Storia di Enzo (3)

Storia di Enzo (3)Questa apertura introduce la possibilità di concentrarci su un’altra questione: perché le idee di noi stessi anche quelle svalutanti sono coltivate con tanta attenzione? Perché sono realtà conosciute? Una delle cose che mi colpisce spesso della mia professione, riguarda il fatto che le persone si costruisco una vera e propria mitologia e, per quanto questa possa essere difficile da mantenere, o strana, o impattante con la propria realtà quotidiana, si trovano a difenderla con le unghie e con i denti non appena questa mitologia viene messa in discussione. Col termine mitologia intendo tutta quella serie di credenze, di idee, di modelli, di archetipi che ognuno di noi si costruisce e che considera fondativi della propria esperienza di vita, che ci guida e ci permette di conoscere il mondo. Talvolta, sembra difficile capire cosa faccia di buono questa visione del mondo, ma ho appreso che una funzione che svolge spesso è quella protettiva. “Protettivo per chi?” vi chiederete. Può essere protettivo per diversi attori: lo può essere per la persona stessa, che vi si trincera dietro e che, tramite questa visione, conosce il mondo. Oppure può essere protettiva nei confronti delle persone significative che, con questa persona, hanno dei rapporti. In altre parole è come se noi avessimo degli occhiali tramite i quali guardiamo il mondo. Questi occhiali non ci consentono di vedere la realtà per quello che è ma per quello che noi crediamo che sia. E ci abituiamo talmente tanto alla visione che questi occhiali ci consentono, da non riuscire ad immaginare nessuna realtà diversa da come l’abbiamo vista e da come pensiamo sia naturale che sia.

Come possiamo muoverci, allora, per provare ad immaginare questo mondo, e il mondo di Enzo in particolare, senza questi occhiali? Innanzitutto credo che il primo passo sia capire che si hanno questi occhiali. Se Enzo non ha la consapevolezza di guardare il mondo tramite una sua visione, ed è invece convinto, come spesso noi facciamo, di vedere una realtà “oggettiva”, non potremmo introdurre dei nuovi occhiali, che permettano di vedere le cose da un altro punto di vista. Oppure non potremmo permetterci di aggiungere dettagli cui prima non prestavamo attenzione. O, ancora, non potremmo permetterci di raccontarci le cose in maniera diversa. Il secondo passo può essere quello di capire se questi occhiali sono adeguati alla nostra vista. Come detto, alcune volte ci adagiamo su delle prospettive, su dei racconti, su delle mitologie, non perché ci facciano star bene quanto perché ormai sono assodate e conosciute. Talmente assodate e conosciute che non ci prendiamo più la briga di metterle in discussione perché le riteniamo più facili, più semplici, più comodi, rispetto alla difficoltà di considerare delle prospettive nuove e non familiari. Prima di abbandonarle forse è necessario capire l’inadeguatezza che queste visioni hanno nella nostra vita attuale. Voglio dire se da piccoli avevamo l’impressione che tutto fosse enorme e irraggiungibile, questa visione è cambiata (spero!) nel momento in cui siamo cresciuti. Quello che ritenevamo fosse assodato da piccoli viene messo in discussione nel momento in cui cresciamo. Ci rendiamo conto come non rappresenti più il nostro mondo. Nel momento in cui percepiamo questa insufficienza nella nostra mitologia magari siamo pronti per sostituirla. E il passaggio può essere compiuto nel momento in cui una prospettiva nuova è stata costruita e permette di mandare in pensione la vecchia.

– Continua –

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Storia di Enzo (2)

images-3-150x150Uno degli aspetti che noto da subito è una forte dipendenza dal giudizio degli altri. Enzo ha paura di muoversi autonomamente, non si sente in grado di far nulla che non preveda il considerare l’opinione degli altri. Teniamo conto che stiamo parlando di una persona di 16 anni. E’ naturale che, nel momento della vita in cui una persona sta costruendo la propria immagine, l’opinione, le impressioni, i rimandi degli altri giochino un ruolo fondamentale. Questa è la premessa che dovremmo tenere presente nell’approcciare con adolescenti. In questa situazione particolare però, noto come gli altri possano plasmare i movimenti di Enzo dal momento che lui è in grado di rinunciare ad un suo interesse solo perché qualcuno ha idea che quell’interesse sia futile.

Credo che questa dipendenza eccessiva dalle opinioni e dalle idee altrui possa segnalare una carente autostima di Enzo. Se l’idea che lui ha di se stesso fosse più positiva, credo che, pur ascoltando e prendendo in considerazione le idee degli altri, sarebbe in grado di poter scegliere da solo e capire cosa sia giusto per se stesso. Se sceglie sempre e solo le idee degli altri come se fossero migliori cosa si sta dicendo? Che le sue valgono meno? Si tratta, ora, di cercare di capire a cosa possa essere dovuta la bassa autostima. Credo che gli ideali che Enzo ha delle persone gli impediscano di vedere le cose per come sono. All’interno di una necessità semplificativa di un mondo in evoluzione, un mondo che lo vede come bambino e come adulto, come maturo e come immaturo, che fornisce, cioè una serie di segnali discordanti per cui la confusione aumenta, gli adolescenti sono spesso presi nel gioco dell’Assoluto, dei Posizionamenti, per cui le cose sono o tutte belle o tutte brutte, o tutte giuste o tutte sbagliate, impedendo loro di cogliere quelle sfumature, quell’ambivalenza semantica che, giocoforza, fa parte delle umane cose. Questo è il motivo per cui spesso si trovano a tenere in piedi posizioni intransigenti delle quali anche loro avvertono le costrizioni ma che, in qualche misura, li difendono dal caos. In un momento di transizione ognuno di noi non si aggrappa ad alcune certezze? Nell’idea di Enzo la dicotomia, la separazione, avviene tra l’interno e l’esterno. Il buono sembra essere esterno mentre il negativo sembra essere interno. E’ovvio che questa separatezza sia più ideale che reale ma riesce in qualche maniera a compenetrare tutto il suo mondo. Come si può relativizzare una posizione del genere? Nel mio lavoro utilizzo due chiavi per me fondamentali: l’ironia e la metafora. Uso molto spesso metafore, immagini attraverso le quali riesco a condensare delle realtà spesso incomunicabili e incomprensibili. Tramite la metafora avviene questa sorta di magia per cui l’altro capisce cosa voglio dire e l’immagine che gli rimando può essere più facilmente assimilata e ricordata per cui il lavoro alla fine può risultare più facile. Anche l’ironia, termine con il quale, nel rispetto della storia che mi si porta, intendo quella capacità di saper sorridere in certi frangenti, è un mio grande alleato: fa parte del mio modo di essere e riesce in qualche maniera ad abbassare il tono tensivo in alcuni momenti. Tramite questi due ‘strumenti’ riesco a relativizzare la posizione assolutista assunta su alcuni punti da Enzo e introduco una possibilità di dubbio in realtà che, prima, venivano date come assodate, certe, indiscutibili.

– Continua –

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Storia di Enzo (1)

Storia di enzo 1Volevo condividere con voi un caso clinico. Inutile vi dica che i dettagli di queste storie sono modificati per preservare l’identità delle persone. Chiameremo questo ragazzo Enzo. Enzo ha sedici anni, va bene a scuola, è molto educato e sveglio. E’ un piacere lavorare con lui, riesce a seguire ragionamenti anche abbastanza complessi, è curioso. Insomma, una splendida persona. Se non fosse che ha un problema che lo assilla: la tricotillomania. Per chi di voi non sapesse cos’è, vi posso dire che la tricotillomania è un atto di autolesionismo che consiste nello strapparsi i capelli. Inutile vi dica che questo sintomo segnala un disagio abbastanza pronunciato. Io vedo Enzo una volta alla settimana da circa due mesi. Aveva cercato di iniziare altri percorsi terapeutici ma senza riuscire a trovare un suo senso, tanto che più volte ha sospeso la terapia. Quando arriva da me, uno degli aspetti che reputo più interessante riguarda il fatto che io sono un uomo mentre gran parte delle altre persone con cui ha lavorato in precedenza erano donne. Non è, naturalmente, una questione di sesso, quanto una questione di possibile identificazione con una figura maschile. Enzo non ha, infatti, un buon rapporto con il padre. Tende a non volerlo coinvolgere nella sua vita e a non farlo partecipe di quello che gli accade. Ne parla in tono accusatorio e svalutante mentre tutt’altro discorso fa sulla madre che sarebbe attenta e vicina alle sue esigenze. Parlandone con il mio supervisore, notiamo come questo elemento potrebbe far si che il rapporto tra noi possa essere costruttivo e che lui possa trovare in me una figura maschile positiva con la quale stabilire una buona relazione. Pensiamo, infatti, come uno dei limiti che possono aver sabotato le altre terapie potrebbe essere la coincidenza tra la figura terapeutica e la figura materna. Dobbiamo tenere presente che parliamo di un adolescente che, da bravo adolescente, sta mettendo in discussione le figure genitoriali. Perché le dovrebbe riaccettarle sotto forma di terapeuta? Da questo punto di vista io costituisco una rottura: sono più giovane e non identificabile con una figura genitoriale.

Il rapporto tra noi, dopo una normale diffidenza, inizia ad essere buono. Il tema principale, la tricotillomania, sembra rimanere sullo sfondo e non viene mai portato direttamente. Il rispetto per i suoi tempi, mi suggerisce di non affrontare subito, forzandolo, questo tema. Il mio pensiero ricorrente riguarda il fatto che Enzo sia stato sempre visto come quello-che-si-strappa-i-capelli. Non ho nessuna intenzione di etichettarlo nello stesso modo e lascio che inizi a mostrarmi quello che preferisce della sua vita. Naturalmente, scopro come ci sia moltissimo altro. E iniziamo a lavorare su quello che mi porta. Innanzitutto, la prima cosa che faccio è quella di cercare di far si che venga fuori la motivazione per cui viene da me. Non voglio che possa rifugiarsi dietro un “mi obbligano” ma che si veda come una persona che può scegliere cosa fare.

– Continua –

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Scuola, insegnanti & genitori…

scuola insegnanti e genitoriCiao Fabrizio…come tu sai sono un’insegnante di sostegno ormai da tanti anni. Approfitto di questo blog per chiederti quali sono le strategie che è meglio utilizzare per aiutare i genitori a rivolgersi con fiducia ad uno psicologo, dal quale potrebbero trarre enormi vantaggi sia in termini di aiuto nell’accettazione dell’handicap ma soprattutto per individuare percorsi agevoli ed efficaci nell’educazione dei ragazzi. Troppo spesso il nostro consiglio viene frainteso o visto come atto d’accusa. grazie e grazie soprattutto per aver messo a disposizione di tutti la tua professionalità e competenza. un bacio Gloria

Ciao Gloria..

Innanzitutto grazie per l’ottimo quesito. Ho già affrontato in parte l’argomento in un precedente articolo dal titolo Salute mentale e malattia…(08.03.11). La mia posizione è che dallo psicologo non ci vadano per niente i matti quanto persone che vogliono in qualche modo fare il punto sulla loro situazione. Il mio punto di vista non è però supportato dalla stragrande maggioranza delle persone per le quali vale sempre il sottotesto per cui, se ti rivolgi ad uno psicologo, c’è qualcosa che non va in te. Quindi credo di capire il problema che mi poni. Mi chiedi quali siano le strategie. Sinceramente, non credo ci sia una strategia per far capire alle persone quanto potrebbero giovarsi di questo tipo di percorso. Credo che una possibile strategia sia la fiducia nel rapporto che hai instaurato con loro. Voglio dire: se sanno con quanta dedizione ti occupi al tuo lavoro, se pensano a come consideri i tuoi allievi non lavoro ma persone, se conoscono la passione con la quale ti occupi dei loro problemi, non possono non vederti come un punto di riferimento anche in questioni extrascolastiche. Nel momento in cui tu, in base alla tua esperienza, dovessi fare una proposta del genere a dei genitori come pensi che potrebbero pensare che li stai giudicando? Anzi, forse ti saranno grati per avere saputo indirizzarli verso un possibile appianamento della situazione. La questione potrebbe sorgere, secondo me, nel momento in cui questo consiglio viene dato solo per scaricare su altri un presunto problema. In quel momento i genitori possono non sentirsi supportati e pensare che li si stia giudicando inadeguati e incompetenti.

Questo punto mi porta alla considerazione più ampia per cui dovrebbe esistere un lavoro di rete, di società che, lontano dal volere approfittare dei malesseri altrui, possa in qualche modo fungere da fattore di indirizzamento e di orientamento per varie persone. Questa eccessiva parcellizzazione delle mansioni porta a non volersi mai prendere carico di qualcosa che vada appena al di fuori delle nostre responsabilità. Forse, invece, è ora di assumere queste nostre responsabilità per far si che il nostro passo in più possa, in qualche modo, aiutare l’altro.

Questo è uno dei motivi principali che mi ha spinto a creare questo blog: la possibilità che si potesse far rete, che persone con esperienze diverse potessero mettere in gioco ognuno il suo punto di vista mossi da una visione comune. Dovremmo cercare di renderci conto delle enormi potenzialità che l’affrontare una questione da molteplici punti di vista grazie all’integrazione piuttosto che alla frammentazione degli interventi potrebbe portarci.

A presto…

Fabrizio 

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Aspetto estetico o…?

Aspetto estetico o...Caro dottore,
approfitto di questo spazio per una richiesta: potresti parlare dei problemi legati all’aspetto estetico? Dalla tua esperienza c’è un modo per fare pace con se stessi e, se non arrivare a piacersi, riuscire a trovarsi simpatici? Io passo periodi più o meno lunghi in cui mi piaccio fisicamente e sono felice, poi basta un niente e mi rendo conto che ho solo finto di piacermi, allora mi rattristo e mi sento ridicola per tutti i tentativi che ho fatto per nascondere le mie mostruosità.
Ho provato a fare come faccio con le esperienze professionali del tipo ” mi propongo- ho successo- creo un circolo virtuoso ricordando le volte che sono stata confermata come attraente ” ma non ha la stessa forza, basta la percezione di un velo di ironia in una frase, uno sguardo che io interpreto come critico che tutto il castello crolla.
mi fermo qui e aspetto fiduciosa.

Salve, eccomi qua a rispondere alla sua richiesta. La domanda riguarda l’aspetto estetico. Pensate possa esserci qualcosa di più pressante in una società dominata dall’apparire? Quale senso di inadeguatezza possa manifestare il sentirsi brutti o non accettare la propria immagine quando il rimando sociale è assolutamente imperniato sull’apparire sempre splendidi e a posto. Mettendo un secondo da parte il peso predominante dell’apparire, c’è una cosa che mi colpisce nella sua domanda e credo che sia li che si annidi l’ incognita. Nella sua domanda lei mi chiede come si faccia a fare pace con se stessi. Mi verrebbe da chiederle: quando ha litigato con se stessa? Mi chiedo di quale mostruosità parli. Se la percezione di se stessa è quella di lite, di mostruosità, giocoforza deve scendere a patti con la realtà quotidiana indossando una maschera che nasconda questo di lei. In un mondo in cui non si può neanche ipotizzare di essere mostruosi, certo non si può pensare di mostrare agli altri le nostre “mostruosità”. E indossiamo, per questo, una maschera che, se ci nasconde, però non ci rappresenta, è posticcia. Questo sentirsi una cosa ma fingerne un altro credo possa creare un senso continuo di inadeguatezza che ci fa stare male con noi e con gli altri. Ci sentiamo mostruosi e anche “falsi”, finti, costruiti, come se il nostro fosse tutto un bluff che, prima o poi, verrà scoperto. E finalmente gli altri si accorgeranno di quale inganno siamo. Ha mai pensato, così, per assurdo, che la prima ad accettare le nostre ‘mostruosità’ dovremmo essere noi? Se le accettassimo magari potremmo pensare di farle vedere senza sentirci dei mostri. Ho volutamente fatto un passaggio dal piano fisico al piano psicologico perché credo che i due piani siano strettamente intrecciati. Il senso di mostruosità fisico, che, sono sicuro, non abbia, passa da un senso di mostruosità psicologica sul quale potrebbe riflettere. Passando da questo percorso forse l’aspetto estetico sarebbe meno impattante.

A presto…

Fabrizio

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Terapia di gruppo & terapia individuale…

Terapia di gruppo & terapia individuale...Volevo parlarvi di una argomento di cui mi chiedono spesso: è meglio fare una terapia individuale o una terapia di gruppo?

Quale può essere la risposta? Dipende. Non dipende dalla tematica che si può trattare perché certe tematiche sono affrontabili sia in terapie individuali che di gruppo. Diciamo che la differenza riguarda essenzialmente quello che viene chiamato il setting terapeutico. Il setting è l’assetto della terapia stessa, il modo in cui viene organizzata (a livello di spazi e di interventi) e delle dinamiche che si possono instaurare tra i partecipanti e tra questi e il terapeuta.

Una delle differenze sostanziali riguarda il fatto che la terapia di gruppo si svolge, appunto, in gruppo. Questo permette ai partecipanti di poter delegare la loro posizione agli altri membri. Il gruppo è qualcosa di più della somma dei suoi singoli componenti. Permette a ciascuno di prendere i suoi tempi, di non esporsi nel momento in cui ci si sente più fragili, di partecipare quando ci si sente pronti. Un tema può essere affrontato per interposta persona, nel senso che un membro del gruppo può ricoprire la funzione di portavoce, e rappresentare in questo anche altre persone che non ritengono/non vogliono esporsi di fronte agli altri. Questo, però, permette loro di relazionarsi con quella tematica e, tramite le emozioni esposte dall’altro partecipante, consente di scandagliare e conoscere meglio le proprie. In questo la terapia di gruppo è, apparentemente, più protettiva. Ma dovremmo tenere conto di un altro fattore che entra in gioco: l’esposizione rispetto agli altri. Questo aspetto, di contro, può frenare molto la terapia nel momento in cui si avverte il “peso” del gruppo come limitante. Nella terapia individuale questo è più difficile o, meglio più facilmente gestibile dal momento che ci si trova di fronte ad un rapporto più diretto e meno impattante da questo punto di vista. Certo, c’è il rovescio della medaglia. In terapia individuale, la persona si trova in prima linea e non può delegare le proprie emozioni ad altre persone. Questo, naturalmente, non significa che non ci si possa prendere i propri tempi anche in una terapia individuale. Tutt’altro. Ma non ci sarà la possibilità che qualcuno prenda la parola e parli a nome nostro. Saremo noi gli ambasciatori di noi stessi!

Un’altra differenza sostanziale riguarda il tempo: la terapia di gruppo solitamente dura di più rispetto a quella individuale. Quella individuale dura all’incirca un’ora, quella di gruppo, a seconda del numero di partecipanti, arriva a durare anche due ore.

Quale dei due approcci consiglierei allora? Diciamo che dipende dalle motivazioni di ciascuno di noi. Potrebbe essere utile iniziare una terapia di gruppo e passare, nel momento in cui ci si sente pronti, ad una terapia individuale. Vorrei però ribadire che una delle due non è in contrasto con l’altra ma semplicemente diverse e possono benissimo essere integrate. Entrambi gli approcci credo arrivino a condividere gli stessi obiettivi: la maggiore consapevolezza della persona.

 

A presto…

Fabrizio

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

A proposito di famiglie…

A proposito di famiglie...Vorrei affrontare oggi un argomento forse più legato al rispetto che alla psicologia. Ma, volendo fare di questo blog un luogo vivo, non posso esimermi dal commentare alcune notizie apparse in questi giorni sui giornali. E poi credo che il mio lavoro debba tenere sempre presente il rispetto per le altrui vicende. La notizia è del 23 aprile, antivigilia di Pasqua. E riguarda una pubblicità. Più esattamente riguarda la pubblicità della catena svedese Ikea. Nella pubblicità per il mercato italiano si vedono due uomini presi per mano, fotografati di spalle, accompagnati dallo slogan “Siamo aperti a tutte le famiglie”. Voi, forse, direste: ebbè? L’avrei detto anch’io, se non fosse che questa campagna pubblicitaria è stata accusata niente meno che di offendere la Costituzione Italiana. Un Senatore, nonché Sottosegretario del Parlamento Italiano, infatti, ha dichiarato che “il termine ‘famiglie’ è in aperto contrasto contro la nostra legge fondamentale che dice che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio, ed è usata in quella pubblicità in polemica contro la famiglia tradizionale, considerata datata e retrograda”(fonte: La Repubblica).

La pochezza di questa polemica avrebbe già dovuto indurmi a non continuare. Ma vorrei solo aggiungere alcune considerazioni: A) non viene detto da nessuna parte che quella famiglia (due uomini) sia in contrasto con la famiglia tradizionale, ne che la prima sia moderna e d’avanguardia mentre la seconda datata e retrograda. Forse questa è più l’idea del Sottosegretario in questione? mah; B) il fatto che esista un tipo di famiglia non organizzato su padre/madre/due figli/cane/station wagon/vacanze ad agosto non vuol dire che un modello sia meglio dell’altro: semplicemente esistono entrambi; C) primo aggettivo che mi lascia perplesso: naturale. Manderei al Sottosegretario una mail per chiedere cosa intenda per naturale. Probabilmente la leggerebbe, forse non rispondendo, tramite un pc. O, peggio ancora, un palmare. E’ forse naturale quello che vi ho descritto potrebbe fare? Se fosse per la natura, lui non riceverebbe nessuna mail (e tanto meno, aggiungo, siederebbe in qualche parlamento). Propongo al Sottosegretario di essere pagato d’ora in poi con frutti della terra invece che con realtà così innaturali come le banconote. Immagino la risposta…; D) secondo aggettivo: TRADIZIONALE.. tradizionale? E quale sarebbe questa fantomatica famiglia tradizionale? Uomo+donna? Uomo+donna+figlio naturale? Uomo+donna+figlio adottivo? Uomo vedovo? Uomo vedovo+figlio naturale? Donna vedova+figli del compagno morto? Uomo separato + figli? Donna risposata+secondo marito+figli del primo matrimonio del secondo marito? Ragazza madre+figlio non riconosciuto dal padre naturale ma adottato dal nuovo compagno? Quale di queste avrebbe il titolo di tradizionale? E, badate, sono rimasto nell’ambito di una relazione uomo/donna. Altrimenti questa lista sarebbe potuta andare avanti per parecchio!

Quando queste persone smetteranno di semplificare la realtà in maniera così superficiale e banale, forse non avremmo risolto il problema. Ma almeno potremmo riflettere mettendo da parte facili giudizi e ancor più facili moralismi.

P.S. Il Sottosegretario in questione non viene mai nominato perché non vorrei mai che lui, usando giustappunto una pubblicità, usasse questo pretesto polemico irrisorio, con un unico scopo: farsi pubblicità! Il fatto che questa polemica sia stata aperta alla vigilia di Pasqua era del tutto casuale, suppongo. Sarò anche aperto a tutte le famiglie ma non sono ancora aperto a tutte le sciocchezze.

A presto…

Fabrizio

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Sulla durata della terapia…

Sulla durata della terapia...Tornando all’argomento legato al tempo in terapia vi volevo specificare alcuni dettagli del tempo in terapia nella mia modalità lavorativa. Credo che ogni psicologo abbia una traccia riguardo questo, un suo modus operandi che lo orienta nelle scelte legate al processo col paziente. Come vi ho accennato, una delle mie convinzioni riguarda la cadenza settimanale per lo meno nel primo periodo di terapia. La cadenza settimanale è necessaria non solo per stabilizzare la relazione, ma anche per permettere la conoscenza della persona. Questa cadenza è da tenere, verosimilmente, per alcuni mesi, dopo di che si può pensare ad un cadenzamento più distanziato. Questo timing dipende da vari fattori: come sta la persona, come si senta e dal fatto che si senta bene nell’allungare i tempi della terapia. Quanto a lungo duri questo, abbiamo detto, dipende dall’esito della terapia stessa. Ed eccoci al casus belli (oggi sono per i riferimenti in latino!): qual è l’esito della terapia? Molti di voi risponderebbero ‘la guarigione’. Ovviamente, credo che il miglioramento della condizione problematica, il sintomo, che ha portato la persona a rivolgersi ad uno psicologo sia un primo passo. Ma è anche l’ultimo? Penso che il sintomo sia una sorta di segnale che emerge per dirci come qualcosa di noi stessi non ci vada più bene, un richiamo che comunica la possibilità di percepire qualcosa di più di noi: perché quel sintomo è nato? cosa ci sta descrivendo? come dobbiamo vederlo? Che significato ha per noi la sua presenza? Queste domande presuppongono una curiosità su noi stessi che tendiamo spesso a mettere da parte. Dov’è allora la guarigione? Nella sparizione del sintomo? O in una nostra migliore conoscenza? Credo debba essere questo l’esito della terapia. Può essere una strada in salita ma questa curiosità può poi sfociare in un modo migliore di rapportarci a noi stessi. E quindi avremmo la possibilità di soffermarci a dare una lettura più profonda della nostra stessa vita e di ciò che essa significhi per noi. Il tutto a partire da quel sintomo che consideriamo essenzialmente un problema. Tutto si rovescia, e acquista una nuova valenza: la guarigione (si può guarire non essendo stati malati?), il sintomo (da combattere o da ascoltare?), il senso (è un problema o un opportunità?) Tornerò su questo argomento. Voi, intanto, che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Ogni quanto andare dallo Psicologo?

Ogni quanto andare dallo PsicologoTorniamo a parlare degli aspetti diciamo così, pratici del rapporto tra terapeuta e paziente. Abbiamo già visto chi sia lo psicologo e, in parte, perchè si vada dallo psicologo. Oggi trattiamo la questione tempo: ogni quanto si va dallo psicologo e quanto dura una terapia.

Diciamo che non c’è una risposta univoca ad entrambe queste domande.

Ogni quanto si va dallo psicologo: alcuni psicologi sottolineano l’importanza di un rapporto cadenzato almeno settimanalmente, altri fissano più incontri alla settimana per un periodo che può durare anche alcuni mesi. Molto dipende dallo stato in cui si trova la persona che fa la richiesta di terapia. Dopo, il rapporto può essere diluito a seconda delle esigenze e della sensibilità della persona in questione. Io personalmente credo che, nella costruzione di un rapporto particolare come quello terapeutico, gli incontri siano da cadenzare a seconda degli attori in gioco ma, per lo meno inizialmente, sia necessario almeno un incontro settimanale. Per quanto tempo duri questo, dipende dall’esito della terapia stessa. Data la molteplicità dei fattori in gioco è molto difficile poter dare risposte definitive in merito. E’ possibile, però, affrontare con chiarezza questo argomento fin dall’inizio della terapia. Potete per esempio dare/vi un tempo di controllo per vedere come sta andando il processo. Quello che vi posso consigliare è di parlare delle vostre impressioni e delle vostre esigenze con la persona alla quale vi siete rivolti.

Seconda parte della domanda: quanto dura una terapia? Come abbiamo detto anche per questa domanda non c’è univocità di risposte: ci sono terapie molto brevi (anche solo tre, quattro incontri), altre che durano molto più tempo. Anche in questo caso gran parte dell’esito dipende dalla relazione che si instaura tra terapeuta e paziente. E anche in questo caso l’unica cosa che mi sento di suggerire è quella di parlare con la persona con la quale state lavorando.

Come avrete capito, l’aspetto che mi preme sottolineare è l’unicità della relazione terapeutica che non permette un’invariabilità nella risposta. Ovviamente esiste l’orientamento generale del terapeuta. Questo orientamento può essere dato, tra le altre cose, dal suo indirizzo di specializzazione, dalle sue convinzioni personali e lavorative, dalla sua impostazione terapeutica. Ora potete capire la difficoltà di indicare a priori la durata di una relazione di questo tipo!!

Sperando di aver chiarito un altro punto vi saluto.

 

A presto…

Fabrizio

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Ansia e dintorni…

Ansia e dintorni...“Ciao Fabrizio, volevo approfittare del tuo blog per farti una domanda su un problema che è stato presente per svariati anni della mia vita sportiva agonistica e che ora riguarda alcuni dei miei allievi. Questa è l’ansia da prestazione credo, una tensione ingombrante e difficile da ignorare che comincia a presentarsi nelle ore successive alla gara e spesso disgraziatamente trova il suo apice durante la stessa prestazione, invalidandola irrimediabilmente, nonostante magari la preparazione fisica sia uguale, se non più alta, di quella dei relativi avversari.
Mi rendo conto anche che sia una cosa molto soggettiva in quanto alcuni non sembrano aver mai conosciuto ansia da gara,se non quel minimo che si dovrebbe provare normalmente e che in alcuni casi può anche essere utile.
Vorrei da te un consiglio su ciò che potrei dire o fare per alleviare nei miei allievi questa scomoda presenza, visto che io in tanti anni ho dovuto conviverci senza mai riuscire a vanificarne gli effetti, se non in poche occasioni.
Ti ringrazio :-)”

Approfitto della domanda di Atlante79 per parlare di un argomento che gode di sempre maggiore attenzione: l’ansia da prestazione. Questa si presenta subdolamente proprio nel momento in cui è richiesta la prestazione e, facendoci concentrare su aspetti che nulla hanno a che fare con la prova stessa, ci distolgono non facendoci raggiungere il risultato atteso. Possiamo così notare come si inneschi un circolo vizioso per cui, una volta provata quella sensazione non piacevole, ogni qual volta ci troviamo in una situazione simile temiamo possano insorgere gli stessi sintomi.

Questi sintomi sono vari e possono essere di natura psichica (paura, senso di inadeguatezza,… ) oppure fisici (sudorazione, tachicardia, senso di soffocamento…)

Diciamo che l’ansia da prestazione, specificamente quella sportiva ma non solo, può insorgere in concomitanza di fattori quali: bassa autostima, paura del confronto con gli altri, alte aspettative sulla propria prestazione.

Il tema andrebbe approfondito con la persona che ne soffre. Come si manifesta di solito nei tuoi atleti? Uno dei consigli che ti posso dare è quello di far concentrare l’atleta sulla prestazione. In allenamento prova a far pensare loro di essere soli, di modo che in gara non siano schiacciati dalla paura del confronto con gli altri atleti o dalla paura di deludere le aspettative degli altri. Cerca di farli concentrare sulla tecnica che stanno eseguendo nel movimento di modo che, stando attenti alla tecnica stessa, possano porre meno attenzione alla prestazione e alle sue conseguenze. Posso suggerirti un’altra mossa: dato che l’hai vissuto in prima persona, pensa a quello che avresti voluto sentire dirti in quei frangenti: magari aiuterai una persona a non innescare lo stesso circolo vizioso.

Fammi sapere come va e se questi piccoli accorgimenti possono risultarti utili!

A presto…

Fabrizio

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Salute mentale e malattia…

Salute mentale e malattia...In questo post affronteremo la differenza tra salute mentale e malattia. L’idea comune vuole che dallo psicologo ci vadano i matti. Questa idea è talmente radicata che le persone spesso non si trovano a loro agio nel dire che stanno andando da uno psicologo, come se questo potesse avere ripercussioni sulla loro immagine sociale. Voglio dire, nessuno si sognerebbe di pensare a cosa sta pensando l’altro se gli dicessi che sto andando da un dentista. Invece molti pensano che l’altro potrebbe pensare ‘male’ di noi se sapesse che stiamo andando da uno psicologo.

Il pensiero automatico è l’associazione tra l’andare da uno psicologo e pensare che ci sia qualcosa che non va.

Credo che dovremmo iniziare a sfatare questo mito con alcune obiezioni:

  1. Come abbiamo detto, una persona che si rivolge ad uno psicologo non necessariamente è una persona con problemi mentali. Talvolta è semplicemente una persona che si trova in una fase della propria vita nella quale è necessario fare un punto. Talvolta si tratta di periodi complessi della propria storia personale (lutti, separazioni, grossi cambiamenti…) che non permettono di vivere serenamente e risultano ostacolo per il futuro. Talvolta, però, l’insorgenza del problema sembra non essere legata a nulla di diverso da ciò che facevamo di solito, e questo spaventa, disorienta, fa pensare che la causa del malessere possa essere grave, possa essere l’esordio di qualcosa di molto serio. A volte questa stessa paura atterrisce più del sintomo stesso e ci porta ad essere ostaggio di entrambi: del sintomo e della paura. Tra queste paure possiamo mettere anche quella che le persone ci considerino matti, etichettandoci e isolandoci.
  2. Questo ultimo punto può innescare un cortocircuito potenzialmente pericoloso: la paura dell’isolamento può portare a negare il fatto di percepire un problema, e spingerci a trascurarlo o ignorarlo. C’è il rischio così di un aggravamento che, mettendo ancora più timore, rende la soluzione apparentemente sempre più lontana e difficile. In questo senso un punto di vista esterno può spezzare il circolo vizioso permettendo di vedere da una prospettiva più obiettiva la situazione.
  3. Non penso che il confronto con l’altro sia mai una cosa sbagliata. Se l’altro è anche qualificato e viene da anni di studio, il confronto può produrre risultati molto buoni.
  4. La maggiore obiezione che mi viene in mente è, però, una delle premesse della mia impostazione personale e lavorativa.Credo, come disse Seneca, che l’uomo sia un animale sociale e che sia inserito in una serie di relazioni, significative e non, che lo forgiano e che lo plasmano. Data questa premessa non ha senso dire che una persona è matta semplicemente perché equivarrebbe a considerarla come una realtà a se stante ed isolata. Se accettate le mie premesse, dovreste condividere anche le conclusioni: più che considerare la persona come malata possiamo al massimo parlare di relazioni alterate. Possiamo discutere poi di come queste alterazioni nelle relazioni si riflettano sulla singola persona.

Come al solito vi lascio con più domande che risposte ma l’arte del dubbio è una delle arti che più mi affascinano. Su alcune tematiche ovviamente, data l’ampiezza, torneremo a parlare.

 

Per il momento buona riflessione.

A presto…

Fabrizio

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected