Questo post ha bisogno di una piccola/grande premessa che inizia dalla visione di un film: Hannah Arendt (2012). Il film narra la vita di Hannah Arendt tra il 1960 e il 1964. In quel periodo la Arendt ha circa cinquant’anni, ed è un’intellettuale di origine tedesca, naturalizzata statunitense per sfuggire alle persecuzioni naziste nei confronti degli ebrei della seconda guerra mondiale. Nel 1961 la rivista The New Yorker la mandò a Gerusalemme come cronista di quello che si annunciava come uno dei processi del secolo: il caso di Adolf Eichmann, uno dei più grandi criminali nazisti, catturato in Argentina e processato da un tribunale ebraico (e, per la cronaca, condannato a morte nel 1962). Da intellettuale prestata alla ‘cronaca’, la Arendt approfittò del punto di vista privilegiato che aveva sulla vicenda per una profonda riflessione circa la mancanza di mostruosità nella persona di Eichmann, sulla sua presunta normalità, sulla impossibilità di pensare che quel piccolo ometto calvo e con gli occhiali potesse essere non un burocrate ma una delle personificazioni del male per come lo aveva conosciuto il mondo pochi anni addietro. La riflessione portò la Arendt a scrivere uno dei suoi libri più famosi, La banalità del male, libro nel quale affronta appunto la banalità del male che ci circonda, dovuto non a casi eccezionali o a predisposizioni particolarmente malvagie e sanguinarie delle singole persone, quanto dell’inconsapevolezza che le scelte, anche piccole di ognuno di noi, hanno nel costruire un risultato disastroso quanto quello che si era creato durante la seconda guerra mondiale.
Lasciamo qua la Arendt (vi invito naturalmente a leggere il libro o a guardare il film se voleste saperne di più delle vicende narrate) e passiamo ad un’altra piccola/grande premessa, qualcosa di più vicino a noi. Tempo fa assisto al convegno di Massimiliano Frassi (se voleste saperne di più sul tema, vi rimando al post nel quale lo intervisto. Cliccate sul link PEDOFILIA: intervista a Massimiliano Frassi) all’Exmè di Cagliari, organizzato da Domus de Luna. Il tema del convegno è di quelli che fanno timore: la pedofilia. Uno degli aspetti sul quale Massimiliano non si stanca di insistere, è che dobbiamo fare più attenzione alle situazioni ‘normali’, quelle nelle quali abbassiamo la guardia, piuttosto che quelle apertamente equivoche nelle quali, invece, la nostra attenzione può essere più vigile. Il pedofilo non è il personaggio interpretato da Bela Lugosi, non è il mostro delle fiabe, brutto, sporco e cattivo; è più probabile si celi dietro il gentile e premuroso sconosciuto che avvicina il bambino e che non desta nessuna apparente preoccupazione.
Nazismo e pedofilia: suppongo che, a questo punto, vi starete chiedendo: qual è il punto? Dove vuole arrivare questo post? Qual è il filo rosso che congiunge due premesse apparentemente così tanto distanti?
Il filo rosso è una mia personale riflessione sulla banalità del male, sulla necessità di abbandonare l’idea che il male sia una realtà sovrumana che non ci appartiene ma che rientri nella quotidianità di ciascuno di noi. È molto liberatorio e gratificante pensare che il male, le persone veramente cattive, quelle che sono nei libri di storia alla voce ‘i peggiori di sempre’, siano altra cosa da noi, siano casi eccezionali nella storia dell’umanità, siano lontani anni luce dalle nostre piccole cattiverie quotidiane, siano completamente separati dalla nostra vita. Credo che dovremmo riconsiderare questa separazione. Questo distacco risulta del tutto arbitrario perché qualsiasi atto, per quanto abietto lo si possa considerare e per quanto immense siano state le sue conseguenze, è partito da piccole cose, da piccoli aspetti sottovalutati, da piccole disattenzioni, da piccole mancanze di rispetto nel quotidiano e che hanno, giorno dopo giorno, costruito una realtà ben più grande.
Ed è a questo livello che dobbiamo intervenire per riconoscere la nostra banalità del male: dobbiamo allenarci a riconoscere i segnali, le disattenzioni, il menefreghismo, la sopraffazione che quotidianamente si affacciano nella nostra vita. E siamo sempre noi il punto di osservazione migliore dal quale partire: siamo noi che dobbiamo stare attenti alle nostre intolleranze, alle nostre invidie, alla nostra noncuranza per il prossimo, alle nostre piccole e continue cattiverie. Perché solo conoscendo queste parti di noi è possibile integrarle con le parti più accoglienti, tolleranti, comprensive e generose. Ed è grazie a questa integrazione che può esserci un equilibrio tra le nostre varie parti.
È questo, secondo me, un grande passo verso la consapevolezza di se stessi, consapevolezza il cui fine ultimo è l’accettazione di ogni parte di noi, anche quelle che non ci piacciono, parti di noi che, se non comprese e assimilate, costituiscono l’humus ideale per fatti di portata e rilevanza storica ben più ampia.
Che ne pensate?
A presto…
Tutti i diritti riservati