Hunger games

Hunger gamesIl film del quale voglio parlarvi in questo post è Hunger Games (Gary Ross, 2012) ed è il primo episodio di una trilogia basata sui romanzi della scrittrice Suzanne Collins. Il film in questione fu bollato (non vi nascondo anche dal sottoscritto), come l’ennesima trilogia commerciale destinata ad un pubblico di adolescenti o post adolescenti. In realtà avendolo visto, mi sono decisamente dovuto ricredere sia sul contenuto, sia sul messaggio implicito del film. La trama per chi non la conoscesse è questa: il mondo come lo conosciamo oggi non esiste più. L’angolo di mondo che vediamo è una sorta di mondo postapocalittico, ripiombato in una specie di moderno medioevo. Si intuisce che il paese in questione siano gli Stati Uniti dato che la città in cui si svolge la vicenda è una non precisata Capitol City. La città è attorniata da 12 distretti, ribellatisi e sconfitti che ora, per punizione, versano ciascuno ogni anno un tributo umano: un ragazzo e una ragazza che, estratti a sorte si devono sfidare tra loro finché uno solo non uscirà vincitore e diventerà il vincitore appunto degli Hunger Games, trasformandosi in un eroe per la comunità dal quale proviene. La trama apparentemente semplice, è in realtà secondo me particolarmente simbolica e molto precisa nel descrivere quello che avviene ora in qualsiasi reality show vada in onda. Il riferimento che mi viene più immediato è con il meccanismo del reality show più famoso, il Grande Fratello. Sostanzialmente questo tipo di gioco è basato sul privilegiare tutti gli aspetti più bassi e deleteri delle persone: opportunismo, cinismo, narcisismo, sprezzo dei rapporti, trasformismo, doppiogiochismo, false alleanze e false amicizie basate essenzialmente sul durare di più nel gioco, un gioco che viene venduto come pulito ma che in realtà viene, per motivi di trama, montato e pilotato dagli autori a seconda di ciò che il pubblico chiede. Questo avviene anche nel film, dove, la storia d’amore tra i due protagonisti sembra costruita essenzialmente per fini ‘commerciali’.

Ma le analogie non finiscono qua. Tutta la preparazione, soprattutto quella in cui vengono costruiti dei veri e propri personaggi ad uso e consumo del pubblico, sembra quella di altri reality. Altro aspetto: i bambini nella società del film, imitano ciò che vedono nell’Hunger Games, compresi gli aspetti più deleteri. Non è quello che succede anche nella nostra società? Anche per noi sembra si privilegino i comportamenti più infimi purché portino ad un qualche risultato, e le cronache politiche di questi tempi testimoniano di quanto quest’uso e costume sia ormai diffuso. Ancora l’assoluta vacuità della società che sta intorno alla costruzione del meccanismo del gioco, interessata solamente ai vestiti e agli abiti e dimentica di quella che sarà la sorte delle persone che si accingono a partecipare al gioco stesso. Non vi suona familiare? Perfino la casa in cui vivono durante il training di allenamento nel film ricorda la casa ipermodaiola, ma sempre terribilmente artificiale, che caratterizza ogni edizione del Grande Fratello. Insomma un mondo che sembra futuro e lontano ma che, se lo si osserva con occhi appena diversi, non sembra molto diverso da quello nel quale, purtroppo, siano pienamente immersi anche noi.

E in tutto questo la frase che mi ha più colpito è quando il presidente Snow, vecchio protagonista, spiega al burattinaio del gioco, Seneca, per quale motivo venga organizzato tutto questo spettacolo anziché prendere semplicemente dei ragazzi e ucciderli per rappresaglia. Lo scopo, spiega il vecchio con disincantato cinismo, è quello di lasciare una speranza, far si che le persone nei vari distretti, tutti apparentemente molto poveri e schiacciati economicamente dalla ricca città (altra analogia col mondo di oggi?) perseguano l’idea che possano cavarsela, possano diventare conosciuti e degli eroi semplicemente per aver partecipato ed essere sopravvissuti ad un gioco. Non è lo stesso meccanismo perverso e voyeuristico che anima i vari reality, nei quali le persone diventano famose per il semplice fatto di esserci? Ed è davvero un peccato che il meccanismo col quale ci sente importanti sia totalmente artefatto e basato sul motto latino mors tua vita mea.

Credo che meritiamo qualcosa di più che pensare che schiacciare l’altro sia l’unico modo per diventare qualcuno nella vita. E credo anche che non  si possano depositare le nostre speranze semplicemente sull’idea di diventare famosi per il semplice fatto di comparire. Tanto meno di diventare famosi a scapito di qualcun altro. E’ necessario riflettere su quanto questo meccanismo apparentemente innocuo e semplice stia stritolando, senza che ce ne accorgiamo, la nostra stessa capacità di pensare le relazioni con gli altri. Insomma, un film che consideravo una semplice operazione commerciale si è, inaspettatamente, rivelato un ottimo spunto di riflessione. 

Nel caso lo vedeste, o lo aveste già visto, fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio

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Da solo o nel lettone?

Da solo o nel lettoneL’articolo che vi segnalo oggi tratta un tema sul quale il dibattito è acceso da sempre e che, non credo, questo articolo contribuirà a fare scemare. Si tratta però, di un interessante punto di vista e vorrei riportarvelo. L’articolo tratta del cosiddetto co-sleeping, cioè l’abitudine di molti genitori di far dormire il proprio figlio nel letto matrimoniale. Per anni si è ripetuto che questo tipo di comportamento non fosse un comportamento corretto né per i bambini, che sembravano non poter sviluppare una propria autonomia nel momento dell’andare a letto, né per la coppia che, con il figlio in mezzo, si vede privata di un momento di intimità per la coppia stessa.

La ricerca, svolta dalla Stony Brook University di New York, e pubblicata su Pediatrics, arriva a risultati diversi e giunge a conclusioni che non sono così contrarie a questa pratica. Il risultato sembra essere che abituare i bambini a dormire tra le lenzuola che odorano di mamma e papà non comporti per loro alcun effetto collaterale. (…) Lo studio ha preso in esame 944 coppie non abbienti con un figlio di un anno, monitorandone nel lungo periodo la situazione psicologica e le abitudini legate al sonno. Dai dati è emerso che i bambini che avevano dormito nel lettone avevano raggiunto lo stesso livello di sviluppo comportamentale e cognitivo di quelli che avevano sempre dormito da soli. 

Come per tutte le cose, potrebbero essere evidenziati aspetti positivi e negativi in entrambe le situazioni. Il far dormire il bambino nel lettone secondo alcuni pediatri avrebbe risvolti positivi dal momento che favorirebbe il rapporto del bimbo coi genitori e ne farebbe avvertire la vicinanza. Dormire da soli, sopratutto per il modo in cui viene gestita la ‘separazione’ del bimbo dai genitori, può portare invece a sviluppare paure (del buio, di esser soli, di essere abbandonati…) che potrebbero avere ripercussioni sul bambino stesso. Come detto il far dormire il bimbo nel letto dei genitori priva la coppia stessa di un momento e di uno spazio suo che andrebbe invece, gestito e calibrato meglio, soprattutto nel momento in cui il nuovo arrivato può far saltare i delicati equilibri su cui la coppia stessa si regge. Credo che la linea guida da seguire sia, come al solito, il buon senso. Non credo esistano ricette adatte per ogni situazione e per ogni famiglia. Ci sono diverse esigenze che andrebbero considerate (bambino/coppia) e non necessariamente, se non apparentemente, in antitesi. 

L’articolo è di Repubblica (25.07.11) ed è a firma di Sara Ficocelli. Il link:

http://www.repubblica.it/salute/ricerca/2011/07/25/news/nessun_danno_se_il_bimbo_dorme_nel_lettone_dalla_scienza_via_libera_al_co-sleeping-19597348/ 

Sarebbe interessante poter condividere le vostre esperienze in merito!

A presto…

Fabrizio

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La guerra di Mario

La guerra di MarioIl post di oggi tratta di un film intitolato La guerra di Mario (2005) del regista Antonio Capuano. Il film narra la storia del piccolo Mario, nove anni, bambino che proviene da uno dei quartieri più problematici di Napoli, Ponticelli, che viene portato via alla famiglia nel quale è nato e affidato dai servizi sociali e dal Tribunale dei Minori ad un’altra famiglia. La mamma naturale, Nunzia, ha altri sei figli, convive con un uomo del quale si intuisce che uno dei linguaggi preferiti sia quello violento. Il film è giocato sui contrasti a cominciare dal contesto di origine e quello affidatario del bambino. Tanto la famiglia di origine di Mario sembra popolare e povera di strumenti, quanto quella affidataria appare borghese e ricca di vari stimoli. Il film si concentra essenzialmente sull’inserimento del ragazzo nel nuovo contesto, un inserimento che, data la distanza con il luogo d’origine, non sembra per niente facile. I genitori affidatari sono Giulia e Sandro. Se Giulia sembra completamente assorbita dal ruolo di madre e cerca di andare incontro a Mario in tutti i modi, Sandro invece ha difficoltà a relazionarsi con lui, non riesce a parlarci e anche Mario non sembra desideroso di farlo. L’impressione è che la coppia cerchi in lui un collante per il loro rapporto e che Mario, invece che assolvere a questo compito, si infili nelle crepe della loro storia e che, frapponendosi tra loro, crei una distanza non più colmabile. I ruoli sembrano giocare una funzione fondamentale per tutti loro: Giulia vuole essere la madre perfetta, la madre che con le sue mille attenzioni, può far recuperare tutte le infinite privazioni che il bambino sembra avere subito nella sua giovane vita. Sandro, convinto che Mario sia cresciuto in un contesto che lo ha segnato, prova ad avvicinarsi a lui ma con la convinzione che il piccolo ormai non possa più cambiare. Mario rimane li, solo, come spesso si vede nel film, con il suo unico amico Mimmo un cane che trova per strada. Il destino del piccolo sembra, perciò, passargli sopra attraverso le molte figure che si avvicendano nella sua vita: i genitori naturali, quelli affidatari, la scuola, i servizi sociali e il tribunale. Come spesso avviene in queste storie, soprattutto nel caso di giovani problematici, le origini sembrano essere una colpa difficilmente espiabile. Mario, nel film, vive nel frattempo tutta una sua guerra interna, non dichiarata e non cessata, nella quale non si capisce se racconti cose che ha vissuto o che ha solo sentito raccontare. Questo non fa differenza perché quella guerra e quei ricordi sono dolorosamente reali per lui. Dolorosamente reali per una persona che dice di aver dovuto bere latte e polvere da sparo per essere svezzata.

All’interno di questa guerra, interna ed esterna a Mario, forse solo Giulia si accorge di quanto il bambino non abbia bisogno di essere educato ma di essere accolto. Accolto in una vita nuova, in una nuova famiglia, in un nuovo mondo che sembra volerlo inquadrare senza neanche guardarlo.

La cosa che mi colpisce, e che viene evidenziata tutte le volte che Mario attraversa la strada, è come non riesca a distinguere il rosso dal verde nei semafori. Forse è daltonico, ma nessuno sembra accorgersi di questo. Ed è facile vedere l’alta simbologia di questo aspetto, in una storia in cui nessuno sembra essere in grado di vedere il colore delle persone che gli stanno intorno.

Il film apre una finestra su un mondo doloroso e incerto, in cui non sembrano esistere premesse o conclusioni facili, in cui non sembrano possibili scorciatoie o rapide soluzioni. Un mondo dove sembra vero quello che dice Giulia: l’unica libertà è l’intelligenza solo che è difficile stabilirne i limiti.

Un film molto bello che consiglio a chiunque voglia dare un’occhiata a cosa può voler significare accogliere un bimbo nella propria vita.


A presto…

Fabrizio

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La psicoterapia sistemico-relazionale (1)

La psicoterapia sistemico-relazionale (1)Visto che mi sono specializzato in terapia sistemica relazionale, è forse il caso di illustrare quali siano le caratteristiche di questo tipo di approccio teorico e come esso influisce sulla mia pratica terapeutica. Cos’è dunque la terapia sistemica relazionale? Si può definire il modello relazionale o sistemico come quell’orientamento teorico-pratico che, ispirandosi come riferimento concettuale alla teoria dei sistemi, centra essenzialmente il proprio interesse sui sistemi interpersonali, facendo dell’interazione tra le persone il momento privilegiato dell’analisi e dell’intervento. L’attenzione delle terapie sistemiche è pertanto focalizzata sul processo interattivo e comunicativo in corso tra i membri di un sistema, piuttosto che sulle dinamiche intrapsichiche o sulla ricostruzione storico-psicogenetica dei problemi del singolo. (…) Secondo questa teoria il comportamento è funzione della relazione e le relazioni presentano delle regolarità prevedibili che tendono a riproporsi con frequenza e che prendono il nome di ridondanze pragmatiche. La tendenza dei sistemi interattivi ad organizzarsi secondo regole diviene particolarmente evidente in quei sistemi che si fondano su una rete abituale di rapporti che ne garantiscono un certo grado di continuità e di stabilità (ad esempio famiglie, gruppi di amici, compagni di lavoro, classi scolastiche). (…) Secondo questa visione il sintomo non è quindi più il prodotto di una mente folle ma l’espressione di un disagio che investe nella sua totalità il sistema di cui l’individuo fa parte; la diagnosi diviene il dare luce al significato del sintomo all’interno del contesto in cui emerge e l’intervento terapeutico comporta la reintroduzione del sintomo all’interno del suo contesto di origine allo scopo di favorirne il riassorbimento stimolando un cambiamento  del sistema in toto che renda lo stesso sintomo inutile. [1]

In questo passo abbiamo visto alcuni dei punti nodali della terapia sistemica. Questi punti essenzialmente sono:

  1. l’importanza della relazione;
  2. l’attenzione necessaria al processo di comunicazione;
  3. la considerazione dell’insieme di regole che il sistema relazionale condivide;
  4. il minor carico del singolo rispetto al sistema;
  5. la funzione del sintomo tanto per il singolo quanto per l’insieme;
  6. il peso della storia familiare;
  7. il ciclo vitale della famiglia.
Prima di continuare sarebbe bene precisare che l’approccio del mio orientamento teorico è descritto da quattro aggettivi: sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale. Sistemico perché, come abbiamo visto è fondamentale considerare l’influenza che il sistema nel quale l’individuo vive ha sull’individuo stesso; relazionale perché prende in considerazione l’influenza che la relazione ha per gli individui; simbolico, presupponendo quanta importanza abbia il vissuto interiore ed esperienziale che ha a che fare con la capacità del sistema e del singolo di poter apprendere tramite l’esperienza stessa. Il processo simbolico non è in contrasto con quanto affermato sul peso del sistema rispetto al singolo ma cerca di prendere in considerazione quello che è la costruzione del simbolo dell’individuo rispetto a se stesso e, ovviamente, alla condivisione della realtà simbolica con quello che è il sistema più ampio. Vediamo ora di cercare di chiarire meglio i punti. Partiamo dall’importanza della relazione: senza entrare eccessivamente nel dettaglio, basti sapere che l’approccio sistemico relazionale nacque dall’importanza che le teorie generali sul funzionamento dei sistemi stavano avendo in fisica e sul peso sempre crescente che la società, gli altri, sembravano rivestire nell’influenzare lo sviluppo del singolo. Ci si rese conto, insomma, che altre teorie psicologiche erano legate eccessivamente alla realtà interna del singolo e non tenessero in debita considerazione il peso dell’esterno sia nella creazione di questa realtà che, soprattutto dell’espressione di questa realtà nel rapporto con l’altro. Questo poteva avvenire essenzialmente tramite la comunicazione.
 – Continua –

[1] Canrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pp. 291-293

 

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‘Amici’ su Twitter…

Amici su Twitter...Questa riflessione nasce dall’osservazione che sempre più persone interagiscono tra loro tramite l’utilizzo o la mediazione dei social network che, ogni giorno di più, ingrossano le fila dei loro utilizzatori. Chi di noi non è iscritto in uno dei numerosi social network? Chi di noi non trova agevole fare amicizia su internet? Perché sembra sempre più facile fare questo tipo di amicizie e coltivarle rispetto e, a volte a discapito, delle amicizie reali? Cosa si nasconde dietro questo mondo che si ingrossa sempre di più di persone, di storie e che abusa di termini con i quali, un tempo, definivamo i rapporti con gli altri?

La vera questione di questo tipo di rapporti riguarda il fatto stesso che si possano definire amicizie. L’amicizia nasce (nasceva?) dalla conoscenza diretta con la persona, dalla condivisione di una parte importante della nostra vita (la scuola, le vacanze, un viaggio) e permetteva di inserire quella persona in una cerchia ristretta di conoscenze con le quali potevamo dire di sentirci vicine. Tutto questo è stato rivoluzionato dall’avvento e dal concetto che dell’amicizia danno i social network. L’amicizia sembra, in questo caso, legata più al numero delle persone che si ‘conoscono’, piuttosto che dalla reale interazione che poi si ha con queste stesse persone. Per molte di loro è importante avere un gran numero di amicizie, senza che ci si curi minimamente di cosa voglia dire avere queste ‘amicizie’. E qui entra in gioco uno dei fattori che hanno favorito la diffusione di questo tipo di reti: il contatto con l’altro. Se è vero che le persone che vengono conosciute su questi nuovi media non possano dirsi amiche, è anche vero che viene favorito uno scambio continuo tra persone che difficilmente si sarebbero potute incontrare nella vita. Questa quantità di rapporti non può essere confusa, però, con la qualità. E, secondo me, non è vero che tendono a favorire i confronti perché generalmente le persone si circondano di contatti che abbiano interessi simili ai loro, non favorendo un contatto tra persone che possono pensarla diversamente.Tanto che, spesso, qualunque discussione degenera facilmente nell’insulto. Questa parentesi ci porterebbe lontano: ho affrontato questo tema nel post Perchè siamo così aggressivi su internet pubblicato l’11.09.12. Tornando a noi, credo che la proliferazione di questi luoghi di incontro virtuali nasca anche dalla difficoltà che si ha nello stabilire rapporti reali e dalla facilità con cui, invece, questi rapporti possono essere gestiti su internet. Mi spiego meglio: un’amicizia può essere anche un’esperienza faticosa: il nostro amico può richiedere un’attenzione o un impegno che noi, sempre presi dalle mille corse quotidiane, possiamo sempre più raramente permetterci di concedergli. O che non vogliamo concedergli. Un’amicizia su internet può essere molto più facilmente gestita spesso senza nessun coinvolgimento diretto tra le persone. Se ci pensiamo, si tratta di condividere un link oppure metter un ‘mi piace’ su qualcosa postato da qualcuno. Un altro aspetto che entra in gioco nel successo di questo tipo di contatti ha a che fare con la possibilità di investire poco della nostra personalità nella relazione stessa. L’immagine che noi diamo di noi stessi sui social network è molto edulcorata, e può non rispondere al vero per moltissimi aspetti. Ovviamente, questo è un problema che può colpire anche una relazione ‘reale’ dato che possiamo mentire ed essere poco sinceri su noi stessi. In una relazione ‘reale’, però, il gioco è molto più dispendioso e, se la conoscenza continua, può difficilmente essere mantenuto a lungo a costo della relazione stessa. In un rapporto virtuale, invece, questo gioco può andare avanti per parecchio se non caratterizzare l’intera durata della ‘conoscenza’. Non fraintendetemi, non sto dicendo che i social network siano dannosi o che non costituiscano nulla di valido. Sono una realtà con la quale confrontarci e che ormai permea gran parte della nostra stessa quotidianità.

La riflessione voleva arrivare a chiarire quali possano essere le differenze tra una relazione nella quale giochiamo per intero e una relazione che ci può far giocare solo in minima parte. Forse è vero che entrambi siano relazioni. Ma non so se per una delle due possa essere esplicativo il termine amicizia.

A presto…

Fabrizio

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Gli articoli del blog sul vostro ebook…

Gli articoli del blog sul vostro ebook...Questo post illustra un servizio pensato per tutti coloro che, come me, leggono spesso articoli o documenti a cui sono interessati sul proprio ebook. Per questo motivo ho pensato di convertire tutti gli articoli del blog in formato PDF, di modo che possano essere caricati più facilmente dai vostri lettori.

Come funziona il tutto? Il modo che descriverò è quello che funziona per l’ebook più diffuso, il Kindle di Amazon. Se avete un altro tipo di ebook, vi consiglio di consultare le istruzioni fornite al momento dell’acquisto o reperibili su internet specifiche per il vostro lettore. Il punto da cui partire è l’apertura del file al quale siete interessati.  Dopo averlo selezionato dall’elenco, per aprire un file dovete semplicemente cliccarci sopra e, una volta aperto, salvarlo. Dopo averlo salvato, potete procedere in questo modo:  una volta registrati sul sito di Amazon (seguite, per questo, le istruzioni sulla guida presente sul Kindle stesso), aprite la vostra email personale, scrivetene una nuova, mettete come destinatario l’indirizzo email che è stato generato al momento della registrazione su Amazon, allegate i file che volete mandare sul Kindle e mettete, come oggetto della mail il testo CONVERT. Vi assicuro che è più difficile da scrivere che da fare! Dopo di che riceverete, quando il vostro ebook si trova connesso ad internet, l’articolo pronto per essere letto comodamente quando ne avete l’opportunità. Insomma, un modo nuovo di fruire della possibilità di poter leggere quello che più vi interessa. Cliccando sul link in arancio di sotto, sarete reindirizzati alla pagina del sito www.lopsicologovirtuale.it sul quale trovare la lista di tutti gli articoli. Verranno aggiornati a brevi intervalli quindi potete controllare di tanto in tanto le nuove uscite.

Il link è presente, comunque, alla fine della pagina ATTIVITA’  STUDIO e sulla barra laterale a destra sotto la voce ‘SCARICA IL PDF DEGLI ARTICOLI DEL BLOG’.

Vi lascio con il link sul quale cliccare:

– CLICCA PER ACCEDERE ALLA LISTA GRATUITA DEGLI ARTICOLI –

Fatemi sapere che ne pensate!
A presto…

 

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La gioco-dipendenza…

La gioco-dipendenza...L’articolo del quale voglio parlarvi oggi riguarda una realtà che è sotto gli occhi di tutti noi. Mi riferisco all’aumento spropositato di persone che soffrono di disturbo da gioco, vera e propria nuova mania nazionale aggravato, per molti, anche dalle condizioni economiche di questo periodo. Ma andiamo con ordine. Secondo la Alea, associazione per lo studio del gioco, sarebbero mezzo milione le persone che avrebbero un rapporto patologico con il gioco. Ci si riferisce a persone che non sono in grado di controllare l’impulso di giocare, che non sono in grado di smettere autonomamente e che sono in grado, invece, di passare ore e ore di fronte a macchinette o giocarsi l’intero stipendio (o pensione) nella speranza di poter guadagnare qualcosa. Di questi 500.000 ben 100.000 sarebbero minorenni, persone che non potrebbero neanche giocare. Non ci si deve stupire di questi numeri: i minorenni vengono iniziati al gioco tramite delle apparentemente innocue applicazioni che spopolano, per esempio, su Facebook. Questi giochi, anche se apparentemente non sono dannosi perché non si vince o non si perde nulla se non ‘soldi virtuali’, in realtà sono potenzialmente molto distruttive nel momento in cui iniziano ad innescare nel minore sia la comprensione che la passione per il gioco fine a se stesso. Quel minore sarà, poi, un adulto che conoscerà non solo tutte le regole del gioco ma avrà provato l’ebbrezza di vincere e perdere virtualmente. Il salto nel reale è solo l’ultimo passo per una dipendenza coltivata da anni.

Parlando di gioco, non stiamo parlando, ovviamente, solo di macchinette o poker, ma di tutti quei mille modi con cui le persone tentano la fortuna in Italia: gratta e vinci in primis. Ormai sono talmente diffusi che sembra impossibile uscire da un negozio qualunque senza averne giocato almeno uno. Promettono premi sempre più grossi e alcuni propongo dei veri e propri vitalizzi. La tentazione si fa sempre più grossa sopratutto per quelle fasce sociali che, invece, hanno sempre più difficoltà ad arrivare a fine mese. Non stupisce, allora, come tra le categorie di giocatori più a rischio vengano citati pensionati, casalinghe, disoccupati, fasce deboli della popolazione e che queste categorie costituiscano addirittura il 40% dei giocatori  più a rischio di sviluppare dipendenza.

Sono dati allarmanti considerato che spendiamo mediamente 8o miliardi di euro all’anno per giochi, gratta e vinci, scommesse e lotterie. Lo Stato è il vero vincitore di questo giro immenso di soldi. Si calcola che incassi all’incirca 20 miliardi di euro l’anno. Prima di pensare che questa cifra giustifichi e spieghi l’investimento, bisognerebbe forse, pensare a tutti i costi, materiali, psicologici, sociali che questo tipo di dipendenza invece comporta per le stesse casse dello Stato. Molte di queste persone, non essendo in grado di uscire autonomamente dalla dipendenza, hanno bisogno di aiuto qualificato e si rivolgono ai servizi psicosociali delle Asl, andando ad aumentare il grado di congestione del servizio stesso. Molti, spinti dal miraggio della ricchezza, si ritrovano ad essere sempre più poveri. In alcune fasce questo potrebbe provocare l’aumento di tensione familiare, coniugale, genitoriale. Sono tutti costi imponderabili, ma che sarebbe bene mettere sul piatto della bilancia. Solo allora risulterebbe difficile lavarsi la coscienza con il ritornello gioca il giusto!

Intanto il link: 

http://www.repubblica.it/salute/2012/03/23/news/giocodipendenza_6mila_italiani_in_cura-32078025/ 

L’articolo è di Repubblica ed è firmato da Caterina Pasolini

A presto…

Fabrizio

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Dottore, sta scherzando?

Dottore, sta scherzandoIl post di oggi è dedicato ad un aspetto talvolta trascurato o frainteso all’interno di una seduta di psicoterapia. Mi riferisco all’uso dell’umorismo, della battuta di spirito che può cambiare il corso della conversazione. L’umorismo è un’arma potentissima all’interno della seduta dal momento che permette, se correttamente e sapientemente utilizzata e proposta, di cambiare la prospettiva all’interno della narrazione e aprire porte e brecce laddove la situazione sembrava non permetterlo. Molti potrebbero obiettare che talvolta, nei guai e nelle vicende delle persone, non ci sia nulla da ridere. Se da un lato è vero, perché veramente certe situazioni pongono di fronte a delle vite nelle quali le vicende sono state tragiche, è pur vero che la scelta dell’umorismo è anche un fattore catalizzante per un cambio di prospettiva rispetto alla visione che ne abbiamo sempre avuto. L’utilizzo dell’umorismo all’interno della terapia è una cartina al tornasole che permette di verificare anche la ‘distanza emotiva’ che esiste tre terapeuta e paziente. L’utilizzo dell’umorismo, infatti, permette al terapeuta di non farsi invischiare dalla visione che ne porta il paziente e di introdurre una vera e propria variabile all’interno del racconto che la persona ci porta. A questo proposito possiamo citare la posizione di Murray Bowen, psichiatra americana e pioniere della terapia familiare e sistemica. Il brano è calibrato sulla terapia familiare ma si può tranquillamente applicare anche alla terapia individuale.

Inoltre c’è sempre un lato umoristico e comico in tutte le situazioni più serie. Se sono troppo, posso rimanere coinvolto nella serietà della situazione. D’altra parte, se sono troppo distante rischio di non entrare in reale contatto con loro. La ‘giusta’ posizione per me è quella che sta tra la serietà e l’umorismo; cioè quando sono in grado di dare delle risposte sia serie che umoristiche per facilitare il processo nella famiglia (…) Se (il terapeuta) riesce a mantenere con il sistema un giusto grado di distanza e di contatto emotivo, è quasi automatico che dica o faccia la cosa più appropriata. Se resta in silenzio e non riesce a dare una risposta significa che è troppo coinvolto emotivamente. (…) Dei commenti casuali comunicano efficacemente che il terapista non è coinvolto più del necessario. Il ‘capovolgimento’, cioè un commento che mette in risalto un lato inusitato o completamente opposto di un dato problema, o che ne coglie l’aspetto prosaico o leggermente umoristico, è uno degli strumenti di maggiore efficacia per alleggerire una situazione eccessivamente seria. [1]

Naturalmente, come tutti gli strumenti, va saputo utilizzare, con modo e rispetto. Non stiamo infatti parlando di buttarla sullo scherzo qualsiasi sia l’argomento di conversazione. Si tratta di utilizzare, con rispetto e attenzione della storia della persona che ci si siede di fronte, una vera e propria tecnica che consente di cambiare prospettiva sulla storia che la persona ci racconta.

E’ questo un modo che mi piace utilizzare nella terapia, un modo che mi appartiene e che sento di riuscire a calibrare. Non si tratta di una mancanza di attenzione e di rispetto della storia che mi si  sta raccontando: è un altro modo con il quale penso di poter aiutare l’altro a rapportarsi diversamente con ciò che mi porta e nel contempo che si possa rendere meno ingombrante e impattante la storia che lo imprigiona nella sofferenza.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Bowen, M. (1980), Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma

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Il calamaro e la balena…

Il calamaro e la balena...Il film che vi voglio raccontare oggi ha un titolo curioso e particolare: Il calamaro e la balena. Il film è del regista Noah Baumbach (2005). Racconta la storia di una famiglia composta da due genitori e due figli maschi che, apparentemente perfetta, viene sconvolta dalla improvvisa separazione dei genitori. Il motivo della separazione dei genitori ha una funzione fondamentale nello scatenare alcune dinamiche della vita familiare stessa: la madre inizia ad avere più successo del padre nel lavoro. Entrambi hanno pubblicato dei libri, ma se il lavoro del padre non sembra riscuotere più molto successo, la pubblicazione della madre invece lo è. Ovviamente, questo sembra il pretesto per dichiarare la fine di una storia che sembrava ormai finita da tempo. La cosa che incuriosisce e che rende interessante il film, sono tutti i meccanismi che vengono utilizzati da entrambi i genitori per cercare di non guardare in faccia la realtà del cambiamento che sta interessando la loro famiglia. Da una parte la donna, che accusa il marito di non essere più stato lo stesso dopo la fine del suo successo creativo. Dall’altro lui accusa la madre di aver ‘distrutto la famiglia’ prendendo una decisione del quale entrambi sembravano consapevoli. In mezzo i figli che, come in ogni buona separazione conflittuale che si rispetti, vengono utilizzati dai genitori come pedine su una scacchiera, e chiamati a schierarsi con l’uno o con l’altro genitore. Il primogenito si schiera col ‘povero’ padre mentre il secondogenito con la madre. Il secondogenito è interessante nella collocazione del film: inizia a mettere in atto azioni sempre più provocatorie man mano che la separazione dei genitori assume contorni sempre più conflittuali. In realtà i suoi atti sembrano più che altro grida di dolore che nessuno sembra in grado di ascoltare. Potrete notare come, in queste scene, il ragazzo sia sempre da solo e non sembri esserci nessuno in grado di avvertire il suo richiamo. In tutto questo la strategia migliore del padre sembra quella di cercare di costruire una sorta di doppione della ex-casa di famiglia che consenta ai figli di vivere al meglio un cambiamento che lui per primo, non sembra in grado di gestire. L’emblema del film è rappresentato dal gatto che è costretto a fare la spola tra una casa e l’altra fino a quando, alla prima occasione fugge da entrambe. Una fuga che il primogenito sembra non riuscire ad attuare.
Insomma, un bel film che vi consiglio di guardare, un film che riesce a descrivere lo sconvolgimento e le strategie che caratterizzano i membri di una famiglia che si trova a vivere un cambiamento del quale avrebbe fatto volentieri a meno ma che non sembrava più rinviabile. Una famiglia che attraversa un momento di passaggio non dissimile da quello che tante famiglie si trovano, per varie ragioni, a dover affrontare. Un film che riesce a descrivere l’inevitabile passaggio che la fine di una relazione può comportare. Un film che potrebbe descrivere, in uno dei personaggi, qualcuno che conoscete in realtà!


A presto…
Fabrizio

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S’ accabadora…

S' accabadora...Il post di oggi riguarda una vicenda della quale ben poco sapevo fino a non molto tempo fa ma che ha forti risvolti con un dibattito in corso attualmente. Pur essendo sardo, non avevo mai sentito parlare della figura de s’accabadora. Per chi non lo sapesse il termine fa riferimento alla persona de s’accabadora, termine che potremmo tradurre con ‘colei che da la fine’, una sorta di incaricata dell’eutanasia delle persone moribonde nei piccoli paesini della Sardegna. Il termine ebbe un risalto nazionale grazie al libro della scrittrice sarda Michela Murgia che, nel 2009, pubblicò un libro dal titolo Accabbadora e che vi consiglio di leggere se voleste saper qualcosa di più sul tema. Ma torniamo a noi. Perché mi sto occupando di questo tema? Il pretesto de s’accabadora è utilizzato per parlare più specificamente dell’eutanasia. Il termine eutanasia composto dal suffisso eu-buona e dal sostantivo tanatos-morte, vuol dire appunto buona morte. Il tema è dibattuto ancora oggi e lo è stato molto in occasioni particolari come la morte di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby. In realtà, il tema dell’accompagnamento delle persone sofferenti alla morte è stato, e la figura dell’accabadora sembra dimostrarlo, sempre presente nella società. Forse era necessaria nelle società pre-mediche, società dove, cioè, la medicina non aveva ancora questa aura salvifica, una figura che fungesse da ‘intermediario’ tra le sofferenze della persona malata, la famiglia e la morte stessa. La funzione di questo tipo di figura era, essenzialmente, quella di dare una degna fine alla vita di un individuo non più in grado di viverla, alleviando non solo le sue sofferenze, anche solo quella di non poter più considerare quella che stava vivendo come Vita, ma anche quella del gruppo familiare e sociale più esteso dato che si doveva comunque fare fronte all’accudimento di una persona non più autosufficiente e per il quale, magari, non c’erano strumenti che consentissero di consentirgli di vivere in maniera decente. Curiosamente, anche dal punto di vista religioso s’accabadora godeva di un certo status, dal momento che, non considerata ‘assassina’, aveva una valenza sociale riconosciuta. Questa premessa dava luogo ad una certa considerazione: prima dell’avvento della medicina di massa, esisteva un forte legame tra la vita e la morte dove la seconda era considerata come necessaria conseguenza della prima. 

Ho l’impressione che noi abbiamo perso tutto quest’insieme di simbolismi e di concezioni sulla morte. Schiavi ormai dell’idea di una medicina onnipotente, prendiamo in considerazione con sempre maggiore difficoltà che ci siano condizioni nelle quali la morte è preferibile ad una non-vita. Convinti fermamente di poter decidere in tutto e per tutto cosa ci possiamo (o no) permettere, siamo accecati da questa apparente onnipotenza. Questa onnipotenza viene meno nel momento in cui potremmo decidere della nostra fine. In questo la società sembra essere molto categorica e si rifugia dietro dogmi religiosi: non si può avere una ‘dolce morte’, partendo dal rispetto dei tempi della morte, perché la vita non è nelle nostre disponibilità e, privandocene, non rispetteremmo il volere di dio. In realtà, a ben pensare, se dovesse essere rispettato il volere di dio probabilmente bisognerebbe spegnere le apparecchiature che, artificialmente, tengono in vita le persone grazie al mantenimento, sempre artificiale, di tutte le funzioni vitali più importanti.

Chi non rispetta allora il volere di dio? E ancora più paradossale sembra essere il fatto che siamo privati della possibilità di decidere sulla nostra morte anche se la nostra palese volontà è quella di far terminare la vita al di là di qualsiasi accanimento terapeutico. E tutto ciò avviene in una società che apparentemente spinge a pretendere indipendenza e poi la nega sulle scelte di vita più intime e private. Solo a me pare un enorme contraddizione?  

Perché è andato perso il valore sociale della possibilità di porre fine alla nostra vita? Sembra come se, una volta che venisse tenuto in vita a qualsiasi costo, la persona stesse ‘vivendo’. Forse dovremmo necessariamente partire da questa accezione meccanica della vita (la mia vita è respirare o io sono qualcosa di più del mio solo battito cardiaco?) per cercare di riconsiderare il senso intero della nostra esistenza.

Non vorrei che, ottenebrati dalla possibilità di vivere ‘per sempre’, non finissimo davvero per considerare vita il solo respirare.

A presto…

Fabrizio

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Ho sognato di volare… Che significa?

Ho sognato di volare... Che significaSpesso capita che quando le persone vengono a sapere che sono uno psicologo mi sottopongano i loro sogni anche nei contesti più improbabili: al bar, in strada, in spiaggia… Di solito la conversazione comincia con un: ‘tu che sei psicologo…’ Poco tempo fa, per esempio, mi è stato chiesto in spiaggia di cercare di interpretare cosa volesse dire sognare di volare!

Questo tipo di domande mi fanno sempre uno strano effetto perché se da un lato segnalano la fortissima curiosità che circonda il tema della psicologia applicata al quotidiano, come per esempio i sogni, è anche vero che denotano una forte banalizzazione del tema come se uno psicologo, forte delle proprie doti divinatorie, potesse comprendere attraverso un sogno il mondo ricco e complesso di un individuo. Alla mia reticenza nell’interpretazione spesso le persone non reagiscono bene. Questo pensiero semplificatorio è, credo, frutto di anni e anni di disinformazione, nei quali riviste e giornali (o altri mezzi di comunicazione) hanno accolto la pagina dedicata allo psicologo di turno in grado di dare soluzioni a tutto. Secondo me è una banalizzazione eccessiva e tutte le rubriche di questo tipo dovrebbero ricordarlo ai propri lettori o ai propri ascoltatori. Mettendo da parte un momento questa polemica, che ci porterebbe troppo lontano dal tema che voglio affrontare, le ragioni per cui io non mi sento di accondiscendere a questo tipo di richieste sono fondamentalmente due: da una parte credo che per utilizzare al meglio uno strumento come il sogno questo vada inserito in una conoscenza della persona che lo porta. E’ del tutto inutile che azzardi a caso un’interpretazione basata sul nulla, che non ha alcun valore probativo rispetto a quello che può dire chiunque altro voglia interpretarlo. In più, e questo è il secondo forte motivo, mi sembrerebbe di fare un torto al sogno se banalizzassi così il suo significato.

In realtà credo che il sogno sia una porta enorme e affascinante sul mondo interno dell’individuo. Come tutte le cose va saputo significare nel migliore dei modi, ne va capito il senso in relazione alla vita dell’individuo che lo porta. Già Freud nel suo testo fondamentale L’interpretazione dei sogni (1898)[1] pose in luce alcune delle funzioni e dei meccanismi di funzionamento del sogno stesso e il valore assolutamente rilevante che i sogni potevano avere non solo nel lavoro terapeutico con il paziente, ma anche nella complessa economia conoscitiva delle modalità di funzionamento psichico dell’individuo che quei sogni portava. La ricerca attuale sul sogno, accantonando molte delle presunte non oggettività del percorso psicanalitico, si è concentrata sui correlati fisiologici del sogno stesso, grazie ai potenti mezzi di visualizzazione dell’attività cerebrale dei quali possiamo disporre attualmente. Pur non ritenendo necessaria la possibilità di studiare una materia complessa come i sogni, data la loro difficile classificazione secondo il metodo scientifico, viene comunque da chiedersi perché, all’interno di un’ottica evolutiva che privilegia i cambiamenti necessari, il sogno sia rimasto un elemento presente nell’attività mentale umana. Questo grande interrogativo non permette di liquidare i sogni come semplici sottoprodotti dell’attività cosciente. In questo senso sono perfettamente in linea con le parole della collega Occhionero: alcuni liquidano il sogno come un fenomeno assolutamente irrilevante per per l’economia cognitiva: l’attività mentale durante il sonno è un semplice epifenomeno del sonno stesso. Detto in altri termini, il cervello, in quanto tale, non può non produrre fatti cognitivi anche se non ve ne è nessuna necessità. Non esiste alcuna condizione (…) in cui il cervello dell’uomo non sia in grado di produrre una qualche attività mentale. (…) Il sogno è uno stato mentale e come tale ha a che fare con la coscienza, meglio, esso è uno stato della coscienza, essendoci un accordo generale tra tutti i ricercatori nel considerare la coscienza come un universo a molti livelli di complessità. [2] 

Questa complessità è l’aspetto che più mi fa stare alla larga dalla semplificazione del sogno stesso, da una facile lettura e ridefinizione che non tenga conto della stratificazione di significati, vissuti, pensieri che il sogno stesso rappresenta. E, se questa premessa è vera, non si può non dover riconsiderare il bisogno di un lavoro attento e preciso sull’interpretazione del sogno stesso, un lavoro che necessariamente non può prescindere da un lavoro più ampio sulla persona stessa.

Altrimenti l’interpretazione di un sogno rimane alla stregua di un gioco. Certo, si può fare e può essere divertente. Ma non si dovrebbe dimenticare che come gioco è nato e che di gioco si tratta. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Freud, S. (2010), L’interpretazione dei sogni, Newton Compton, Roma

[2] Occhionero, M. (2009), Il sogno, Carocci, Roma, pag. 89

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