Non abbassiamo la guardia!

Non abbassiamo la guardiaIn occasione della giornata mondiale della lotta contro l’Aids, volevo segnalarvi un articolo interessante (Repubblica 16.06.2011) che tratta il tema di una recrudescenza del numero di casi di malattie sessualmente trasmissibili nei paesi occidentali. Non si riferisce solo al temibile virus dell’HIV quanto in generale alle malattie a trasmissione sessuale, la diffusione di alcune delle quali pareva ormai alle spalle. Sembrava che una attenta politica sociale, circa i rischi che si corrono con rapporti non protetti, avesse rallentato questo tipo di malattie. Evidentemente, forti dei risultati ottenuti, la guardia è stata abbassata e questo può avere portato all’aumento del fenomeno.

Per il momento il link:

http://www.repubblica.it/salute/prevenzione/2011/06/16/news/boom_di_malattie_sessuali_in_europa_allarme_anche_in_italia_pi_a_rischio_le_ragazze-17680602/

A presto…

Fabrizio

 

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Il manifesto del delirio…

Il manifesto del delirio...Mi imbatto in quello che lo stesso autore intitola: il mio sistema delirante “il manifesto di Whitaker”. Vi riporto integralmente il pezzo che mi ha incuriosito:

Durante i molti anni dedicati alla cura dei pazienti schizofrenici, ho sviluppato un particolare concetto di salute. Mi sono convinto che il cittadino socialmente adattato, l’individuo culturalmente integrato, sia, fondamentalmente, un ipocrita. Partecipa ad un gioco socialmente disonesto, fingendo che il proprio punto di vista coincida con quello degli altri, che l’altruismo sia un valore importante e che le persone politicamente disoneste siano solo eccezioni.

Io sono convinto che siamo tutti disonesti, né più né meno di qualsiasi uomo politico. Predichiamo bene e razzoliamo male, fingendo di non voler essere il centro del nostro mondo. Nascondiamo con cura la nostra vita privata e mostriamo di noi stessi solo una facciata sociale, artificiale e sostanzialmente ipocrita.

Sono anche convinto che la psicopatologia sia in realtà prova di salute psicologica .(La sottolineatura è mia. Nel libro è in corsivo.)

L’individuo che ha pensieri che appaiono distorti è una persona che sceglie di combattere dentro di sé una guerra dichiarata, piuttosto che arrendersi alla schiavitù sociale. Il suo sistema delirante e le sue allucinazioni sono la conseguenza diretta di questa battaglia contro la sua situazione esistenziale e contro lo stress che deve sopportare per non diventare una non-persona, una specie di automa sociale. Gli schizofrenici sono individui patologicamente risoluti a vivere all’altezza della propria immagine del mondo. Soffrono di un eccesso di integrità. Sono stati allenati ad essere capri espiatori: eroi o furfanti, immolano se stessi nel tentativo di cambiare il mondo, e di sconvolgere il sistema che li irretisce in modo tanto ipocrita.

Penso che la depressione, che viene considerata una patologia individuale, sia in realtà la risposta alla concreta percezione della patologia negli altri. E’ il riconoscimento dell’inutilità di qualsiasi sforzo per alleviare il dolore del mondo. L’attacco maniacale è la contro mossa fondamentale di essere altruisti. [1]

Più che delirante, questo manifesto, assolutamente condivisibile, mi sembra si possa inserire in quel filone di critica concettuale che vede contrapposte due grandi ‘scuole’: da una parte coloro che ritengono la malattia mentale la semplice disfunzione di un sistema e che, perciò, non avrebbe nessun significato ma andrebbe solo ‘corretta’, dall’altro coloro che ritengono che ogni malattia mentale assuma un significato, un senso, per la persona che quella malattia stessa manifesta. Il primo approccio è l’approccio ‘psichiatrico’, per cui la cura dello scompenso è legata all’assunzione di una sostanza con capacità terapeutiche. Il secondo approccio è legato alla cosiddetta anti-psichiatria e fa riferimento all’opposizione per metodi di cure che prevedano l’uso massivo di farmaci o l’internamento del paziente in strutture cosiddette ‘istituzioni totali’ sottoposti a cure coatte (come poteva avvenire negli istituti psichiatrici). Uno dei più grandi rappresentanti di questo ultimo approccio in Italia fu Franco Basaglia, promotore della legge 180, che portò alla chiusura degli istituti psichiatrici e alla concezione di un diverso approccio alla salute mentale. Altro punto su cui volevo soffermarmi, e che ho sottolineato con il colore arancione, riguarda la considerazione del fatto che la depressione non sia da considerarsi come patologia individuale. Come potete vedere, è un cambio di prospettiva notevole che non pone più l’accento sul singolo come malato, ma sulla rete di relazioni.

È un tema abbastanza complesso sul quale dovremo necessariamente tornare. Voi, intanto, che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 68

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Departures

DeparturesIl film del quale volevo parlarvi oggi si intitola Departures (2008). Il film, del regista Yojiro Takita, ha vinto il premio Oscar come migliore film straniero nel 2009. La trama è abbastanza semplice: dopo lo scioglimento dell’orchestra nella quale lavora, Daigo, il protagonista, è disoccupato. Decide, allora di tornare al suo paese d’origine. Va a vivere nella vecchia casa della madre assieme alla moglie Mika. Ovviamente Daigo deve cercare un lavoro che consenta loro di sopravvivere. Trova un annuncio interessante, che pensa riguardi un agenzia di viaggi, ma si accorge ben presto, che l’agenzia, che nel frattempo lo assume, si occupa si di viaggi, ma di viaggi particolari: l’ultimo viaggio. Come al solito non vi racconto altro per non svelarvi troppi dettagli. Aggiungo solo che, in Giappone, il rito della cura dei morti prima del viaggio finale (nokanshi) è una tradizione antichissima, svolta inizialmente da membri della famiglia del defunto e, in seguito, demandata ad agenzie specializzate.

Sullo sfondo di questo lavoro, decisamente particolare, si muovono i moltissimi significati che animano questo film e che ne fanno un film veramente toccante. La protagonista del film è, gioco forza, la morte declinata in varie sfaccettature. La più appariscente è quella fisica, ma non è l’unica. Si parla di morte delle passioni (il suonare il violoncello), di morte simbolica della famiglia (il padre del protagonista lascia la sua famiglia per stare con un’altra persona), di morte delle relazioni. La morte non è, però, solo la fine di tutto, così come spesso è intesa. Costituisce, invece, una fase di passaggio, di cambiamento. Di trasformazione. Spesso di incontro.

La cosa curiosa è che il protagonista del film non ha avuto, fino al momento in cui accetta il lavoro, alcuna esperienza con la morte. Racconterà, infatti, come non abbia assistito a quella dei nonni e neanche a quella della madre. Come si costruisce un immagine della morte nel momento in cui non la si conosce? E’ difficile nel momento in cui si maneggia una realtà con cui si ha così poca dimestichezza. Assistiamo così all’avvicinamento, dapprima con non pochi problemi (il primo ‘caso’ cui assiste non lascerà Daigo indifferente!), poi via via sempre più a suo agio con la preparazione del corpo del defunto. Questa preparazione è molto particolare e avviene con un rispetto e con una attenzione che spesso non si riscontra neanche nei rapporti tra vivi.

Il paradosso sembra essere quello per cui più Daigo si trova a stretto contatto con la morte, più questa sembra foriera di vita. Si inizia ad intravedere una vita sessuale con la moglie, che, apprenderemo poi, rimane incinta. La presenza della morte sembra, allora, legata non all’assenza quanto alla presenza. Si ritrova a riprendere a suonare anche il violoncello, a far così rinascere la sua grande passione. Questo riporta in vita (ancora paradosso?) i ricordi che lo legavano allo strumento da bambino.

Ma, come detto, la morte non è solo cambiamento. E’ disvelamento. Come se, alla fine dei giochi, non ci rimanesse altro che guardare in faccia noi stessi senza più finzioni. Senza più ipocrisie. In una delle scene più emblematiche, mentre si accingono a preparare il corpo di quella che apparentemente sembra una donna, si accorgono che, in realtà, è un uomo. La scena si dipana lungo il film, e ci fa intendere come non solo la persona sarà truccata infine da donna, ma che l’accettazione è possibile anche da parte di quelle persone (il padre) che più si erano opposte alla scelta del figlio in vita. Il disvelamento riguarda allora, non solo il morto ma anche le persone che gli stanno intorno. Coloro che solo nel momento della perdita (o della conquista?) del proprio caro riescono ad accettarlo nella maniera più incondizionata. Grazie alla morte. Grazie al cambiamento di prospettiva.

E ancora, le continue immagini allegoriche sul continuo scambio morte-vita, senza la quale sia l’una che l’altra non avrebbero senso: i cambi di stagione, con alternanze di paesaggi assolutamente invernali, apparentemente ‘morti’, a paesaggi primaverili pieni di fioriture e nascite. La scena nella quale osservano dei salmoni che risalgono la corrente per tornare nel luogo dove sono nati. I salmoni faticano, nuotano contro corrente, talvolta muoiono stremati per lo sforzo. E lo fanno solo per andare a morire nel luogo che li ha visti nascere. Perchè fanno tutta questa fatica se devono morire? Stiamo ancora parlando di salmoni? O di noi?

E così, in questo percorso di avvicinamento alla morte (e alla vita) anche chi non capiva e non accettava l’idea di un contatto così stretto con la morte, come la moglie, si trovano poi a dover guardare le cose da un’altra angolazione. E, nuovamente, la morte sembra un punto di incontro più che di separazione. Di vicinanza. Vicinanza che porta al reincontro di padre e figlio, di vita che continua e di vita che finisce, di consegne da portare avanti e comunicazioni in codice che riprendono dopo anni di apparente interruzione.

Insomma, un film che affronta, con una delicatezza e una levità esemplari, uno dei temi tabù per eccellenza. Per ridefinire il quale dovremmo, forse, ricordare una delle frasi del film:

la morte è un cancello da oltrepassare per proseguire il proprio viaggio.

A presto…

Fabrizio

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Falso miele…

Falso miele...Avrete, forse, sentito la storia della grazia concessa dal Presidente Giorgio Napolitano il 15 Ottobre scorso a Calogero Crapanzano, il padre che quattro anni fa, uccise il figlio Angelo, 27 anni, dopo l’ennesima crisi violenta del ragazzo. Angelo era autistico e, a quanto ne sappiamo, era stato colpito da meningite quando era piccolissimo. Il tutto ha avuto come teatro il quartiere di Falsomiele a Palermo. Falsomiele. Un nome che mi ha colpito. I latini dicevano nomen omen. Nel nome, un destino. Non c’è nessun miele in questa storia, nessuna dolcezza. La grazia concessa permette ad un padre di essere a posto nei confronti della legge. Ma, temo, dovrà per sempre fare i conti con la mancanza di suo figlio. E’ un nome che descrive appieno l’ambivalenza di questa storia. Il padre di Angelo accudiva il figlio da solo dal momento che anche la moglie dell’uomo soffriva di forti esaurimenti nervosi. La situazione era insomma abbastanza pesante e Calogero, all’ennesimo scoppio d’ira del figlio, ha reagito in modo definitivo. Il giudice che si trovò a giudicarlo per primo, Lorenzo Matassa, difese l’imputato asserendo che l’uomo, e la sua famiglia, fossero stati lasciati soli sia di fronte alla malattia del figlio, sia di fronte alla difesa della salute, bene la cui difesa è prevista dalla nostra Costituzione. Per queste motivazioni, Matassa fu duramente criticato è accusato di “troppa partecipazione, di troppo afflato, di eccessiva comprensione umana…“( fonte Corriere della Sera) A parte che ci sarebbere da discutere su cosa sia la eccessiva comprensione umana, la vicenda mi ha fatto riflettere, dal momento che si colloca nel confine tra cosa è lecito fare e cosa no. Può un uomo per quanto esasperato da una situazione terribilmente complicata, porre fine alla vita di un’altra persona? E’ tollerabile che le attenuanti possano trovarsi nella salute mentale? Perché sembra che questa famiglia fosse lasciata sola nell’affrontare questa situazione? Nessuno si era mai accorto di come ci fosse la possibilità di arrivare ad un punto di non ritorno?

No, non ho delle risposte. Conosco troppo poco di questa storia per potermi permettere di darvene. Spero che, conoscendomi, sappiate che preferisco un sicuro dubbio ad una confusa certezza.

Penso sempre, però, come, in vicende come questa, l’unica mia vera certezza sia muoversi con rispetto. Rispetto delle persone coinvolte. Della storia. Di una morte. Di una storia carica di sofferenza. Una storia, forse, condizionata dalla solitudine di due persone che si sono trovate impreparate ad affrontare quello che il figlio rappresentava per loro. Una storia che, con le sue ombre, le sue ambiguità, le sue incertezze, forse ha qualcosa da insegnare anche a tutti noi.

A presto…

Fabrizio

 

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Super 8

Super 8Ecco un altro film molto interessante da condividere con voi per le tantissime implicazioni narrative e simboliche che il film stesso rappresenta. Parlo di Super 8 film uscito nelle sale nel 2011. Il regista è J.J. Abrams che molti di voi, probabilmente, conosceranno come ideatore e regista della serie televisiva culto Lost, e prodotto da Steven Spielberg che credo non abbia bisogno di presentazioni. Il film è,narrativamente, apparentemente molto semplice. Tratta della storia di un gruppo di ragazzi coetanei, di 13 anni circa, con una passione condivisa: il cinema. Il loro grande progetto è quello di realizzare un film, per girare il quale usano una pellicola super 8 la stessa che da il titolo al film. Nel girare questo film si ritrovano coinvolti in una storia molto più grande di loro che avrà delle conseguenze non solo sulle loro vite ma su quella di tutta la cittadina teatro del film. Non vi racconto altro per timore di potervi rovinare la trama.

Ripeto, se dovessimo fermarci ad un livello narrativo, il film non sembra raccontare molto di nuovo. Invece, credo che, dal punto di vista simbolico, sia un film ricco di spunti interessanti. Credo che il tema del film sia essenzialmente uno: il diventare grandi. Crescere. Questi ragazzi si trovano alle prese con una serie di problemi tipici della loro età pre-adolescenziale. Innanzitutto la morte (in questo caso sia fisica che simbolica) dei genitori e della loro onnipotenza. Da bambini pensiamo, infatti, che i nostri genitori siano plenipotenziari, che riescano cioè a fronteggiare qualunque tipo di situazione. Fa parte del processo di crescita anche l’idea di perdere questa prospettiva, e riuscire a vederli come esseri umani con le loro forze e le loro debolezze. Nel film abbiamo la morte di un genitore di uno dei protagonisti, che lascia dietro uno strascico di incomprensioni (perché lei?) e di rapporti da ristrutturare. Paradossalmente (o forse no!) la morte fisica non sembra essere causa di una maggiore assenza nella vita degli individui. La madre, infatti, sembra riuscire ad essere molto più presente del padre che, invece, fatica ad adattarsi ai cambiamenti che la nuova situazione impone.

Anche nel rapporto padre-figlio è possibile intravedere una serie di passaggi molti importanti tipici dell’età adolescenziale. Il padre vorrebbe che il figlio andasse in un campo scuola, e si gioca la relazione da un punto di vista genitoriale (so qual’è il bene per te!) che può funzionare quando il figlio è piccolo (e crede nella conoscenza del papà!) ma non quando questa è messa in discussione. Il figlio riuscirà a far capire al padre, ribellandosi, quello che lui stesso vuole e solo dopo questo passaggio sembrano riuscire a riacquistare un rapporto migliore.

Altro tema rilevante è la paura. Anzi Le Paure. La personificazione di una di queste paure (il diverso, l’alieno) pervade l’intero film (non voglio svelarvi altro!) e complica notevolmente la trama. Affrontare queste paure con la forza non porta a nulla se non a rendere la paura stessa ancora più potente nella devastazione. C’è una scena, per me bellissima, nella quale la paura non solo viene riconosciuta, ma accettata e compresa. Ci si può rapportare. Solo allora ci si può accorgere che forse non tutto quello che ci spaventa è brutto, che forse non tutto quello che ci terrorizza può ucciderci. Che, forse, il modo migliore per rendere inoffensive le nostre paure e cercare di maneggiarle, esplorarle e capire come rapportarsi con loro. Così, acquistano un nuovo significato, una nuova prospettiva.

Un altro aspetto altamente simbolico riguarda il fatto che il passato stesso permette di voltare pagina nel momento in cui viene superato e lo si lascia andare. Il protagonista sembra essere bloccato da un medaglione per lui molto importante. In una delle scene finali (ancora le immagini raccontano più di tante parole!), il medaglione troverà una nuova collocazione che sembra infine rendere più libero il suo piccolo proprietario.

E come dimenticare di citare il peso di tanti altri campi della vita che cambiano: gli amici (il gruppo dei pari sembra acquisire, in questa età, un peso pari o superiore a quello della famiglia!), i primi amori ( in quest’età si collocano i primi innamoramenti e le prime delusioni d’amore!), le passioni (girare un film sembra per loro l’esperienza più totalizzante della loro vita!), il peso dell’autorità (sia tramite i genitori che tramite le istituzioni, in questo caso l’esercito). Tematiche che iniziano a far parte della trama della nostra vita proprio in quella fase di passaggio.

Insomma un film che nasconde una complessità di sguardi e di piani che affascina. E che, forse, tenta di riflettere la stessa complessità che quella fase di vita, l’adolescenza, ci porta per la prima volta ad intravedere nella nostra esistenza.

A presto…

Fabrizio

 

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Biutiful

BiutifulIl primo dei film che volevo analizzare con voi si intitola Biutiful di Alejandro González Iñárritu(2010). Tra una serie di attività illecite, si svolge la vita della famiglia di Uxbal, padre di due bambini, una femmina e un maschio, Mateo, che vivono con lui. Il film racconta di un contesto familiare sfilacciato, reso precario tanto dalle condizioni economiche quanto da alcuni problemi intrinseci alla famiglia stessa. Fin dall’inizio, infatti, non sembra esserci una figura materna. La marginalità di questa figura fa si che Uxbal si accolli il peso dell’intero nucleo familiare. Il farlo gli provoca tensioni che si ripercuotono, poi, sui figli stessi. Soprattutto Matteo sembra risentire di questa situazione. Manifesta tutto il suo disagio con fenomeni come l’enuresi notturna, spia somatica di malesseri più profondi. Il bambino particolarmente viene conteso tra i genitori che lo usano come ‘merce di scambio’. Credo tutto il film sia attraversato da una evidente difficoltà comunicativa, tra padre e madre, tra padre e figli, tra madre e figli. Questa difficoltà viene ulteriormente accentuata non traducendo i dialoghi tra le varie comunità che vengono rappresentate (asiatica e africana) e sottolinea la problematicità nel comunicare. La mancanza di dialogo pesa sul padre che non riesce ad esprimere la malattia da cui è affetto a nessuno, forse neanche a se stesso. Si sente responsabile dei figli e non sembra poter accettare il fatto che possa mancare loro. Tutti i protagonisti si muovono in un contesto sociale disgregato. Non sembrano esserci amici. Non sembrano esserci famiglie d’origine. Sono soli. Isole. Si intravede un fratello di Uxbal, col quale sembra intrattenere pessimi rapporti. E, per la prima volta, viene citata la madre del protagonista, a cui entrambi si rivolgono con l’epiteto di puttana. Credo sia l’unico riferimento ai genitori. Le famiglie d’origine sono citate tramite alcuni oggetti simbolici e grazie ad alcune immagini che aprono e chiudono il film, come se un ciclo fosse portato a compimento. I protagonisti si muovono in un contesto urbano degradato che trasfigura l’immagine classica di Barcellona, città nella quale il film è ambientato. D’altronde anche loro sembrano essere la trasfigurazione di una famiglia ‘tipo’. Infatti, il rapporto di coppia è problematico. Lui rinfaccia a lei di non esserci ma la soccorre nel momento in cui sta male. Su cosa si incontrano allora? Su cosa fondano il loro ?stare assieme’. Essenzialmente, sono l’incontro di due esigenze complementari: tanto sull’incapacità di lei di prendersi in carico le sue responsabilità (famiglia, figli, lavoro), tanto su quelle di lui di volersi accollare qualunque cosa da solo (famiglia, figli, lavoro). Nel racconto di questa vicenda la realtà non si dice. Si scopre. È infatti la figlia a cercare la verità sulla malattia dopo che lui ha cercato di nasconderla.

Lo spaccato di una famiglia multi problematica sembra dunque l’oggetto di questo film. Ma, credo, sia un film legato anche all’incomunicabilità. Incomunicabilità tra parenti, tra familiari, tra amici. Incomunicabilità con se stessi, con le proprie paure, con le proprie sconfitte. Il film è duro, raccontato con l’uso di colori freddi, a volte glaciali, insoliti per una città mediterranea. Anche la scelta cromatica sottolinea la mancanza di calore, di incontro. L’incomunicabilità, tratto in comune, paradossalmente di incontro, tra i vari membri, esaspera le problematiche presenti e non ne permette una soluzione. Cosa potrebbe voler dire? Che dovremmo imparare a comunicare? Forse. Che potremmo imparare a dirci determinate cose? Forse. O, forse, ci fa vedere come, la mancanza di dialogo, costituisca un terreno dove prosperano le incomprensioni, i non detti, le paure, le indifferenze. Le distanze. Forse.

A presto…

Fabrizio

 

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