Shame

ShameIl post di oggi riguarda un film che riassume perfettamente l’ossessione che ormai la nostra società ha per il sesso. Il film in questione si intitola Shame (2011) ed è del regista Steve McQueen. Il film racconta la storia di Brandon, uomo d’affari newyorchese con un ossessione per il sesso, declinato in tutte le sue varie forme: incontri occasionali, a pagamento, fino ad arrivare a rapporti omosessuali. Quello che colpisce, però, è che in una società che offre sesso sempre più disponibile, visibile, raggiungibile,  il protagonista sia sempre più solo e incapace di stabilire delle relazioni durature con altre persone. In primis la sorella Sissy che, apparentemente insicura e fragile, cerca di stabilire una relazione con lui senza riuscirci. Questa mancata relazione avrà delle conseguenze sulla vita del protagonista ma, come al solito, non voglio svelarvi altro.

Come vi dicevo, il punto secondo me nodale del film riguarda le relazioni. In un momento storico nel quale abbiamo moltissimi strumenti che sembrano favorire ed incentivare  la nascita dell’incontro o la possibilità di una relazione, sembra invece che manchi questa possibilità e che ci si trovi sempre più soli e incapaci di un contatto che possa dirsi profondo. L’offerta abbondante di relazioni occasionali sembra rendere in qualche modo difficile il costruire una relazione stabile e duratura, finanche relazioni riguardanti membri della nostra stessa famiglia. E, nel momento in cui il rapporto si fa stretto e la relazione sembra assumere un carattere più duraturo, le difficoltà relazionali  tornano a galla.  Nel film è emblematica, a questo proposito, la scena nel quale Brandon ha un rapporto con una persona che sembra veramente interessata a lui.

Lo sconforto per questo turbinio di incontri induce il protagonista ad alzare sempre di più il tiro, come in una sorta di escalation che sembra poterlo condurre ad una relazione più matura. Ma questo non avviene, è tutto sembra vertere sull’ossessione, ossessione che sembra non lasciare spazio per nient’altro nella sua vita. La sveglia suona nel momento in cui la sorella cercherà di fargli capire quanto il rapporto tra loro due sia fondamentale per lei, consapevolezza che cambierà la percezione di Brandon per questo tipo di vita che viene rispecchiato nella differenza di sguardo del protagonista per una donna conosciuta in treno. E’ un film freddo, algido anche nei colori, assenza che cerca di rendere visivamente la freddezza di una vita che rispecchia, forse, la mancanza di contatto, di relazione con la persona che ci sta più vicino: noi stessi. 

A presto…
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Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (1)

Perché sembra che i ragazzi 'peggiorino' nelle scuole medie (1)L’idea per questo post mi è stata data da alcuni genitori che inevitabilmente mi chiedevano perché il loro apparentemente perfetto figlio si fosse trasformato all’ingresso della scuola media. Nelle loro descrizioni era come se il loro figlio (o figlia naturalmente) all’ingresso nella scuola media, quindi tra gli undici e i tredici anni, fosse, come in una sorta di maledizione, condannato a cambiare diventando molto diverso rispetto a come era stato durante le scuole elementari. La domanda, inevitabilmente, è sorta spontanea: che succede ai ragazzi quando entrano nella scuola media? Per aiutarci a capire a cosa possa essere dovuto questo ‘peggioramento’, ho trovato un brano che credo possa illustrare molto bene alcune delle dinamiche che possono portare a questo: 

I problemi più seri iniziano con l’ingresso nella scuola secondaria di primo grado (l’ex scuola media) perché ‘tutti’ da capaci tornano ad essere ‘meno capaci’. Mi spiego. Se la scuola proponesse un percorso che non avesse come obiettivo primario l’apprendimento, tutto sarebbe più semplice: ognuno farebbe quel che sa fare e tutti viaggeremmo senza la necessità di sopportare la frustrazione del non saper fare. in fin dei conti l’apprendimento pone sempre questo problema: appena hai imparato qualcosa di nuovo, un docente ‘rompe’ e ti chiede quello che ancora non sai, quasi una sorta di perfidia che si accanisce contro l’alunno. Ognuno giustamente reagisce come può! Che cosa succede effettivamente! Che ciò che ti ha reso capace alla fine di un percorso quinquennale di scuola primaria (e rende tranquillo il genitore…) in poco tempo svanisce: le richieste tornano ad essere ‘incomprensibili’ come quando avevi iniziato in prima elementare e ti sembra di stare in un ambiente che parla un’altra lingua, fa strane richieste e s’inalbera perché tu, studente cresciuto, non sai dare risposte adeguate, più mature, più adatte alle classi che frequenti. Ma cosa hai imparato nei precedenti anni scolastici? Forse cose troppo elementari, nemmeno insegnate troppo bene e valutate… troppo ‘ottimamente’: al massimo sarai stato uno studente da ‘buono’. Che cosa succede in questa fase della vita delle persone?

  • Per gli alunni: si deve ricominciare, si deve tollerare di non capire subito, si deve sopportare che qualcuno ti metta in difficoltà e che spacci tutto questo come necessario per condurti ad un livello superiore di capacità critica, di ragionamento logico.
  • Per i docenti: la preoccupazione che la sfida assunta con il proprio lavoro non dia risultati perché accompagnare ‘questi mocciosi’ a diventare persone che ragionano è veramente dura e… c’è poco tempo, non sanno fare, sono distratti, sono ancora troppo bambini, vogliono giocare, i genitori demandano tutto alla scuola e così via.
  • Per i genitori: l’intemperanza preadolescenziale comincia a farsi sentire e le contrapposizioni iniziano ad apparire, lasciando disorientati i più, che avevano goduto dei successi, non solo scolastici, di un figlio bravo e rispettoso… Per quanto pronti ad affrontare i problemi legati alla crescita, non si è mai così pronti a sopportare  l’idea che nostro figlio rischi di diventare uno che si perde, che va male a scuola, che devia dalla norma! [1]
Secondo l’autrice l’idea del peggioramento sarebbe dovuta al senso di inizio che i ragazzi hanno all’entrata nella nuova scuola. Le competenze che pensavano fossero maturate nelle scuole elementari si rivelano nuovamente inadeguate.

– Continua –

[1] Rosci, M. (2009), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pp. 88-89

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Succede…

Succede...Succede. Ogni tanto succede. Ogni tanto succede che un Paese faccia passi avanti verso una ‘normalità’ da molti agognata e percepita come non più rinviabile. Talvolta succede anche in Italia. Peccato che, come spesso avviene, questo passo avanti venga fatto dalle sentenze, perché la classe politica, così spesso indegna rappresentante di questo Paese, non sia ancora riuscita a dare un benché minimo indirizzo sociale a cambiamenti che ormai avvengono da tempo. Di cosa sto parlando? Della ormai famosa, per molti famigerata, sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce come, in una causa per l’affidamento di un figlio, il fatto che la mamma conviva con una donna, sua compagna, non costituisca motivo per negarle la custodia e anzi, riconosce che sia fondamentalmente un pregiudizio” il fatto che “sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”. Vi rinvio a questo link per una lettura dell’articolo apparso sul sito di Repubblica. La corte riconosce così che non ci sono gli strumenti per affermare che un bimbo con una coppia di genitori dello stesso sesso stia ‘peggio’ che in una coppia eterosessuale. E aggiungo che non ci sono gli strumenti neanche per affermare che, altro pregiudizio da sfatare, i figli di una coppia omosessuale crescano inevitabilmente con problemi di identificazione, avendo entrambi i genitori dello stesso sesso, che diventino cioè da grandi omosessuali a loro volta. Anche perché, se la stessa logica ferrea fosse applicata su coppie eterosessuali, non si capirebbe come da coppie eterosessuali nascano figli omosessuali. Naturalmente è partito l’apriti cielo da tutte quelle associazioni che si battono per il riconoscimento di un unico assetto familiare e che non riescono neanche a contemplare le diverse sfaccettature che i rapporti tra le persone possono avere. Anche questa volta capofila della battaglia contro, è stato il Vaticano che, con la consueta attenzione, delicatezza, rispetto e riguardo per la vita delle persone coinvolte in vicende simili, per bocca di un suo alto rappresentante arriva a dire che ‘l’adozione dei bambini da parte degli omosessuali porta il bambino a essere una sorta di merce’ ( Vincenzo Paglia, presidente del dicastero vaticano per la famiglia, arcivescovo, Corriere della Sera, 13.01.13). A parte che non si capisce per quale motivo i bambini diventino merce in caso di affidamento a famiglie omosessuali, specificamente nel caso in questione, ci si è concentrati  sul fatto che il padre del bambino fosse così inaffidabile che la Corte abbia scelto il ‘male minore’. E’ una bugia.

La Cassazione non ha optato per il male minore ma ha compiuto una scelta strategica basata sulla prospettiva migliore per il ragazzo, decretando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno come  non ci sono certezze scientifiche a questi preconcettiAnzi a dire il vero esiste ormai una mole molto ampia di studi [1] che dimostra esattamente il contrario, e cioè che non esistono differenze nello sviluppo di bambini in coppie eterosessuali od omosessuali a nessun livello. Eppure non succede così spesso che questo sia un tema che la nostra classe politica abbia il coraggio di affrontare. E anche adesso, che ci ritroviamo sotto elezioni, e dovremmo prendere una decisione su chi guiderà questo paese, non sentiamo mai come intendono affrontare e risolvere alcuni temi di natura sociale che, accantonati o ignorati da troppo tempo, non possono essere più rinviati ne prorogati. Sappiamo tutto di spread, tasse, tassi, riforme fiscali ma un Paese non è solo economia. Certi temi devono semplicemente essere affrontati, devono essere prese delle decisioni che, mettendo da parte inutili e screditati pregiudizi e affrontando il tema da un punto di vista civile e maturo come questo Paese si vanta, spesso a torto, di essere, possa portare al riconoscimento dei diritti non solo dei minori, ma di migliaia di persone per le quali questa non è una battaglia di buone intenzioni ma riguarda la stessa vita, la sua organizzazione e il suo significato. Deve essere sanata una situazione che non può più essere tollerata. E sarebbe necessario che venisse affrontata dalla nostra classe dirigente, i nostri rappresentanti e non tramite sentenze e ricorsi. A volte succede che un Paese faccia passi verso la civiltà. A volte succede che un Paese faccia delle cose per TUTTI i suoi cittadini. A volte succede che i pregiudizi vengano abbattuti. A volte succede. Vorrei che succedesse decisamente più spesso.

 A presto…

Fabrizio

[1] Per chi volesse approfondire il tema, consiglio la lettura dell’esaustivo libro di Cristina Chiari e Laura Borghi (2009), Psicologia dell’Omosessualità, Carocci.

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Simpsonterapia…

Simpsonterapia...Il post di oggi è tanto una provocazione quanto una chiave di lettura. Vorrei riflettere con voi sulle infinite possibilità di lettura che abbiamo della realtà che ci circonda. Quella che vi propongo oggi riguarda una di queste realtà ed è sotto gli occhi di tutti. Mi riferisco alla sigla di apertura del famoso cartone animato I Simpson in onda regolarmente da anni in Italia. Per chi non lo conoscesse il cartone (ma è un termine assolutamente riduttivo!) narra le strampalate vicende di una famiglia media americana e di tutti i possibili intrecci che la vita di queste persone può avere quotidianamente. Il programma si apre, appunto, con una sigla che apparentemente non dice molto su quello che state per vedere dato che fornisce una rapida carrellata dei personaggi della serie: vediamo Homer, il capofamiglia, che lavora in una centrale nucleare, la madre Marge impegnata a fare la spesa con la figlia piccola Maggie, il primogenito Bart che esce da scuola e va sul suo amato skateboard e Lisa impegnata nelle prove della lezione di musica. Ora, apparentemente, nulla di che. In realtà vorrei cercare di dimostrarvi quanto siamo circondati da livelli di complessità che si tratta solo di cogliere. La sigla, spesso non trasmessa o trasmessa tagliata è un capolavoro di complessità crescente e di simbolismo e contiene temi notevoli. Si apre con una visione dall’alto di Springfield, la media cittadina americana dove vivono i Simpson. Questa cittadina è sovrastata dalla onnipresente centrale nucleare. Sembra possibile una prima lettura simbolica: tutto è sovrastato dal potere economico e dalla possibiltà di poterci fare affari. La sigla procede con una inquadratura sulla scuola elementare dove, immancabilmente Bart, noto per non essere troppo tranquillo, sta scontando la sua punizione scrivendo centinaia di volte la stessa frase sulla lavagna. La frase che scrive è sempre al negativo. Non appena suona la campana di fine delle lezioni Bart farà immancabilmente l’esatto contrario di quanto ha appena scritto. Seconda lettura: quanto è utile un sistema scolastico impeganto solamente nel reprimere piuttosto che nel comprendere? Andiamo avanti: Homer sta armeggiando con una barra di plutonio nella centrale nucleare. Appena suona la fine del turno, si volta e se ne va come se quello che stava facendo non lo riguardasse più. Terza lettura: che sistema di lavoro può essere quello nel quale la responsabilità del singolo sembra non esistere? Accade, però, che la barra gli si attacchi addosso, ma torneremo su questo aspetto più avanti. La sigla prosegue facendoci vedere Marge e la piccola Maggie alla cassa del supermercato intente a pagare la spesa. Marge è chiaramente distratta dal fatto di leggere una rivista in cui si parla di come essere madri e, mentre sta leggendo non sta più badando a cosa succede a Maggie che, nel frattempo, viene presa e passata sul lettore ottico della cassa che, paradossalmente, le attribuisce un prezzo. La scena è emblematica per diverse ragioni: rappresenta quanto spesso siamo impegnati più a pensare alle cose piuttosto che a farle e quanto nella nostra società abbiamo ormai mercificato tutto. La sigla va avanti seguendo un altro personaggio: Lisa. La vediamo nella sua classe di musica, intenta a suonare il suo amato sax, ma nel non seguire alla lettera gli altri, il gruppo, suscita la riprovazione del suo insegnante. Anche questa scena è fortemente simbolica: vi troviamo una forte critica ad un sistema scolastico omologante e per niente capace di far risaltare le diversità individuali. Nello stacco successivo ritroviamo Homer: sta tornando a casa in macchina ma c’è qualcosa che lo infastidisce: la barra di plutonio nella schiena! Senza pensarci la prende e la butta all’esterno della macchina dove finisce per essere presa da Bart che sta tornando a casa sul suo skateboard. Da una parte scorgiamo l’irresponsabilità di un padre che ricade sul figlio (che potrebbe essere estesa, generazionalmente, nell’irresponsabilità dei comportamenti di una generazione che ricadono su quella successiva), dall’altro sempre la deresponsabilizzazione del singolo che sembra interessato solo al suo benessere e non a quello della collettività Anche se alla fine la collettività verrà rappresentata dal suo stesso figlio. Tanto per ricordarci che anche noi siamo ‘gli altri’ per qualcuno! Nella scena successiva abbiamo Marge e Maggie in macchina, stanno rientrando a casa: Marge suona il clacson e lo fa di rimando anche la figlia con il suo volante giocattolo. Il messaggio qua è chiarissimo: i figli crescono per imitazione, ci guardano e imparano come comportarsi e, volendo estendere il discorso, bisognerebbe stare attenti ai modelli imitativi che gli si offrono. Alla fine di una carrellata velocissima in cui compaiono moltissimi personaggi della serie (messaggio: viviamo in società!) i cinque si incontrano nella scena cult del divano che termina con una gag ogni volta diversa dalla precedente.

Insomma si tratta, a mio avviso, di un piccolo trattato di sociologia in appena un minuto di apparente cartone animato. Possiamo smettere di semplificare le cose: la complessità è intorno a noi. Dovremmo solo impegnarci a leggerla.

A presto…

Fabrizio

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Hunger games

Hunger gamesIl film del quale voglio parlarvi in questo post è Hunger Games (Gary Ross, 2012) ed è il primo episodio di una trilogia basata sui romanzi della scrittrice Suzanne Collins. Il film in questione fu bollato (non vi nascondo anche dal sottoscritto), come l’ennesima trilogia commerciale destinata ad un pubblico di adolescenti o post adolescenti. In realtà avendolo visto, mi sono decisamente dovuto ricredere sia sul contenuto, sia sul messaggio implicito del film. La trama per chi non la conoscesse è questa: il mondo come lo conosciamo oggi non esiste più. L’angolo di mondo che vediamo è una sorta di mondo postapocalittico, ripiombato in una specie di moderno medioevo. Si intuisce che il paese in questione siano gli Stati Uniti dato che la città in cui si svolge la vicenda è una non precisata Capitol City. La città è attorniata da 12 distretti, ribellatisi e sconfitti che ora, per punizione, versano ciascuno ogni anno un tributo umano: un ragazzo e una ragazza che, estratti a sorte si devono sfidare tra loro finché uno solo non uscirà vincitore e diventerà il vincitore appunto degli Hunger Games, trasformandosi in un eroe per la comunità dal quale proviene. La trama apparentemente semplice, è in realtà secondo me particolarmente simbolica e molto precisa nel descrivere quello che avviene ora in qualsiasi reality show vada in onda. Il riferimento che mi viene più immediato è con il meccanismo del reality show più famoso, il Grande Fratello. Sostanzialmente questo tipo di gioco è basato sul privilegiare tutti gli aspetti più bassi e deleteri delle persone: opportunismo, cinismo, narcisismo, sprezzo dei rapporti, trasformismo, doppiogiochismo, false alleanze e false amicizie basate essenzialmente sul durare di più nel gioco, un gioco che viene venduto come pulito ma che in realtà viene, per motivi di trama, montato e pilotato dagli autori a seconda di ciò che il pubblico chiede. Questo avviene anche nel film, dove, la storia d’amore tra i due protagonisti sembra costruita essenzialmente per fini ‘commerciali’.

Ma le analogie non finiscono qua. Tutta la preparazione, soprattutto quella in cui vengono costruiti dei veri e propri personaggi ad uso e consumo del pubblico, sembra quella di altri reality. Altro aspetto: i bambini nella società del film, imitano ciò che vedono nell’Hunger Games, compresi gli aspetti più deleteri. Non è quello che succede anche nella nostra società? Anche per noi sembra si privilegino i comportamenti più infimi purché portino ad un qualche risultato, e le cronache politiche di questi tempi testimoniano di quanto quest’uso e costume sia ormai diffuso. Ancora l’assoluta vacuità della società che sta intorno alla costruzione del meccanismo del gioco, interessata solamente ai vestiti e agli abiti e dimentica di quella che sarà la sorte delle persone che si accingono a partecipare al gioco stesso. Non vi suona familiare? Perfino la casa in cui vivono durante il training di allenamento nel film ricorda la casa ipermodaiola, ma sempre terribilmente artificiale, che caratterizza ogni edizione del Grande Fratello. Insomma un mondo che sembra futuro e lontano ma che, se lo si osserva con occhi appena diversi, non sembra molto diverso da quello nel quale, purtroppo, siano pienamente immersi anche noi.

E in tutto questo la frase che mi ha più colpito è quando il presidente Snow, vecchio protagonista, spiega al burattinaio del gioco, Seneca, per quale motivo venga organizzato tutto questo spettacolo anziché prendere semplicemente dei ragazzi e ucciderli per rappresaglia. Lo scopo, spiega il vecchio con disincantato cinismo, è quello di lasciare una speranza, far si che le persone nei vari distretti, tutti apparentemente molto poveri e schiacciati economicamente dalla ricca città (altra analogia col mondo di oggi?) perseguano l’idea che possano cavarsela, possano diventare conosciuti e degli eroi semplicemente per aver partecipato ed essere sopravvissuti ad un gioco. Non è lo stesso meccanismo perverso e voyeuristico che anima i vari reality, nei quali le persone diventano famose per il semplice fatto di esserci? Ed è davvero un peccato che il meccanismo col quale ci sente importanti sia totalmente artefatto e basato sul motto latino mors tua vita mea.

Credo che meritiamo qualcosa di più che pensare che schiacciare l’altro sia l’unico modo per diventare qualcuno nella vita. E credo anche che non  si possano depositare le nostre speranze semplicemente sull’idea di diventare famosi per il semplice fatto di comparire. Tanto meno di diventare famosi a scapito di qualcun altro. E’ necessario riflettere su quanto questo meccanismo apparentemente innocuo e semplice stia stritolando, senza che ce ne accorgiamo, la nostra stessa capacità di pensare le relazioni con gli altri. Insomma, un film che consideravo una semplice operazione commerciale si è, inaspettatamente, rivelato un ottimo spunto di riflessione. 

Nel caso lo vedeste, o lo aveste già visto, fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio

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Da solo o nel lettone?

Da solo o nel lettoneL’articolo che vi segnalo oggi tratta un tema sul quale il dibattito è acceso da sempre e che, non credo, questo articolo contribuirà a fare scemare. Si tratta però, di un interessante punto di vista e vorrei riportarvelo. L’articolo tratta del cosiddetto co-sleeping, cioè l’abitudine di molti genitori di far dormire il proprio figlio nel letto matrimoniale. Per anni si è ripetuto che questo tipo di comportamento non fosse un comportamento corretto né per i bambini, che sembravano non poter sviluppare una propria autonomia nel momento dell’andare a letto, né per la coppia che, con il figlio in mezzo, si vede privata di un momento di intimità per la coppia stessa.

La ricerca, svolta dalla Stony Brook University di New York, e pubblicata su Pediatrics, arriva a risultati diversi e giunge a conclusioni che non sono così contrarie a questa pratica. Il risultato sembra essere che abituare i bambini a dormire tra le lenzuola che odorano di mamma e papà non comporti per loro alcun effetto collaterale. (…) Lo studio ha preso in esame 944 coppie non abbienti con un figlio di un anno, monitorandone nel lungo periodo la situazione psicologica e le abitudini legate al sonno. Dai dati è emerso che i bambini che avevano dormito nel lettone avevano raggiunto lo stesso livello di sviluppo comportamentale e cognitivo di quelli che avevano sempre dormito da soli. 

Come per tutte le cose, potrebbero essere evidenziati aspetti positivi e negativi in entrambe le situazioni. Il far dormire il bambino nel lettone secondo alcuni pediatri avrebbe risvolti positivi dal momento che favorirebbe il rapporto del bimbo coi genitori e ne farebbe avvertire la vicinanza. Dormire da soli, sopratutto per il modo in cui viene gestita la ‘separazione’ del bimbo dai genitori, può portare invece a sviluppare paure (del buio, di esser soli, di essere abbandonati…) che potrebbero avere ripercussioni sul bambino stesso. Come detto il far dormire il bimbo nel letto dei genitori priva la coppia stessa di un momento e di uno spazio suo che andrebbe invece, gestito e calibrato meglio, soprattutto nel momento in cui il nuovo arrivato può far saltare i delicati equilibri su cui la coppia stessa si regge. Credo che la linea guida da seguire sia, come al solito, il buon senso. Non credo esistano ricette adatte per ogni situazione e per ogni famiglia. Ci sono diverse esigenze che andrebbero considerate (bambino/coppia) e non necessariamente, se non apparentemente, in antitesi. 

L’articolo è di Repubblica (25.07.11) ed è a firma di Sara Ficocelli. Il link:

http://www.repubblica.it/salute/ricerca/2011/07/25/news/nessun_danno_se_il_bimbo_dorme_nel_lettone_dalla_scienza_via_libera_al_co-sleeping-19597348/ 

Sarebbe interessante poter condividere le vostre esperienze in merito!

A presto…

Fabrizio

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La guerra di Mario

La guerra di MarioIl post di oggi tratta di un film intitolato La guerra di Mario (2005) del regista Antonio Capuano. Il film narra la storia del piccolo Mario, nove anni, bambino che proviene da uno dei quartieri più problematici di Napoli, Ponticelli, che viene portato via alla famiglia nel quale è nato e affidato dai servizi sociali e dal Tribunale dei Minori ad un’altra famiglia. La mamma naturale, Nunzia, ha altri sei figli, convive con un uomo del quale si intuisce che uno dei linguaggi preferiti sia quello violento. Il film è giocato sui contrasti a cominciare dal contesto di origine e quello affidatario del bambino. Tanto la famiglia di origine di Mario sembra popolare e povera di strumenti, quanto quella affidataria appare borghese e ricca di vari stimoli. Il film si concentra essenzialmente sull’inserimento del ragazzo nel nuovo contesto, un inserimento che, data la distanza con il luogo d’origine, non sembra per niente facile. I genitori affidatari sono Giulia e Sandro. Se Giulia sembra completamente assorbita dal ruolo di madre e cerca di andare incontro a Mario in tutti i modi, Sandro invece ha difficoltà a relazionarsi con lui, non riesce a parlarci e anche Mario non sembra desideroso di farlo. L’impressione è che la coppia cerchi in lui un collante per il loro rapporto e che Mario, invece che assolvere a questo compito, si infili nelle crepe della loro storia e che, frapponendosi tra loro, crei una distanza non più colmabile. I ruoli sembrano giocare una funzione fondamentale per tutti loro: Giulia vuole essere la madre perfetta, la madre che con le sue mille attenzioni, può far recuperare tutte le infinite privazioni che il bambino sembra avere subito nella sua giovane vita. Sandro, convinto che Mario sia cresciuto in un contesto che lo ha segnato, prova ad avvicinarsi a lui ma con la convinzione che il piccolo ormai non possa più cambiare. Mario rimane li, solo, come spesso si vede nel film, con il suo unico amico Mimmo un cane che trova per strada. Il destino del piccolo sembra, perciò, passargli sopra attraverso le molte figure che si avvicendano nella sua vita: i genitori naturali, quelli affidatari, la scuola, i servizi sociali e il tribunale. Come spesso avviene in queste storie, soprattutto nel caso di giovani problematici, le origini sembrano essere una colpa difficilmente espiabile. Mario, nel film, vive nel frattempo tutta una sua guerra interna, non dichiarata e non cessata, nella quale non si capisce se racconti cose che ha vissuto o che ha solo sentito raccontare. Questo non fa differenza perché quella guerra e quei ricordi sono dolorosamente reali per lui. Dolorosamente reali per una persona che dice di aver dovuto bere latte e polvere da sparo per essere svezzata.

All’interno di questa guerra, interna ed esterna a Mario, forse solo Giulia si accorge di quanto il bambino non abbia bisogno di essere educato ma di essere accolto. Accolto in una vita nuova, in una nuova famiglia, in un nuovo mondo che sembra volerlo inquadrare senza neanche guardarlo.

La cosa che mi colpisce, e che viene evidenziata tutte le volte che Mario attraversa la strada, è come non riesca a distinguere il rosso dal verde nei semafori. Forse è daltonico, ma nessuno sembra accorgersi di questo. Ed è facile vedere l’alta simbologia di questo aspetto, in una storia in cui nessuno sembra essere in grado di vedere il colore delle persone che gli stanno intorno.

Il film apre una finestra su un mondo doloroso e incerto, in cui non sembrano esistere premesse o conclusioni facili, in cui non sembrano possibili scorciatoie o rapide soluzioni. Un mondo dove sembra vero quello che dice Giulia: l’unica libertà è l’intelligenza solo che è difficile stabilirne i limiti.

Un film molto bello che consiglio a chiunque voglia dare un’occhiata a cosa può voler significare accogliere un bimbo nella propria vita.


A presto…

Fabrizio

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‘Amici’ su Twitter…

Amici su Twitter...Questa riflessione nasce dall’osservazione che sempre più persone interagiscono tra loro tramite l’utilizzo o la mediazione dei social network che, ogni giorno di più, ingrossano le fila dei loro utilizzatori. Chi di noi non è iscritto in uno dei numerosi social network? Chi di noi non trova agevole fare amicizia su internet? Perché sembra sempre più facile fare questo tipo di amicizie e coltivarle rispetto e, a volte a discapito, delle amicizie reali? Cosa si nasconde dietro questo mondo che si ingrossa sempre di più di persone, di storie e che abusa di termini con i quali, un tempo, definivamo i rapporti con gli altri?

La vera questione di questo tipo di rapporti riguarda il fatto stesso che si possano definire amicizie. L’amicizia nasce (nasceva?) dalla conoscenza diretta con la persona, dalla condivisione di una parte importante della nostra vita (la scuola, le vacanze, un viaggio) e permetteva di inserire quella persona in una cerchia ristretta di conoscenze con le quali potevamo dire di sentirci vicine. Tutto questo è stato rivoluzionato dall’avvento e dal concetto che dell’amicizia danno i social network. L’amicizia sembra, in questo caso, legata più al numero delle persone che si ‘conoscono’, piuttosto che dalla reale interazione che poi si ha con queste stesse persone. Per molte di loro è importante avere un gran numero di amicizie, senza che ci si curi minimamente di cosa voglia dire avere queste ‘amicizie’. E qui entra in gioco uno dei fattori che hanno favorito la diffusione di questo tipo di reti: il contatto con l’altro. Se è vero che le persone che vengono conosciute su questi nuovi media non possano dirsi amiche, è anche vero che viene favorito uno scambio continuo tra persone che difficilmente si sarebbero potute incontrare nella vita. Questa quantità di rapporti non può essere confusa, però, con la qualità. E, secondo me, non è vero che tendono a favorire i confronti perché generalmente le persone si circondano di contatti che abbiano interessi simili ai loro, non favorendo un contatto tra persone che possono pensarla diversamente.Tanto che, spesso, qualunque discussione degenera facilmente nell’insulto. Questa parentesi ci porterebbe lontano: ho affrontato questo tema nel post Perchè siamo così aggressivi su internet pubblicato l’11.09.12. Tornando a noi, credo che la proliferazione di questi luoghi di incontro virtuali nasca anche dalla difficoltà che si ha nello stabilire rapporti reali e dalla facilità con cui, invece, questi rapporti possono essere gestiti su internet. Mi spiego meglio: un’amicizia può essere anche un’esperienza faticosa: il nostro amico può richiedere un’attenzione o un impegno che noi, sempre presi dalle mille corse quotidiane, possiamo sempre più raramente permetterci di concedergli. O che non vogliamo concedergli. Un’amicizia su internet può essere molto più facilmente gestita spesso senza nessun coinvolgimento diretto tra le persone. Se ci pensiamo, si tratta di condividere un link oppure metter un ‘mi piace’ su qualcosa postato da qualcuno. Un altro aspetto che entra in gioco nel successo di questo tipo di contatti ha a che fare con la possibilità di investire poco della nostra personalità nella relazione stessa. L’immagine che noi diamo di noi stessi sui social network è molto edulcorata, e può non rispondere al vero per moltissimi aspetti. Ovviamente, questo è un problema che può colpire anche una relazione ‘reale’ dato che possiamo mentire ed essere poco sinceri su noi stessi. In una relazione ‘reale’, però, il gioco è molto più dispendioso e, se la conoscenza continua, può difficilmente essere mantenuto a lungo a costo della relazione stessa. In un rapporto virtuale, invece, questo gioco può andare avanti per parecchio se non caratterizzare l’intera durata della ‘conoscenza’. Non fraintendetemi, non sto dicendo che i social network siano dannosi o che non costituiscano nulla di valido. Sono una realtà con la quale confrontarci e che ormai permea gran parte della nostra stessa quotidianità.

La riflessione voleva arrivare a chiarire quali possano essere le differenze tra una relazione nella quale giochiamo per intero e una relazione che ci può far giocare solo in minima parte. Forse è vero che entrambi siano relazioni. Ma non so se per una delle due possa essere esplicativo il termine amicizia.

A presto…

Fabrizio

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Gli articoli del blog sul vostro ebook…

Gli articoli del blog sul vostro ebook...Questo post illustra un servizio pensato per tutti coloro che, come me, leggono spesso articoli o documenti a cui sono interessati sul proprio ebook. Per questo motivo ho pensato di convertire tutti gli articoli del blog in formato PDF, di modo che possano essere caricati più facilmente dai vostri lettori.

Come funziona il tutto? Il modo che descriverò è quello che funziona per l’ebook più diffuso, il Kindle di Amazon. Se avete un altro tipo di ebook, vi consiglio di consultare le istruzioni fornite al momento dell’acquisto o reperibili su internet specifiche per il vostro lettore. Il punto da cui partire è l’apertura del file al quale siete interessati.  Dopo averlo selezionato dall’elenco, per aprire un file dovete semplicemente cliccarci sopra e, una volta aperto, salvarlo. Dopo averlo salvato, potete procedere in questo modo:  una volta registrati sul sito di Amazon (seguite, per questo, le istruzioni sulla guida presente sul Kindle stesso), aprite la vostra email personale, scrivetene una nuova, mettete come destinatario l’indirizzo email che è stato generato al momento della registrazione su Amazon, allegate i file che volete mandare sul Kindle e mettete, come oggetto della mail il testo CONVERT. Vi assicuro che è più difficile da scrivere che da fare! Dopo di che riceverete, quando il vostro ebook si trova connesso ad internet, l’articolo pronto per essere letto comodamente quando ne avete l’opportunità. Insomma, un modo nuovo di fruire della possibilità di poter leggere quello che più vi interessa. Cliccando sul link in arancio di sotto, sarete reindirizzati alla pagina del sito www.lopsicologovirtuale.it sul quale trovare la lista di tutti gli articoli. Verranno aggiornati a brevi intervalli quindi potete controllare di tanto in tanto le nuove uscite.

Il link è presente, comunque, alla fine della pagina ATTIVITA’  STUDIO e sulla barra laterale a destra sotto la voce ‘SCARICA IL PDF DEGLI ARTICOLI DEL BLOG’.

Vi lascio con il link sul quale cliccare:

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Fatemi sapere che ne pensate!
A presto…

 

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La gioco-dipendenza…

La gioco-dipendenza...L’articolo del quale voglio parlarvi oggi riguarda una realtà che è sotto gli occhi di tutti noi. Mi riferisco all’aumento spropositato di persone che soffrono di disturbo da gioco, vera e propria nuova mania nazionale aggravato, per molti, anche dalle condizioni economiche di questo periodo. Ma andiamo con ordine. Secondo la Alea, associazione per lo studio del gioco, sarebbero mezzo milione le persone che avrebbero un rapporto patologico con il gioco. Ci si riferisce a persone che non sono in grado di controllare l’impulso di giocare, che non sono in grado di smettere autonomamente e che sono in grado, invece, di passare ore e ore di fronte a macchinette o giocarsi l’intero stipendio (o pensione) nella speranza di poter guadagnare qualcosa. Di questi 500.000 ben 100.000 sarebbero minorenni, persone che non potrebbero neanche giocare. Non ci si deve stupire di questi numeri: i minorenni vengono iniziati al gioco tramite delle apparentemente innocue applicazioni che spopolano, per esempio, su Facebook. Questi giochi, anche se apparentemente non sono dannosi perché non si vince o non si perde nulla se non ‘soldi virtuali’, in realtà sono potenzialmente molto distruttive nel momento in cui iniziano ad innescare nel minore sia la comprensione che la passione per il gioco fine a se stesso. Quel minore sarà, poi, un adulto che conoscerà non solo tutte le regole del gioco ma avrà provato l’ebbrezza di vincere e perdere virtualmente. Il salto nel reale è solo l’ultimo passo per una dipendenza coltivata da anni.

Parlando di gioco, non stiamo parlando, ovviamente, solo di macchinette o poker, ma di tutti quei mille modi con cui le persone tentano la fortuna in Italia: gratta e vinci in primis. Ormai sono talmente diffusi che sembra impossibile uscire da un negozio qualunque senza averne giocato almeno uno. Promettono premi sempre più grossi e alcuni propongo dei veri e propri vitalizzi. La tentazione si fa sempre più grossa sopratutto per quelle fasce sociali che, invece, hanno sempre più difficoltà ad arrivare a fine mese. Non stupisce, allora, come tra le categorie di giocatori più a rischio vengano citati pensionati, casalinghe, disoccupati, fasce deboli della popolazione e che queste categorie costituiscano addirittura il 40% dei giocatori  più a rischio di sviluppare dipendenza.

Sono dati allarmanti considerato che spendiamo mediamente 8o miliardi di euro all’anno per giochi, gratta e vinci, scommesse e lotterie. Lo Stato è il vero vincitore di questo giro immenso di soldi. Si calcola che incassi all’incirca 20 miliardi di euro l’anno. Prima di pensare che questa cifra giustifichi e spieghi l’investimento, bisognerebbe forse, pensare a tutti i costi, materiali, psicologici, sociali che questo tipo di dipendenza invece comporta per le stesse casse dello Stato. Molte di queste persone, non essendo in grado di uscire autonomamente dalla dipendenza, hanno bisogno di aiuto qualificato e si rivolgono ai servizi psicosociali delle Asl, andando ad aumentare il grado di congestione del servizio stesso. Molti, spinti dal miraggio della ricchezza, si ritrovano ad essere sempre più poveri. In alcune fasce questo potrebbe provocare l’aumento di tensione familiare, coniugale, genitoriale. Sono tutti costi imponderabili, ma che sarebbe bene mettere sul piatto della bilancia. Solo allora risulterebbe difficile lavarsi la coscienza con il ritornello gioca il giusto!

Intanto il link: 

http://www.repubblica.it/salute/2012/03/23/news/giocodipendenza_6mila_italiani_in_cura-32078025/ 

L’articolo è di Repubblica ed è firmato da Caterina Pasolini

A presto…

Fabrizio

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Il calamaro e la balena…

Il calamaro e la balena...Il film che vi voglio raccontare oggi ha un titolo curioso e particolare: Il calamaro e la balena. Il film è del regista Noah Baumbach (2005). Racconta la storia di una famiglia composta da due genitori e due figli maschi che, apparentemente perfetta, viene sconvolta dalla improvvisa separazione dei genitori. Il motivo della separazione dei genitori ha una funzione fondamentale nello scatenare alcune dinamiche della vita familiare stessa: la madre inizia ad avere più successo del padre nel lavoro. Entrambi hanno pubblicato dei libri, ma se il lavoro del padre non sembra riscuotere più molto successo, la pubblicazione della madre invece lo è. Ovviamente, questo sembra il pretesto per dichiarare la fine di una storia che sembrava ormai finita da tempo. La cosa che incuriosisce e che rende interessante il film, sono tutti i meccanismi che vengono utilizzati da entrambi i genitori per cercare di non guardare in faccia la realtà del cambiamento che sta interessando la loro famiglia. Da una parte la donna, che accusa il marito di non essere più stato lo stesso dopo la fine del suo successo creativo. Dall’altro lui accusa la madre di aver ‘distrutto la famiglia’ prendendo una decisione del quale entrambi sembravano consapevoli. In mezzo i figli che, come in ogni buona separazione conflittuale che si rispetti, vengono utilizzati dai genitori come pedine su una scacchiera, e chiamati a schierarsi con l’uno o con l’altro genitore. Il primogenito si schiera col ‘povero’ padre mentre il secondogenito con la madre. Il secondogenito è interessante nella collocazione del film: inizia a mettere in atto azioni sempre più provocatorie man mano che la separazione dei genitori assume contorni sempre più conflittuali. In realtà i suoi atti sembrano più che altro grida di dolore che nessuno sembra in grado di ascoltare. Potrete notare come, in queste scene, il ragazzo sia sempre da solo e non sembri esserci nessuno in grado di avvertire il suo richiamo. In tutto questo la strategia migliore del padre sembra quella di cercare di costruire una sorta di doppione della ex-casa di famiglia che consenta ai figli di vivere al meglio un cambiamento che lui per primo, non sembra in grado di gestire. L’emblema del film è rappresentato dal gatto che è costretto a fare la spola tra una casa e l’altra fino a quando, alla prima occasione fugge da entrambe. Una fuga che il primogenito sembra non riuscire ad attuare.
Insomma, un bel film che vi consiglio di guardare, un film che riesce a descrivere lo sconvolgimento e le strategie che caratterizzano i membri di una famiglia che si trova a vivere un cambiamento del quale avrebbe fatto volentieri a meno ma che non sembrava più rinviabile. Una famiglia che attraversa un momento di passaggio non dissimile da quello che tante famiglie si trovano, per varie ragioni, a dover affrontare. Un film che riesce a descrivere l’inevitabile passaggio che la fine di una relazione può comportare. Un film che potrebbe descrivere, in uno dei personaggi, qualcuno che conoscete in realtà!


A presto…
Fabrizio

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S’ accabadora…

S' accabadora...Il post di oggi riguarda una vicenda della quale ben poco sapevo fino a non molto tempo fa ma che ha forti risvolti con un dibattito in corso attualmente. Pur essendo sardo, non avevo mai sentito parlare della figura de s’accabadora. Per chi non lo sapesse il termine fa riferimento alla persona de s’accabadora, termine che potremmo tradurre con ‘colei che da la fine’, una sorta di incaricata dell’eutanasia delle persone moribonde nei piccoli paesini della Sardegna. Il termine ebbe un risalto nazionale grazie al libro della scrittrice sarda Michela Murgia che, nel 2009, pubblicò un libro dal titolo Accabbadora e che vi consiglio di leggere se voleste saper qualcosa di più sul tema. Ma torniamo a noi. Perché mi sto occupando di questo tema? Il pretesto de s’accabadora è utilizzato per parlare più specificamente dell’eutanasia. Il termine eutanasia composto dal suffisso eu-buona e dal sostantivo tanatos-morte, vuol dire appunto buona morte. Il tema è dibattuto ancora oggi e lo è stato molto in occasioni particolari come la morte di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby. In realtà, il tema dell’accompagnamento delle persone sofferenti alla morte è stato, e la figura dell’accabadora sembra dimostrarlo, sempre presente nella società. Forse era necessaria nelle società pre-mediche, società dove, cioè, la medicina non aveva ancora questa aura salvifica, una figura che fungesse da ‘intermediario’ tra le sofferenze della persona malata, la famiglia e la morte stessa. La funzione di questo tipo di figura era, essenzialmente, quella di dare una degna fine alla vita di un individuo non più in grado di viverla, alleviando non solo le sue sofferenze, anche solo quella di non poter più considerare quella che stava vivendo come Vita, ma anche quella del gruppo familiare e sociale più esteso dato che si doveva comunque fare fronte all’accudimento di una persona non più autosufficiente e per il quale, magari, non c’erano strumenti che consentissero di consentirgli di vivere in maniera decente. Curiosamente, anche dal punto di vista religioso s’accabadora godeva di un certo status, dal momento che, non considerata ‘assassina’, aveva una valenza sociale riconosciuta. Questa premessa dava luogo ad una certa considerazione: prima dell’avvento della medicina di massa, esisteva un forte legame tra la vita e la morte dove la seconda era considerata come necessaria conseguenza della prima. 

Ho l’impressione che noi abbiamo perso tutto quest’insieme di simbolismi e di concezioni sulla morte. Schiavi ormai dell’idea di una medicina onnipotente, prendiamo in considerazione con sempre maggiore difficoltà che ci siano condizioni nelle quali la morte è preferibile ad una non-vita. Convinti fermamente di poter decidere in tutto e per tutto cosa ci possiamo (o no) permettere, siamo accecati da questa apparente onnipotenza. Questa onnipotenza viene meno nel momento in cui potremmo decidere della nostra fine. In questo la società sembra essere molto categorica e si rifugia dietro dogmi religiosi: non si può avere una ‘dolce morte’, partendo dal rispetto dei tempi della morte, perché la vita non è nelle nostre disponibilità e, privandocene, non rispetteremmo il volere di dio. In realtà, a ben pensare, se dovesse essere rispettato il volere di dio probabilmente bisognerebbe spegnere le apparecchiature che, artificialmente, tengono in vita le persone grazie al mantenimento, sempre artificiale, di tutte le funzioni vitali più importanti.

Chi non rispetta allora il volere di dio? E ancora più paradossale sembra essere il fatto che siamo privati della possibilità di decidere sulla nostra morte anche se la nostra palese volontà è quella di far terminare la vita al di là di qualsiasi accanimento terapeutico. E tutto ciò avviene in una società che apparentemente spinge a pretendere indipendenza e poi la nega sulle scelte di vita più intime e private. Solo a me pare un enorme contraddizione?  

Perché è andato perso il valore sociale della possibilità di porre fine alla nostra vita? Sembra come se, una volta che venisse tenuto in vita a qualsiasi costo, la persona stesse ‘vivendo’. Forse dovremmo necessariamente partire da questa accezione meccanica della vita (la mia vita è respirare o io sono qualcosa di più del mio solo battito cardiaco?) per cercare di riconsiderare il senso intero della nostra esistenza.

Non vorrei che, ottenebrati dalla possibilità di vivere ‘per sempre’, non finissimo davvero per considerare vita il solo respirare.

A presto…

Fabrizio

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InVita laVita

InVita laVitaSono lieto di comunicarvi che ho iniziato la collaborazione con la onlus InVita laVita, associazione di Cagliari che si occupa del supporto di persone colpite da tumore. Il progetto, ha come scopo quello di dare sostegno e armi, in un momento di debolezza e disorientamento, alle persone che sono state colpite dal cancro, tra le malattie la più terrorizzante. Scopo dell’associazione è quello, dunque di fornire un supporto alle persone che vengono colpite da questo tipo di malattia o naturalmente, ai familiari. Il metodo che viene utilizzato è fondamentalmente quello dell’auto aiuto, basato sul meccanismo che persone che stanno vivendo, o hanno vissuto situazioni di vita simili, adeguatamente formate, facciano da sostegno e da supporto per persone che stanno entrando in questo tipo di situazioni. L’associazione è costituita ed è coadiuvata da una molteplicità di figure professionali che si occupano, ognuno con la propria professionalità, nel supportare le persone colpite dalla malattia.

Trovo che questa iniziativa sia non solo un ottimo modo per sostenere le persone in un momento di difficoltà, ma un ottimo modo per far si che la propria professionalità vada incontro alle esigenze della collettività. Ho, per questi motivi aderito alla proposta fatta da una delle socie fondatrici, la dottoressa Manca, e ho messo a loro disposizione la mia competenza, la mia attenzione e il mio tempo.

Chi fosse interessato alla tematica e si sentisse portato a partecipare, può, per maggiori informazioni o chiarimenti, contattare direttamente l’associazione al numero: 333 4303672 oppure attraverso mail invitalavita@gmail.com. Spero che ognuno di noi possa, per quanto gli è possibile, partecipare a questo splendido progetto.

A presto…

Fabrizio

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