pazienti scelgono di avere con me. Se è vero che questa frammentazione di comunicazione può essere difficoltosa per il professionista, che si trova a dover gestire una molteplicità di possibili interazioni comunicative, è altrettanto vero che questo costituisce comunque un ponte comunicativo tra lo psicologo e l’altro ed è un ponte comunicativo particolarmente importante all’interno delle relazioni sociali della nostra società.

La capacità evolutiva e di cambiamento dovrebbero essere connaturate alla nostra professione. Non so cosa Freud direbbe di messaggi su Whatsapp, né di status di Facebook. Non so neppure come potrebbe reagire di fronte a questo commistione all’interno del setting terapeutico. Non lo so e non credo sia importante. Il mondo (fisico, tecnologico, sociale e relazionale) è profondamente cambiato dal tempo nel quale il geniale capostipite di tutti noi costruì la sua rivoluzionaria ipotesi circa il funzionamento dell’animo umano. Immagino che, così come lui  fu rivoluzionario a suo tempo, costruendo e costituendo un punto di cesura enorme tra un prima e un dopo, allo stesso modo dovremmo essere rivoluzionari noi, non attenendoci a schemi costruiti per un mondo oramai profondamente modificato e facendo nostri gli strumenti che questa società inizia a farci avere a disposizione.

Starà, ovviamente, alla capacità del singolo professionista, affiancato da una rigorosa etica che lo aiuti ad evitare abusi ed eccessi, far sì che restino mezzi nelle sue mani evitando che, di contro, lo trasformino in un semplice mezzo nelle loro.  

Che ne pensate?

A presto,

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Pubblicato il 24 Agosto 20172 Giugno 2020

La responsabilità

responsabilitàMi sono reso conto che spesso, nei miei post ma anche quando lavoro, parlo di responsabilità, di prendersi la responsabilità, di avere la responsabilità di guidare le proprie scelte, le proprie decisioni, la propria vita. Le parole, e anche questo è un mio leitmotiv abbastanza ricorrente, hanno un peso e costituiscono l’impalcatura attraverso la quale costruiamo e creiamo la realtà all’interno della quale ci muoviamo. Per questo mi è sembrata doverosa una riflessione sul termine stesso: responsabilità. Cosa vuol dire essere responsabili? In che modo ci si può prendere la responsabilità? Come per tutte le cose, credo sia meglio partire dall’inizio, dal significato del termine. Secondo la definizione dell’enciclopedia Treccani, la parola responsabilità deriva dal latino responsum «risposta» e sarebbe la capacità di rispondere dei propri comportamenti, rendendone ragione e accettandone le conseguenze. Cercando la stessa parola su Google, abbiamo questa definizione: ‘congruenza con un impegno assunto o con un comportamento, in quanto importa e sottintende l’accettazione di ogni conseguenza, specie dal punto di vista della sanzione morale e giuridica: assumersi, addossarsi, prendersi la responsabilità di un’azione; una grande, una grave responsabilità; mi assumo per intero la responsabilità; non voglio alcuna responsabilità’.

Queste prime definizioni riescono a darci un’idea generale di cosa sia, nel senso comune, la responsabilità e il significato è contenuto nell’etimologia stessa della parola. Responsabilità è parola formata da altre due parole: responso (risposta appunto in latino) e abilità. La responsabilità sarebbe dunque l’abilità di dare risposta, la capacità di rimandare il perché della propria azione, l’idea di riuscire a rispondere delle conseguenze dei propri atti. Ecco un primo punto: rimandare a chi? A chi si deve rispondere delle proprie azioni? Generalmente ci si immagina che il primo al quale si debba rendere questa risposta sia l’altro ed è per l’altro che ci si prende la responsabilità di quello che si è fatto, sia che la cosa fatta abbia valenza positiva sia che la cosa fatta abbia valenza negativa. Se, giocando a pallone, rompessi il vetro di una finestra, il pensiero immediato sarebbe prendermi (o non prendermi, naturalmente!) la responsabilità rispetto agli altri di quello che ho fatto. Se fossi ancora a scuola e prendessi un bel voto, il primo pensiero, probabilmente, sarebbe di immaginare cosa penseranno gli altri quando sapranno che ho preso un voto così bello. La responsabilità sembra acquistare senso compiuto quando la si relaziona agli altri quando, cioè, si pensa alle conseguenze di quell’azione e alla capacità di rispondere di quell’azione in relazione al vissuto degli altri.

Questo, però, è solo un primo passo nella riflessione. Se è vero che nell’accezione immediata il riferimento è agli altri, all’esterno, si può, nello stesso tempo, parlare di responsabilità nei confronti di sé stessi? Si può essere responsabili nei confronti di quello che è la propria storia, la personale esperienza e il proprio vissuto? La risposta dovrebbe essere si, ma non sempre è quello che viene in mente quando si tratta questo tema, dal momento che la responsabilità la si immagina, come abbiamo appena detto, in relazione agli altri.

Credo sia necessario rivalutare la dimensione personale della responsabilità e iniziare a pensarla non più come solo in relazione all’altro, ma prendendo come punto di partenza sé stessi. La responsabilità di sé è la capacita di rispondere in primo luogo a noi stessi, l’abilità di capire il perché di quel comportamento, di quell’azione a partire, ripeto, da noi stessi. E in qualche modo di non pensare che l’unica responsabilità sia da riferire al mondo esterno. Questo processo non è automatico, anzi: non siamo abituati a pensare di dover chiarire innanzitutto a noi stessi il perché di quello che facciamo, sentire di avere l’abilità di risposta in primo luogo a noi, convinti, come siamo, che gli unici verso i quali siamo responsabili siano gli altri. Solo recuperando questa dimensione saremo veramente più responsabili. Anche con gli altri. Perché considerare questa prospettiva non vuol dire negare l’altra, anzi. Essere responsabili in primis per sé stessi non vuol dire non esserlo rispetto agli altri. Le due dimensione non sono contrapposte ma profondamente integrabili. Nel momento in cui io sono responsabile di quello che faccio (o penso o credo, ecc), non posso necessariamente che esserlo anche per l’altro perché conscio che quello che ho fatto rappresenta me stesso. Se parto da me, cercando di assumermi la responsabilità di capire cosa mi rappresenti di quello che faccio, avrò la possibilità di essere altrettanto responsabile anche nei confronti dell’altro. Se invece penso alla mia responsabilità partendo da quello che credo si aspetti l’altro, potrei anche portare avanti delle azioni (o delle idee o delle convinzioni) che non so quanto mi rappresentino, correndo il rischio di essere solo apparentemente responsabile di quello che sto portando avanti.

Questa presa di responsabilità nei confronti prima di sé stessi che dell’esterno è particolarmente importante perché segna un ideale passaggio dall’attribuire il perché di quello che facciamo dall’esterno all’interno di noi. Come detto, se pongo il focus della responsabilità all’esterno, allora crederò di dover essere responsabile per quello che gli altri si aspettano da me; ma potrei non essere del tutto in sintonia con quello che in realtà penso. Se pongo il focus all’interno di me stesso, non potrò non essere responsabile di quello che porto avanti.

Come detto fin qua sembra un discorso tutto sommato semplice. Ma esistono situazioni nelle quali la responsabilità del singolo e quella collettiva non sono facilmente districabili. Un esempio che possa fare intuire la complessità di quello su cui stiamo ragionando potrebbe essere questo: immaginiamo un soldato tedesco in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Quel soldato è responsabile di quello che avviene intorno a lui? Se poniamo il focus al suo esterno possiamo dire che c’è una guerra in corso, o che lui non prende le decisioni ma esegue soltanto gli ordini, che la situazione generale è ben più complessa e così via. Se poniamo il focus della responsabilità al suo interno, non possiamo dire nulla di tutto questo, perché quel soldato è nelle condizioni di comprendere quello che sta succedendo attorno a lui. È responsabile? Naturalmente so che è un quesito estremamente complesso, ma il modo in cui immaginate di rispondere lascia intravedere come vi poniate rispetto all’idea di responsabilità. Senza semplificare troppo, perché l’esempio costruito non lo consentirebbe, il soldato avrebbe potuto fare qualunque cosa per rifiutarsi di fare quello che sta facendo. Finanche non diventare un soldato. Invece si trova lì, di guardia, e suppongo si possa affermare che abbia già parte della responsabilità di costruire quello che sta succedendo attorno a lui. Anche perché, e ne sono sempre più convinto, le cose dipendono in grandissima misura da ognuno di noi. Tornando all’esempio, quello che è successo durante la Seconda Guerra Mondiale non è qualcosa comparso dal nulla, ma un processo costruito da milioni di singoli comportamenti, singole responsabilità rivolte verso lo stesso obiettivo e allineate nella stessa direzione. Ogni singola persona è stata responsabile di quello che è stato costruito, ma la maggior parte ne attribuiva all’esterno le cause. I cittadini tedeschi sono stati responsabili alla stregua di un soldato? Già questo singolo esempio può essere utile per rivelarci la complessità e l’intreccio di piani (personale, sociale, fisico ed emotivo) che il tema necessariamente comporta.

Tornando al nostro tema, rivolgere il focus attentivo al nostro interno, piuttosto che all’esterno, è decisamente articolato perché, come appena accennato, implica prendersi in toto la responsabilità del nostro agito/vissuto senza la possibilità di poter addossare agli altri le conseguenze di quello che succede nella nostra vita. Ed è questo l’aspetto che più mette in difficoltà ognuno di noi, sentirsi costruttori attivi di quello che è la vita nella quale ci muoviamo. Ed è per questo che possiamo vivere in maniera consolatoria l’attribuire ad altri le responsabilità delle cose ‘brutte’ che ci succedono. 

Ma forse mi sto dilungando troppo in questa riflessione: ho sicuramente la responsabilità di essere prolisso e scrivere post lunghi, ma vi lascio quella di avermi seguito fino a questo punto.

Se voleste prendervi anche quella di dirmi che ne pensate, sapete come fare!

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Pubblicato il 27 Febbraio 201717 Marzo 2019

Le 10 qualità di uno psicologo competente (2)

Psicologo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  • Assenza di giudizio e rispetto: un professionista competente è una persona che cerca di conoscere i suoi pregiudizi (vedi il punto terapia personale) e, ri-conoscendoli, riesce a ‘tenerli a bada’ all’interno della relazione terapeutica. Questo aspetto è importante per creare un clima accogliente e aperto all’interno del setting terapeutico. Il giudizio può essere distruttivo all’interno della relazione terapeutica, perché può minare la capacità dell’altro di sentirsi libero nell’aprirsi su aspetti difficili e complessi della sua vita. Se c’è un clima di giudizio, questa libertà sarà limitata e il paziente si sentirà in difficoltà rispetto a quello che vuole comunicare al professionista al quale si è rivolto. Il professionista d’altro canto potrebbe essere in difficoltà con le sue opinioni personali, sempre, come detto, che non abbia ben chiaro il suo ruolo all’interno della terapia e i confini che le sue posizioni dovrebbero avere rispetto a quelle del paziente. Prendiamo, come esempio, il caso di un professionista particolarmente religioso di fronte all’aborto di una sua paziente. Se il professionista non riesce a fare una distinzione tra quelle che sono le sue convinzioni, e quelle che sono le convinzioni dell’altro (si veda a questo proposito anche il punto successivo), può facilmente sfociare in dinamiche giudicanti, in movimenti per cui stabilisce cosa sarebbe stato meglio fare o cosa sarebbe stato giusto fare in un contesto di questo tipo. Niente di più pericoloso nel contesto terapeutico. Il professionista non si trova di fronte a voi per dirvi cosa avreste dovuto fare, ma per cercare di aiutarvi a capire che senso ha questo nella vostra vita. Le scelte sono assolutamente personali e nessun professionista competente si sognerebbe mai di esprimere giudizi su quelle che sono le scelte di una persona in un’altra storia e in un altro contesto. Se avete a che fare con un professionista che spande giudizi, che promulga sentenze, che da consigli, che sa cosa sia per voi giusto o sbagliato e che invece non vi aiuti e vi accompagni a capire cosa per voi sia giusto o sbagliato, probabilmente non è un professionista competente. Un buon professionista non cerca di cambiarvi a sua immagine e somiglianza, piuttosto vi accompagna nel trovare la vostra strada.
  • Terapia personale (e supervisione): un terapeuta competente per essere tale, deve aver provato su di se cosa significhi terapia. È consigliato, ma sono sempre più convinto che dovrebbe essere obbligatorio, che abbia fatto, e che possibilmente continui a fare, un percorso di terapia individuale che consenta di chiarire quali sono le sue dinamiche personali, le sue resistenze, le sue difese, insomma tutto il suo bagaglio personale che potrebbe entrare come elemento caratterizzante la terapia soprattutto se maneggiato senza alcuna consapevolezza. Allo stesso modo, accanto ad una terapia individuale, sarebbe necessario che quest’ipotetico terapeuta competente facesse anche supervisione, si recasse, in altre parole, da un collega per discutere sulle eventuali difficoltà di determinati casi e riuscisse a comprendere con lui come questi casi e le difficoltà riscontrate colludano con le dinamiche personali del terapeuta stesso (ovviamente parlo di psicologo al maschile giusto per semplicità, non vorrei pensaste ci siano solo colleghi maschi!). Sono momenti estremamente importanti e qualificanti nella formazione del terapeuta competente, investimenti necessari non solo per il benessere del terapeuta ma coadiuvanti per la buona riuscita della terapia stessa: non sono perciò da considerarsi accessori, ma aspetti fondamentali nella formazione duratura del terapeuta.
  • Etico: un buon professionista è etico nel senso pieno del termine. È etico nel momento in cui comprende come sia lecito agire non lasciandosi trascinare dalle sue convinzioni. Sa che non è il metro di ogni cosa, sa che non è un guru al quale le persone si possono rivolgere per cercare di avere aiuto in una fase della loro vita. Conosce le sue capacità ma conosce e ha strettamente presenti anche i suoi limiti, sa dove spingersi e come avventurarcisi. È consapevole di quali siano le sue convinzioni, la sua visione della vita, le sue credenze e le sue immagini e, consapevole di questo retroterra personale, lo mette al servizio dell’altro, senza imposizioni e senza forzature, senza costringere in questa visione chi gli siede davanti, costringendo l’altro, dall’alto della competenza che il ruolo sociale gli riconosce e al quale il professionista stesso può tranquillamente credere ed adattarsi, ad adeguarsi ad un modello che non ha scelto. Un buon professionista ha sempre chiaro da dove viene, cosa è suo e cosa invece appartiene all’altro.
  • Ironico: altra dote per me fondamentale è l’ironia. L’ironia è un’arma che può essere utilizzata con diverse finalità sia per creare un buon clima all’interno della seduta terapeutica, sia per riuscire a comunicare una nuova prospettiva al paziente tramite restituzioni mirate nel racconto che fa della sua stessa vita. Purtroppo l’ironia non si può insegnare, né si può imporre. Fa parte del bagaglio personale del terapeuta ed è una sua abilità saperla utilizzare al momento opportuno e non a sproposito. Il rischio, in caso contrario, potrebbe essere quello di far sentire ridicole le istanze portate dal paziente, oppure sminuirne la portata, dando l’impressione al paziente di non esser accolto e compreso. In questo calibrare abita l’abilità del terapeuta: riuscire ad utilizzare un potente mezzo senza screditare la realtà portata dal paziente.
  • Personale: strettamente legata al punto precedente è importante la personalità del terapeuta. Così come l’ironia è parte del bagaglio personale del terapeuta all’interno della terapia, è necessario tenere conto di quelle che sono le caratteristiche personale del terapeuta, caratteristiche che possono essere annoverate come bagaglio fondamentale del terapeuta stesso. Intendo con questo riferirmi alle caratteristiche personali, al suo essere persona prima che psicologo. Un professionista competente non è il mero ‘esecutore’ di teorie psicologiche studiate sui libri. Il terapeuta fa la differenza nella costruzione della relazione terapeutica stessa attraverso la sua personalità. Anche in questo caso l’abilità del terapeuta risiede nella capacità di calibrare le sue istanze personali e le sue caratteristiche personali con le caratteristiche del rapporto terapeutico e quindi con le caratteristiche della persona che ha di fronte. Il fatto che abbia un’impostazione personale non può, in nessun caso, prescindere dall’accoglienza e dal rispetto della persona con la quale si trova a lavorare.

Naturalmente questo elenco non è esaustivo e non sono solo questi gli aspetti che fanno di uno psicologo un professionista competente. Non ho, per esempio, citato tra le varie caratteristiche la creatività che dovrebbe avere, la preparazione teorica, l’aggiornamento continuo, meta da conseguire per tutto la sua carriera, la curiosità per il mondo che lo circonda (sapere cosa ascoltino i suoi giovani pazienti potrebbe essere un grande ponte comunicativo con loro, per esempio) e molti altri aspetti. I punti elencati possono essere considerati come alcune tra le caratteristiche da prendere in considerazione per la demarcazione tra competenza o inadeguatezza del professionista. E possiamo sempre ampliare la riflessione su altri punti un prossimo post!

Per il momento che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Pubblicato il 7 Febbraio 201715 Novembre 2017

Le 10 qualità di uno psicologo competente (1)

PsicologoQuali possono essere le qualità di uno psicologo? Quali possono essere i fattori che concorrono nel rendere un professionista valido oppure no? Queste domande mi circolano per la mente da qualche tempo e, sull’onda della mia esperienza personale e di quello che mi raccontano i colleghi con i quali ho la fortuna di essere in contatto, ho pensato di stilare una sorta di elenco di quelle che possono essere le caratteristiche che fanno di un professionista un buon professionista e cercare di capire quale di queste caratteristiche possano essere fondamentale nella costruzione di un buon rapporto terapeutico. 

  • Capacità di comunicare e ascoltare: la prima dote che dovrebbe averne uno psicologo suppongo possa essere la capacità di comunicare. Questo non vuol dire che uno psicologo debba essere un oratore, quanto che riesca a comprendere e a farsi comprendere dal suo interlocutore. All’interno di una relazione terapeutica questo aspetto è particolarmente importante perché la relazione stessa si basa sulla comunicazione. Se questa è deficitaria, lo sarà la relazione stessa. Uno psicologo devo essere in grado di comunicare e di ascoltare quello che la persona che ha di fronte gli porta. E questo fa la differenza tra un uno psicologo competente e uno psicologo incompetente. Comunicare è qualcosa di ben più complesso di prestare l’orecchio quando qualcuno sta parlando con me, perché comprende la gestione dei tempi, degli spazi, dei silenzi nella relazione. Ed è questa l’abilità che un professionista competente dovrebbe stare attento ad affinare.
  • È uno psicologo? Un’altra caratteristica fondamentale nel considerare la competenza di uno psicologo è che lo psicologo sia effettivamente uno psicologo! Ci sono diverse forme di aiuto e diverse competenze, ma se decidete di rivolgervi ad uno psicologo o ad uno psicoterapeuta, assicuratevi che effettivamente lo sia. Potete controllare questi dati in modo molto semplice: potete cercare il suo nome su Google, che vi indirizzerà sul sito dell’ordine nel quale il professionista al quale avete intenzione di rivolgervi dovrebbe risultare iscritto. Potete fare una ricerca più dettagliata entrando all’interno del sito dell’Ordine degli Psicologi nazionale, sito nel quale devono comparire tutti i professionisti esercitanti in Italia. Se la persona non è scritta in questo elenco avete due possibilità: chiedere spiegazioni al diretto interessato, che potrebbe dirvi che non è iscritto all’ordine degli psicologi nazionale ma all’ordine di un paese europeo, oppure semplicemente cambiare persona. Un rapporto di fiducia come quello terapeutico non può iniziare con una mezza verità. Durante il primo colloquio potrete chiedere altri particolari sul percorso formativo del professionista al quale vi siete affidati: quale università ha frequentato o quale scuola di specializzazione. Personalmente, fornisco queste informazioni all’interno della prima seduta, tramite un modulo di consenso informato che la persona che decide di lavorare con me firma. Avere informazioni, sapere con chi si sta lavorando è una premessa fondamentale per il tipo di percorso che si vuole intraprendere ed è necessaria in un contesto delicato come una relazione psicoterapeutica.
  • Curiosità ed interesse per l’altro: un buon professionista è una persona che dimostra curiosità per la storia dall’altro. Le persone si rivolgono ad uno psicologo di solito perché hanno difficoltà (relazionale, emotiva, personale…); un buon professionista riesce ad interessarsi sinceramente alla storia della quale sta venendo messo da parte cercando di capire i risvolti personali di quello che la persona che ha davanti gli sta raccontando. La curiosità non è un semplice parlare o chiedere, ma è motivata dalla finalità nell’avere più elementi possibili per cercare di capire come aiutare la persona in quella determinata circostanza. Sapere che l’altro si interessa a noi è un aspetto fondamentale ed è forse uno degli aspetti più immediati della relazione. Tutti noi abbiamo degli amici interessati e amici disinteressati, persone con le quale capiamo subito se quello che stiamo raccontando suscita un interesse reale o solo un interesse di facciata, comprendiamo abbastanza velocemente se ci stanno ascoltando e stanno cercando di capire cosa stiamo comunicando loro, oppure se semplicemente stiano ‘facendo finta’ di ascoltarci. La stessa abilità dovrebbe essere impiegata per capire se il professionista al quale ci siamo rivolti è sinceramente interessato a noi oppure lo sta facendo semplicemente perché è il suo lavoro. Questa differenza è importante per capire se nella relazione c’è un trasporto umano o siamo semplicemente un caso. Se avvertiamo di essere solamente lavoro, probabilmente la persona con la quale abbiamo scelto di lavorare non è la persona giusta per noi.
  • Empatia: un buon professionista è una persona empatica. Abbiamo già cercato di chiarire cosa vuoi dire essere empatici: si tratta di una caratteristica fondamentale all’interno della relazione terapeutica. Essere empatici significa riuscire ad avvicinarsi per comprendere le emozioni dell’altro riuscendo a non sovrapporle, però, con le proprie. È un movimento di vicinanza che solo la maestria dello psicologo può evitare diventi un momento confusivo. La vicinanza come abbiamo già visto è un momento necessario per cercare di costruire una relazione con l’altro soprattutto quando questa relazione è intima come la relazione terapeutica. Questa vicinanza non può e non deve trasformarsi in una sovrapposizione emotiva, dal momento che il professionista deve tenere presente ciò che è suo da ciò che appartiene emotivamente all’altro. Io posso comprendere il dolore dell’altro ed accoglierlo, ma non posso sovrapporre il dolore dell’altro con il mio perché questo è confusivo e non è empatico. Questo differenzia una relazione terapeutica da una relazione amicale: in quest’ultima spesso si può avere questo tipo di confusione. All’interno della relazione terapeutica, invece, è del tutto inopportuno, perché pericoloso per la terapia stessa ed inutile. Un terapeuta che non riesca a fare questo non è un terapeuta efficace e rischia di confondere ancora di più la persona che ha di fronte.
  • Terapia personale (e supervisione): un terapeuta competente per essere tale, deve aver provato su se stesso cosa significhi fare terapia. È consigliato, anche se secondo me dovrebbe essere obbligatorio, cha faccia un percorso di terapia individuale che gli/le consenta di chiarire quali sono le sue dinamiche personali, le sue resistenze, le sue difese, aspetti che potrebbero entrare in gioco anche all’interno della relazione terapeutica. Ancora, sarebbe auspicabile che la terapia individuale venisse affiancata da un percorso di supervisione e venisse supportato dall’esperienza di un collega nella condivisione delle risonanze, della eventuali difficoltà riscontrate in alcuni dei casi che segue. Questo fa parte del concetto di formazione professionale continua, che non è data solo dalla formazione teorica ma dovrebbe essere affiancata da quella personale ed esperienziale e dovrebbe essere life long dovrebbe cioè durare per tutta la vita, quanto meno professionale, dello psicologo competente.  

 

– CONTINUA –

 

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Pubblicato il 20 Agosto 2016

Ho sognato di volare: che significa?

UnknownSpesso capita che quando le persone vengono a sapere che sono uno psicologo mi sottopongano i loro sogni anche nei contesti più improbabili: al bar, in strada, in spiaggia… Di solito la conversazione comincia con un: ‘tu che sei psicologo…’ Poco tempo fa, per esempio, mi è stato chiesto in spiaggia di cercare di interpretare cosa volesse dire sognare di volare!

Questo tipo di domande mi fanno sempre uno strano effetto perché se da un lato segnalano la fortissima curiosità che circonda il tema della psicologia applicata al quotidiano, come per esempio i sogni, è anche vero che denotano una forte banalizzazione del tema come se uno psicologo, forte delle proprie doti divinatorie, potesse comprendere attraverso un sogno il mondo ricco e complesso di un individuo. Alla mia reticenza nell’interpretazione spesso le persone non reagiscono bene. Questo pensiero semplificatorio è, credo, frutto di anni e anni di disinformazione, nei quali riviste e giornali (o altri mezzi di comunicazione) hanno accolto la pagina dedicata allo psicologo di turno in grado di dare soluzioni a tutto. Secondo me è una banalizzazione eccessiva e tutte le rubriche di questo tipo dovrebbero ricordarlo ai propri lettori o ai propri ascoltatori. Mettendo da parte un momento questa polemica, che ci porterebbe troppo lontano dal tema che voglio affrontare, le ragioni per cui io non mi sento di accondiscendere a questo tipo di richieste sono fondamentalmente due: da una parte credo che per utilizzare al meglio uno strumento come il sogno questo vada inserito in una conoscenza della persona che lo porta. E’ del tutto inutile che azzardi a caso un’interpretazione basata sul nulla, che non ha alcun valore probativo rispetto a quello che può dire chiunque altro voglia interpretarlo. In più, e questo è il secondo forte motivo, mi sembrerebbe di fare un torto al sogno se banalizzassi così il suo significato.

In realtà credo che il sogno sia una porta enorme e affascinante sul mondo interno dell’individuo. Come tutte le cose va saputo significare nel migliore dei modi, ne va capito il senso in relazione alla vita dell’individuo che lo porta. Già Freud nel suo testo fondamentale L’interpretazione dei sogni (1898)[1], pose in luce alcune delle funzioni e dei meccanismi di funzionamento del sogno stesso e il valore assolutamente rilevante che i sogni potevano avere non solo nel lavoro terapeutico con il paziente, ma anche nella complessa economia conoscitiva delle modalità di funzionamento psichico dell’individuo che quei sogni portava. La ricerca attuale sul sogno, accantonando molte delle presunte non oggettività del percorso psicanalitico, si è concentrata sui correlati fisiologici del sogno stesso, grazie ai potenti mezzi di visualizzazione dell’attività cerebrale dei quali possiamo disporre attualmente. Pur non ritenendo necessaria la possibilità di studiare una materia complessa come i sogni, data la loro difficile classificazione secondo il metodo scientifico, viene comunque da chiedersi perché, all’interno di un’ottica evolutiva che privilegia i cambiamenti necessari, il sogno sia rimasto un elemento presente nell’attività mentale umana. Questo grande interrogativo non permette di liquidare i sogni come semplici sottoprodotti dell’attività cosciente. In questo senso sono perfettamente in linea con le parole della collega Occhionero: alcuni liquidano il sogno come un fenomeno assolutamente irrilevante per per l’economia cognitiva: l’attività mentale durante il sonno è un semplice epifenomeno del sonno stesso. Detto in altri termini, il cervello, in quanto tale, non può non produrre fatti cognitivi anche se non ve ne è nessuna necessità. Non esiste alcuna condizione (…) in cui il cervello dell’uomo non sia in grado di produrre una qualche attività mentale. (…) Il sogno è uno stato mentale e come tale ha a che fare con la coscienza, meglio, esso è uno stato della coscienza, essendoci un accordo generale tra tutti i ricercatori nel considerare la coscienza come un universo a molti livelli di complessità. [2] 

Questa complessità è l’aspetto che più mi fa stare alla larga dalla semplificazione del sogno stesso, da una facile lettura e ridefinizione che non tenga conto della stratificazione di significati, vissuti, pensieri che il sogno stesso rappresenta. E, se questa premessa è vera, non si può non dover riconsiderare il bisogno di un lavoro attento e preciso sull’interpretazione del sogno stesso, un lavoro che necessariamente non può prescindere da un lavoro più ampio sulla persona stessa.

Altrimenti l’interpretazione di un sogno rimane alla stregua di un gioco. Certo, si può fare e può essere divertente. Ma non si dovrebbe dimenticare che come gioco è nato e che di gioco si tratta. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Freud, S. (2010), L’interpretazione dei sogni, Newton Compton, Roma

[2] Occhionero, M. (2009), Il sogno, Carocci, Roma, pag. 89

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Pubblicato il 11 Aprile 2016

Il terapeuta in terapia

questo non è un divanoCome si lavora in terapia? Questa domanda è (o dovrebbe essere) presente nella quotidianità del lavoro terapeutico, perché la capacità di porsi tale quesito denota una buona capacità di osservazione di se stessi ed è una delle caratteristiche necessarie e indispensabili nella vita lavorativa di ogni psicologo. Il punto fondamentale è l’immagine che un professionista ha di quello che è il suo ruolo in terapia. Cosa pensa debba fare in terapia? Cominciamo con una premessa: non esiste un’immagine fissa e statica di quello che dovrebbe essere il suo ruolo perché, come tutte le immagini, è soggetta a cambiamenti e ad aggiustamenti. Molti di noi, per lo meno ad inizio carriera professionale, hanno un’idea abbastanza preconcetta e precostituita di cosa voglia dire fare lo psicologo: cosa bisogna fare, come mi devo comportare, quali siano le cosa migliori da fare in terapia. Insomma, si costituisce uno schema fisso su cosa si deve fare e cosa non si deve fare per essere un buon terapeuta e questa immagine può diventare uno schema molto rigido che costituisce una sorta di cornice invalicabile a quello che si ritiene sia opportuno fare terapia. L’esperienza quotidiana del lavoro porta, di contro, ad affrontare situazioni complesse che travalicano gli schemi, situazioni che sono mutevoli e instabili, non prevedibili e discontinue e vanno aldilà dello schema che ci imponiamo. Questo continuo incontro/scontro con i confini dovrebbe portare lo psicologo ad interrogarsi su quale senso abbiano questi confini, su come definiscano la professione, su come definiscano il suo modo di lavorare, su come siano importanti nel definire la sua relazione col lavoro, su come riescano ad influenzare l’idea stessa della propria professionalità in relazione al suo lavoro.

Quando ho iniziato a lavorare ritenevo non fosse particolarmente saggio rivelare dettagli della mia vita in nessun caso all’interno della relazione terapeutica. La mia immagina era quella di relazione sbilanciata (il paziente parla, lo psicologo tace), l’immagine dello psicologo ‘misterioso’ , che mai si sognerebbe di giocare dettagli della sua vita in terapia. In realtà, con l’esperienza e con la formazione avuta successivamente, ho iniziato a pensare che fornire dei particolari della propria vita, e quindi raccontarsi, possa avere una funzione importante nello stabilire un contatto ed una vicinanza con il proprio paziente. Continuando a studiare, ho appreso che questa viene usata come tecnica nel lavoro ed è chiamata self-disclosure.

Lo stile di conduzione della terapia da parte del terapeuta è, in definitiva, il risultato di una molteplicità di fattori che ha come centro di partenza il terapeuta stesso e la sua visione della sua relazione col paziente. Parte dalla sua formazione e, non fermandosi a questa, costruisce una relazione basata sulle caratteristiche uniche e personali del terapeuta stesso e quelle della persona con la quale lavora e sta costruendo una relazione terapeutica.

A questo proposito ho trovato particolarmente interessante il passaggio del libro che vi riporto, e che reputo uno dei migliori letti ultimamente, (trovate tutti i riferimenti bibliografici in fondo all’articolo). L’unica premessa della quale avete bisogno è l’utilizzo che l’autore fa del termine guru con il quale intende il terapeuta che costituisce la guida del suo pellegrino (paziente). Non fatevi fuorviare dal termine: nel libro è usato in maniera ironica e sancisce proprio la possibilità che non esista un ‘guru’ ma che ognuno debba trovare in se stesso la capacità di prendere in mano la sua vita:

Quando lavoro con un paziente, non solo ascolto la sua storia ma gli racconto anche la mia. Per raggiungere una meta, dobbiamo conoscerci a vicenda. Uno dei lussi dell’essere uno psicoterapeuta è che aiuta a mantenerti onesto. È un po’ come rimanere nella terapia per tutta la vita. Mi aiuta a rimanere impegnato nella narrazione ripetuta della mia storia per il resto di quel pellegrinaggio che è la mia vita. La ricerca condotta nell’autorilevazione appoggia la mia esperienza che l’apertura personale del guru facilita e invita l’apertura crescente del pellegrino. Ma io opero non per aiutare il paziente, ma per aiutare me stesso. È dal centro del mio stesso essere che vengo spinto a partecipare la mia storia. Il fatto che ciò aiuti il paziente è un vantaggio secondario. Ogni volta che commetto l’errore di dare una parte di me stesso deliberatamente per spingere il paziente a condividere con me una parte maggiore di se stesso, egli si ribella alla manipolazione, alla qualità ipocrita e pretenziosa dei miei sforzi. Negli ultimi anni, al contrario, mi fido sempre più dei miei sentimenti, e faccio quanto mi sento di fare senza cercare di controllare l’effetto sul paziente. Quando un paziente diffidente mette in questione la mia sincerità in contrapposizione al mio uso deliberato di tecniche psicoterapeutiche, mi trovo totalmente disinteressato alla distinzione. Non mi chiedo se sono sincero o tecnico quasi da quando ho rinunciato a chiedermi se sono egoista o altruista. Che differenza fa tutto questo? Come possono aiutarmi le risposte a tali domande? (…)

Lo scambio reciproco delle autoriparazioni tra guru e pellegrino, naturalmente, dà priorità a quella del cercatore. Sotto certi aspetti io sono un esperto pagato per offrire servizi. Il paziente, anche se può esserne inconsapevole sa esattamente, sempre meglio di me, dove cominciare ogni seduta. [1]

Questa è la sintesi perfetta di ciò che intendevo, sulla capacità che ognuno di noi dovrebbe avere in seduta di iniziare da se stesso, di partire dalla propria realtà, di aiutare aiutandosi. Solo partendo da noi possiamo arrivare all’altro, solo mettendo l’accento su quanto possiamo aiutare noi stessi siamo in grado di essere d’aiuto agli altri.

E credo fosse una possibilità che neanche prendevo in considerazione quando ho iniziato a lavorare. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] S. B., Kopp (1972), Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Astrolabio, Roma, pag. 29

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Pubblicato il 31 Ottobre 201531 Ottobre 2015

INIZIATIVE: SETTIMANA DEL BENESSERE PSICOLOGICO

psicologiDal 02 all’08 Novembre si svolgerà nelle provincie di Cagliari e Carbonia-Iglesias, promossa dall’ordine degli Psicologi della Regione Sardegna, la Settimana del Benessere Psicologico. L’iniziativa, come ogni anno, propone una serie di eventi (seminari, workshop, conferenze, studi aperti) che permettono di avvicinare le persone ad una professione, quella dello psicologo e dello psicoterapeuta, spesso percepite come lontane e distanti. Si terranno, quindi, una serie di dibattiti, seminari, e aperture di studi con la finalità di avvicinare la nostra professione alle persone che ne sono interessate.

Ho aderito per il terzo anno consecutivo a questo progetto, convinto della bontà di un’iniziativa che permette ad un sempre maggiore numero di persone di conoscere più da vicino il mio lavoro. Il contributo che ho pensato di dare è di offrire un colloquio di consulenza gratuito a coloro che ne fossero interessati (bambini, adolescenti, adulti, coppie e famiglie). Chi volesse approfittare dell’iniziativa può contattarmi tramite:

Telefono: 392 0008369

Mail: fabrizioboninu@gmail.com

I colloqui si svolgeranno, previo appuntamento, presso i miei studi:

Piazza Salento, 7 CAGLIARI (da lunedì 02.11.15 a giovedì 05.11.15)

Via Roma angolo piazza Marmilla, CARBONIA (venerdì 06.11.15)

Per maggiori informazioni, potete visitare il sito www.lopsicologovirtuale.it o il blog fabrizioboninu.blog.tiscali.it

Tutti coloro i quali volessero un elenco completo delle iniziative che si svolgeranno durante l’intera settimana può cliccare su Calendario Eventi Settimana del Benessere Psicologico. Sarete reindirizzati sulla pagina del sito dell’Ordine degli Psicologi della Sardegna all’interno della quale troverete, divise giorno per giorno, l’elenco completo delle iniziative che sono state programmate durante tutta la settimana.

Spero che in tanti possiate avvalervi delle iniziative proposte. 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Pubblicato il 18 Maggio 201522 Luglio 2015

Io parto da me

parto alla ricerca di me stesso...300Non vi nascondo che ho in mente questa riflessione da parecchio tempo e credo di aver avuto delle difficoltà a metterla per iscritto. Se voleste seguirmi, proverò a spiegarmi meglio. Un ideale punto di partenza potrebbe essere la considerazione su quella che (temo) sia una delle tendenze che noto più spesso in questi tempi: la tuttologia. Questa tendenza affligge tutti coloro i quali, non avendo specifiche competenze in determinati campi (economia, salute, ecc), si vedono invece depositari dello scibile umano e si sentono in dovere di ribadirlo con gli altri, magari anche con persone che stanno faticosamente cercando di costruire una propria competenza in un campo specifico. Talvolta questo avviene con modi non propri mirabili e i tuttologi puntano il dito su quanto ‘gli altri’ non capiscano niente, quanto non comprendano il mondo, come le cose andrebbero fatte in altro modo, o nel peggiore dei casi, che tutto quello che viene fatto/detto/scritto non sia mosso dalle migliori intenzioni. È capitato con alcuni argomenti trattati su questo blog: i post sulle cosiddette teorie riparative o quello sull’omogenitorialità hanno provocato una serie di commenti e di mail non propriamente edificanti.  Sono stato accusato di non essere obiettivo, di nascondere delle informazioni, di essere poco trasparente.

Sono d’accordo sul fatto che le posizioni possano essere messe in discussione, d’accordo che si possa criticare tutto (sono il primo a spingere in questa direzione!). Ciò che, invece, non comprendo sono le posizioni di coloro che, non avendo strumenti per parlare del tema specifico, irridono i temi trattati e passino dalle critiche sui temi proposti a contestazioni di tipo personale (sono ‘dalla parte di’, ‘nascondo informazioni’, ‘travio le persone’, ecc). Come ho avuto modo di notare e segnalare più volte, questo avviene senza freni particolarmente nelle interazioni su internet. Da queste premesse sono nate le domande: che cosa origina tutta questa acredine nelle discussioni? Da dove viene questa presunta sicumera? Da dove arriva questa insopportabile saccenza per la quale tutti ostentano di sapere tutto di tutte le cose e irridono gli altri per le proprie posizioni? Dove origina l’incapacità ad accettare le competenze altrui? Se dovessi riassumere queste domande con una sola probabilmente sarebbe: perché molti pretendono di cambiare il mondo partendo dagli altri?

Non volendo specificamente entrare sul tema della competenza e sul conseguente appiattimento nel quale chiunque sembra potersi pronunciare su tutto, l’aspetto che più mi colpisce riguarda il fatto che tutti hanno il desiderio di voler migliorare le cose partendo dagli altri. È l’altro che deve cambiare, è l’altro che deve apportare delle modifiche, è l’altro che deve mutare, ed è sempre l’altro che deve iniziare a farlo. È raro, invece, che una persona inizi partendo da sé, è raro che una persona cominci a pensare di voler cambiare le cose partendo da quello che può fare (o può smettere di fare) per migliorare il mondo o, più semplicemente, una discussione, ed è sempre più raro che una persona metta in discussione le sue scelte, i suoi stili, i suoi pensieri per iniziare a modificare quella che è la società che ci circonda. L’altro è in malafede, l’altro non ha capito nulla, l’altro è prezzolato. L’altro DEVE cambiare il suo atteggiamento/pensiero/azione/emozione. Noi, invece, andiamo bene così.

Qualche tempo fa avremmo potuto etichettare questo automatismo con termini come scissione e proiezione, due tra i meccanismi più primitivi di difesa. Individuata una parte di noi che non ci piace, la scindiamo e la proiettiamo sugli altri potendo, in questo modo, criticare una parte che sentiamo non appartenerci. Questa parte non ci appartiene, appartiene all’altro, eppure ci fa arrabbiare molto. Da dove deriva tutta questa rabbia? Una possibile spiegazione potrebbe essere che questa parte ‘rifiutata’ in realtà sia a noi molto vicina e che questa scissione, questo non riconoscimento per una parte così importante di noi, per quanto non ci piaccia, provoca una profonda rabbia. A questa spiegazione possiamo aggiungerne una più generale e cioè che le persone, sempre più consapevoli della complessità del mondo che ci circonda, nel quale con sempre più fatica si distingue tra le diverse posizioni, avvertendo la minore influenza del proprio peso e il conseguente senso di impotenza, reagiscano così, con rabbia. E questa rabbia spesso si sfoga su chi si espone, su chi cerca di fare.

Da qui voglio partire. Sovvertire questo meccanismo in me. Non chiederò a voi di cambiare per migliorare il mondo nel quale viviamo: lo chiederò a me stesso. Conoscete i buoni propositi per l’anno nuovo? Ecco, anche se inizio anno è oramai lontano, quest’anno come buon proposito voglio iniziare da me. Voglio essere sicuro di fare del mio meglio nel mio campo per cercare di migliorare, nel mio piccolissimo, la nostra società. Non voglio dare suggerimenti, non voglio dare consigli, non mi intendo delle cose che fanno gli altri, non sono in grado di sostituirmi a chiunque e non ho il sapere su tutto. Ho scelto una professione, una professione delicata e complessa, ho deciso di investire in questo campo, ho deciso di formarmi in questo campo. E questo non mi da la possibilità di essere esperto in altri campi ed è per questo che mi fido e affido alle competenze degli altri. Come disse qualcuno tanti anni fa, l’unica cosa che so è di non sapere. Per questo non mi voglio arrogare il diritto di contestare, criticare o denigrare quelle che sono le competenze degli altri. Io parto da me, e posso solo garantire il mio impegno e la mia passione. Anche i miei errori. Quello che non voglio fare è migliorare il mondo in cui viviamo partendo da voi. Credo sarà il cambiamento, l’impegno, la passione che ognuno di noi può esercitare su se stesso a cambiare le cose. E non la critica aprioristica delle posizioni degli altri. Partirò da me, da quello che faccio, da come mi comporto, da come reagisco, da come mi arrabbio.

Cercherò, per quanto sia più facile e più semplice, di non limitarmi ad incolpare gli altri, di ritenere tutti gli altri, eccetto me stesso, responsabile di quello che ci circonda. E credo non sarà facile, in questa continua rincorsa alla ‘colpa degli altri’ e alla incapacità di osservare se stessi. Mi sono stancato di partire dall’altro, mi sono stancato di attribuire all’altro. Provo a rivolgere lo sguardo su di me, cercando di vedere cosa faccio, dove posso migliorare, dove ancora sbaglio e perché lo faccia.

Parto da me e su me cerco di stare, prendendomi la pesante responsabilità di quello che creo e di come lo creo. Cercando di non cadere nella facile tentazione di accusare gli altri come soli responsabili di quello che mi/ci succede.

 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Pubblicato il 4 Aprile 2015

Buona Pasqua:)

pasqua2015Approfitto delle prossime feste per fare a tutti voi gli auguri di buona Pasqua. Spero sia un periodo di serenità, di riposo o di quello che avete deciso di fare in questi giorni!

Utilizzo questa occasione anche per ricordarvi tutte le possibilità di contatto e condivisione presenti sul blog (fabrizioboninu.blog.tiscali.it) e su sito (www.lopsicologovirtuale.it).

Innanzitutto i miei contatti:

Tel.: 3920008369;

Mail: fabrizioboninu@gmail.com

Altra possibilità è l’iscrizione alla newsletter che permette di ricevere tutti gli aggiornamenti direttamente sulla vostra email. Per registrarvi alla newsletter cliccate su ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER. Ancora, vi ricordo la pagina Facebook del blog (clicca PAGINA FACEBOOK per andare direttamente alla pagina) e, qualora voleste, aggiungere il vostro mi piace agli oltre 3400 già presenti. 

E infine, qualora desideraste chiedere una consulenza online, vi invito a cliccare sul  link RICHIEDI CONSULENZA ONLINE, e seguire le semplici istruzioni.

Credo di avervi ricordato tutto.

Ancora auguri e grazie per l’attenzione e l’affetto con i quali mi seguite.

Buone feste, a presto…

Fabrizio Boninu

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Pubblicato il 9 Febbraio 2015

Ma io chi sono?

imagesL’idea dell’argomento di questo post è di un lettore, anzi una lettrice che mi rivolge una domanda circa cosa succeda in terapia. Questa la domanda: Caro dott. Boninu, capita, talvolta, in terapia, che un suo assistito le chieda: -Ma IO, chi sono-? Nel qual caso, si è preparato una risposta? Come risponde, Lei? E i suoi colleghi, come rispondono? Ma voi medici, ve lo chiedete, a volte? I libri di testo sono ‘illuminanti’? No, perché altrimenti, Vi chiedo se me ne indicate uno … buona sera, Graziella

E questa la mia risposta: Salve Graziella, non credo mi sia stata mai posta come domanda così diretta. E, naturalmente, non ho una risposta pronta perché dipende da chi ho davanti. In realtà tenderei a non rispondere ad una domanda del genere ma propenderei per aiutare la persona a trovare autonomamente la sua risposta. Il rischio sarebbe, in caso contrario, che facesse sua la mia risposta. Non ho idea di come potrebbero rispondere i miei colleghi. Spero rispettino il tempo e il senso dell’altro. Credo che ognuno di noi ad un certo punto della sua vita si chieda chi è, o cosa vorrebbe essere, e le assicuro che la risposta difficilmente viene dai libri, che possono sicuramente aiutare ma mai quanto l’esperienza stessa di vivere questa vita per cui ci impegniamo a trovare un significato. Grazie per le domande Graziella… A presto

Ho pensato, al di là della curiosità legittima di Graziella, che fosse il caso di approfondire il tema. Uno dei punti che vorrei chiarire è che non esiste un mezzo standard per affrontare il paziente che si ha davanti. Ci sono naturalmente dei metodi o delle tecniche alle quali riferirsi, oppure può essere l’orientamento teorico dello psicologo ad influenzare il modo in cui la terapia stessa è svolta. Ma dubito (e spero!) che nessun mio collega applichi un metodo standard che non prenda in considerazione la persona che ha seduta di fronte. Ogni caso è un caso a se e, se è possibile fare un intervento che sia utile per la persona, credo sia dovuto al fatto che l’intervento stesso è calibrato ed adatto alla persona stessa e non è, dunque, standardizzato. Quindi, per rispondere a Graziella, non esistono risposte univoche alle domande che i pazienti fanno. O per lo meno, non le troverete nel lavoro con me.

Altro punto che reputo importante riguarda il fatto del dare risposte. Ho già affrontato diverse volte il tema: non credo che uno psicologo (e uno psicoterapeuta) debbano fornire risposte o dare consigli su come fare. Questo è un ruolo molto richiesto da parte dei pazienti che vorrebbero avere un ‘guru’che fornisce delle soluzioni su come procedere nella vita. Credo profondamente che questo ruolo non debba essere, se non forse in minima parte e con un accurata consapevolezza, accettato dal professionista, proprio perché l’accettazione di questo ruolo delegittimerebbe ancora di più il paziente e le sue capacità e confermerebbe, anche da parte del ‘guru’, che non è in grado di affrontare la sua vita autonomamente ma che dipenda, nel fare questo, da un’altra persona che ritiene più esperto di lui (o di lei ovviamente!).

Ecco io credo che questo punto sia fondamentale nella terapia: cercare di non rinforzare l’idea di incompetenza e di inesperienza che il paziente ha nei confronti della sua stessa vita. L’obiettivo è, anzi, fornire un punto di vista differente, provando a farlo sentire come unico esperto (quale in realtà è) della sua vita. Rendere questo ad un paziente è profondamente difficile, soprattutto per coloro i quali vorrebbero essere supportati dal consiglio dell”esperto’. Se ci si pensa, sarebbe molto più semplice dare questi consigli, ma questo credo non sarebbe un modo per rinforzare l’autonomia della persona con la quale si lavora. Molte persone mi rendono questa idea, l’immagine dello psicologo come una sorta di dispenser di consigli, di facili soluzioni per affrontare al meglio la propria vita.

Non si tratta di non comprendere o di non accogliere il bisogno che muove la richiesta, bisogno ancora maggiore nel momento della vita in cui ci si sente disorientati, ma se venisse assecondata questa richiesta, verrebbe  indirettamente confermata l’inadeguatezza che quella persona ha del suo ruolo nella sua vita. Vorrei, invece, restituire l’idea che nessuno sia più adatto a vivere la propria vita come chi quella vita la sta vivendo, di modo che sia la persona stessa, anche col mio supporto se questo è ciò di cui sente la necessità, a rispondere alla domanda iniziale: riuscire a dirmi chi sia.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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