Gli adolescenti in terapia

adolescenzaL’argomento di questo post nasce da una considerazione circa la presunta differenza tra il comportamento degli adolescenti nella vita quotidiana e in terapia. Mi spiego meglio. Dalla mia posizione professionale la cosa più macroscopica che mi trovo spesso a dover fronteggiare quando un adolescente arriva in terapia è la discrepanza tra come lo stesso adolescente è raccontato dai suoi genitori e come invece si comporta durante la seduta stessa. E, in generale, durante la durata del lavoro con me. Nella professione, quando ho a che fare con un minore, il primo colloquio è organizzato con i genitori del ragazzo stesso di modo che possa farmi un’idea dell’organizzazione familiare.

Durante questo primo colloquio capita spesso che i genitori facciano del proprio figlio un quadretto non proprio edificante. Immaginatevi la sorpresa quando al posto dell’essere selvaggio descritto dai genitori viene in seduta un ragazzo educato, rispettoso, attento, spesso molto sensibile e in grado di relazionarsi con un adulto. Ovviamente, questa discrepanza potrebbe essere legata al fatto che il nostro sia un primo incontro. Nel momento in cui acquisirà più confidenza, penso, vedrò anche io quegli aspetti deleteri che mi hanno descritto i suoi genitori. Invece no, la ‘magia’ continua anche dopo la prima seduta e il lavoro continua, talvolta attraversando temi complessi, ad essere piacevole e produttivo. Come è possibile questa discrepanza? Come possono essere così diversi da un ambiente all’altro? Ho trovato a questo proposito interessante un passaggio del testo dello psicoterapeuta Pietropolli Charmet che vi riporto: 

Alla temperatura relazionale adatta al suo temperamento, la fragilità narcisistica dell’adolescente di oggi diventa una risorsa impensabile in altri contesti e a diversi climi relazionali. Ne posso portare devota testimonianza professionale: gli adolescenti fragili che ho incontrato in questi anni di consultazioni durante le crisi evolutive -anche di una certa gravità per i rischi che comportavano, se ritenevano di potersi fidare dell’interlocutore, se cioè lo ritenevano adatto a condividere la loro verità, assumevano nei confronti della relazione responsabilità elevatissime, ed erano capaci di sincerità e generosità relazionali altissime, quasi commoventi soprattutto non sapendo come ricambiare tanta fiducia e creatività relazionale. Non è un’esperienza solo di qualche psicologo particolarmente esperto o seduttivo, ma fa parte del bagaglio di esperienze di qualsiasi adulto sia stato disponibile ad ingaggiare una relazione con un’adolescente alla ricerca di adulti competenti. Si avvera in questi casi un evento relazionale quasi sorprendente, del tutto impensabile se ricondotto all’afasia simbolica che lo stesso adolescente presenta in classe, in gruppo, in famiglia o in palestra. Nella relazione investita affettivamente, l’adolescente fragile sfoggia una sensibilità strepitosa ed una capacità introspettiva che rendono ragione della sua fragilità, e che gli regalano un contatto intenso e veritiero con alcune rappresentazioni mentali profonde, generalmente inaccessibili, perché scomode da pensare e fonti di malessere per chi non si abituato a mantenere un contatto con i contenuti più profondi della propria mente. È molto probabile che sia questo il motivo che rende sorprendenti certi prodotti creativi dell’adolescente fragile, che sembrerebbero incompatibili con lo stile comunicativo trasandato e scontato con cui si esprime nella quotidianità scolastica e familiare; e che, del tutto inopinatamente, sono prodotti espressivi di qualità. [1]

Ma allora cosa contribuisce a costruire quella che l’autore chiama temperatura relazionale adatta? Una delle grandi doti che è necessario avere è la capacità di ascolto e l’interesse per quello che l’altro condivide. Sono due ingredienti fondamentali e per niente scontati nelle relazioni in generale e nelle relazioni con adolescenti in particolare. In un momento della loro vita nel quale stanno cambiando, è necessario che abbiano una figura adulta di riferimento che possa aiutarli a far venire fuori quanto di non detto caratterizza le loro vite perché, pensano spesso, ‘tanto di me che gliene importa’. Quando si accorgono quanto a qualcuno gliene importi di loro, si può avere in cambio una relazione che ha risvolti sorprendenti e che consente di aprire spiragli inediti sulla loro storia. Ripeto, non è una magia e non credo di avere poteri magici. Anzi, spesso, paradossalmente, chiedo loro quale magia avvenga in studio che non sia possibile replicare all’esterno dello studio stesso. Questo li obbliga a pensare come quello che hanno appena sperimentato con me possa essere replicato anche fuori. Li costringe ad uscire dalle risposte più scontate, come ‘ma qui è diverso‘ o ‘ma tu sei uno psicologo‘, e permette loro di autorizzarsi a far si che ciò che hanno costruito con me sia possibile anche in altri contesti. In questo caso le possibilità di condividere la loro storia è decisamente molto più probabile e porta a risultati insperati.

Chi volesse condividere le esperienze con adolescenti (genitori, fratelli, nonni, professionisti) è invitato a farlo (mail: fabrizioboninu@gmail.com oppure telefono 3920008369). Se poi volessero parlare gli stessi protagonisti di questo post… beh, non potrebbero farmi un regalo migliore. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pietropolli Charmet, G. (2008), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 106- 108

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FILM: Stelle sulla terra

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Qualche tempo fa ho visto un film particolarmente bello ed indicato per coloro che si vogliano occupare di disturbi dell’apprendimento. Il titolo del film è Stelle sulla terra (Taare Zameen Par) ed è diretto dal regista indiano Aamir Khan. Il film racconta la storia di Ishaan, un bimbo di otto anni, che ha un rapporto complicato con la scuola e, in generale, con quasi tutte le persone che lo circondano, che non capiscono perché si ostini ad essere così poco amabile. La verità è che Ishaan è affetto da DSA, disturbo specifico di apprendimento, ma senza nessuna diagnosi specifica. Non compreso e deriso per la sua difficoltà, Ishaan si trova a vivere un’esperienza scolastica altamente frustrante. Il bimbo infatti, non riuscendo a comprendere cosa viene spiegato e fatto a scuola, rimane molto indietro rispetto ai compagni e gli insegnanti, poco attenti alle sue esigenze, si chiedono perché non possa essere come gli altri. Ovviamente, ricevendo questo stimolo dagli adulti, anche i suoi compagni lo prendono in giro. Le difficoltà di Ishaan non sono limitate al contesto scolastico: anche all’interno della sua famiglia non gode di molta comprensione se non da parte della mamma, che però non riesce a capire come comportarsi con lui. Il padre è particolarmente severo ed è molto arrabbiato per il fatto che non sia ‘perfetto’ come il fratello maggiore. Questo continuo paragone non fa che accentuare le difficoltà di Ishaan anziché essere stimolo per la sua crescita. Questa rimarcata polarizzazione tra i due fratelli (fratello grande=buono, fratello piccolo=cattivo) è ulteriore fonte di frustrazione e quindi di rabbia del bimbo. Oltretutto viene spesso colpevolizzato perché la madre, per seguirne l’educazione, è stata costretta a lasciare il suo lavoro. Gli adulti attorno a lui non si rendono conto della difficoltà del bambino e non cercano di attuare delle strategie che possano aiutarlo a ridurla. L’ennesimo episodio nel quale il bimbo viene rimproverato, è causa della sua fuga da scuola. Questo episodio determina una reazione particolarmente dura da parte dei genitori che decidono di mandarlo in un collegio dove pensano che i metodi coercitivi applicati avranno una buona influenza sulla sua educazione.

Il bambino reagisce malissimo a questa novità. Non prende bene il cambio di scuola  l’allontanamento dalla sua famiglia. Inizialmente l’esperienza in collegio è spaventosa: Ishaan non riesce a legare con nessuno dei suoi nuovi compagni ad eccezione di Rajan, ragazzo con un handicap fisico ma anche miglior alunno della classe. Anche in collegio ha rapporti scarsi e conflittuali con gli insegnanti che lo giudicano stupido.

In un contesto nel quale le regole sono diventate ancora più ferree, Ishaan si sente ancora più trascurato e reagisce isolandosi sempre di più, non riuscendo a comprendere quale possa essere la strategia migliore per rapportarsi con gli altri e con la nuova realtà che lo circonda. Le cose sembrano destinate a peggiorare quando all’interno della scuola arriva un nuovo insegnante il maestro Ram Shankar Nikumbh. Da subito il maestro sembra molto più sensibile e molto più attento alle esigenze dei suoi alunni. Non preoccupato unicamente del rispetto delle regole, il suo metodo educativo sembra finalizzato a stimolare la fantasia e la creatività dei suoi alunni per quanto questo metodo sia inizialmente malvisto dei suoi colleghi e dalle autorità scolastiche. L’inizio del rapporto con Ishaan è molto complicato e il bimbo, forte delle esperienze particolarmente negative con gli altri insegnanti, si tiene a distanza anche dall’attività del nuovo maestro. Ma l’attenzione e la costanza di quest’ultimo iniziano, lentamente, a fare breccia nel cuore del bambino che si sente per la prima volta compreso e accettato per quello che è e non screditato per quello che gli altri si aspettano sia. Assistiamo così alla costruzione di un rapporto meraviglioso basato sulla fiducia e sulla comprensione capendo più avanti nel film il motivo per il quale il maestro sia così bravo. Mi fermo qua per non svelarvi troppo della trama. Spero di avervi incuriosito abbastanza per guardarlo.

Il film è interessante perché fornisce una perfetta rappresentazione delle conseguenze che possono subentrare nel momento in cui l’esperienza scolastica diventi particolarmente frustrante per un bambino. Le varie strategie che gli adulti intorno a lui cercano di attuare si rivelano profondamente fallimentari perché ognuno di loro parte da ciò che il bambino DEVE fare senza minimamente preoccuparsi di ciò che il bambino sia. Nessuna persona può essere collaborativa, fiduciosa e aperta nel momento in cui si sente intimamente rifiutata, esclusa e non accettata. Se gli adulti intorno a lui deridono, prendono in giro, marcano in continuazione la sua incapacità di stare al passo con gli altri o di non essere bravo come gli altri, aumentano questo divario spingendo il bambino all’isolamento. Necessariamente, all’isolamento e alla non accettazione seguirà la rabbia. E da qui comportamenti etichettati come devianti.

La grande scoperta avviene nel momento in cui ci si avvicina al bimbo partendo da noi stessi, dal bambino che noi stessi siamo stati, dalle esperienze che abbiamo vissuto, non dimenticando quanto può essere frustrante, quanto può far arrabbiare l’essere ignorati dagli adulti che ci circondano. Solo partendo da noi riusciamo a contattare l’altro. Solo se noi facciamo esperienza di ciò che l’altro prova possiamo comprendere i suoi sentimenti. In questo senso uno degli episodi più rappresentativi avviene quando il maestro fa sperimentare al padre di Ishaan cosa significhi la frustrazione di non saper eseguire un compito riuscendo per la prima volta a fargli intuire l’esperienza del figlio. Solo partendo da questo contatto con noi stessi e da questa sensibilità è possibile trovare la chiave di volta per comunicare con Ishaan, e finalmente aiutarlo a superare le sue difficoltà, riuscendo a far finalmente emergere le sue risorse e le sue abilità.

Spero, come detto, di avervi incuriosito abbastanza. Consiglio a tutti i genitori che hanno figli in età scolare, sia con disturbi di apprendimento che senza disturbi di apprendimento, la visione di questo film che costituisce un utile strumento per cercare di avvicinarsi ad un approccio più comprensivo e sensibile al mondo dei più piccoli.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Complicato o complesso?

complicato‘Come riesci a fare il tuo lavoro? Ascoltare ogni giorno tutte quelle persone che ti parlano dei loro problemi, ricordarti tutto, riuscire ad aiutarle deve essere una cosa complicata!’.

Oppure: ‘ Si, dottore, fare quello che mi dice sembra una bella cosa. Solo credo che per me farlo sia complicato!’

Coloro che mi seguono, sanno della mia ‘battaglia’ per l’uso appropriato delle parole con le quali descriviamo la nostra vita, dal momento che credo, e ne sono sempre più convinto, che il modo in cui raccontiamo le cose plasmi le cose stesse. Dall’attenzione che riservo alle parole, mie e delle persone con cui lavoro, è nata questa riflessione, una riflessione sul mio lavoro e sul rapporto che si costruisce con la persona che mi si siede davanti. Tornando all’inizio, molti definiscono il mio lavoro complicato. Eppure complicato non credo che sia il termine più adatto a descrivere quello che succede in terapia. Il mio lavoro è complicato? Oppure è ‘solo’ complesso?

Ma come, direte, questi due termini non sono sinonimi? Apparentemente molto vicini, in realtà questi due termini non indicano specificamente la stessa cosa. Complicata è una realtà che, benché contorta, siamo in grado di prevedere nelle sue conseguenze, della quale possiamo immaginare un esito, che presenta delle soluzioni possibili ed immaginabili e alla quale ad alcune premesse corrispondono alcune derivazioni. Complesso, invece, ha a che fare con la possibilità che tutte le conseguenze siano ipoteticamente possibili data una situazione di base, che ci siano dei risultati che non possiamo ragionevolmente prevedere  indicare. Proviamo a fare degli esempi che ci aiutino a capire la differenza: riparare una macchina è complicato, crescere un figlio è complesso. Riparare una macchina ha a che fare con un lavoro (a me ignoto, sia chiaro!) che produce delle conseguenze prevedibili. Se ho problemi al cambio, agendo sui meccanismi dei quali il cambio è costituito, ragionevolmente mi aspetto un esito: che il cambio funzioni. Crescere un figlio è complesso perché non è un processo così lineare e preciso. Per quanto io possa impegnarmi per crescerlo ‘bene’, ci sono una serie di fattori e di variabili intervenienti che possono avere conseguenze non previste e non prevedibili che rendono qualsiasi tipo di esito ugualmente probabile. Se potessimo riassumerlo con un’immagine, sarebbe così:

 complex-and-complicated

Nelle complessità interviene qualcosa che nel complicato non interviene: la non prevedibilità. Se realtà complicate sono grosso modo prevedibili, i sistemi complessi non hanno questa caratteristica: sono difficilmente prevedibili, data una premessa non necessariamente avremo le conseguenze attese, non sono ripetibili. Aggiustare una macchina abbiamo visto come sia complicato. Riuscire a fare le previsioni del tempo è, invece, complesso. Presi in considerazione un insieme di dati (temperatura, vento, pressione atmosferica, ecc.), che costituiscono le premesse, è pressoché impossibile fare previsioni del tempo affidabili sul lungo periodo, visto che i fattori che entrano in gioco sono elevatissimi e che qualsiasi fattore può riverberare le sue conseguenze su tutti gli altri fattori andandoli a modificare. Immaginate quanto la complessità possa aumentare nel momento in cui l’oggetto con cui ci stiamo relazionando non è un anticiclone ma una persona che ha, oltretutto, la capacità di riflettere su stessa ed è consapevole di quello che sta portando avanti.

Per questo dico che le relazioni tra persone non sono complicate: sono complesse. Seguire una persona in terapia non è complicato, è complesso. Aggiungerei che è molto complesso, proprio per la serie di variabili che entrano in gioco. Per questo motivo e con queste premesse non posso approcciare realtà così diverse con lo stesso stile mentale. Una realtà complessa costringe a considerare con attenzione aspetti ai quali non si presta attenzione in una realtà complicata: in terapia non mi posso aspettare come andrà a finire. Posso lavorare verso una direzione, ma nulla mi può far pensare che quella direzione verrà intrapresa e quella meta raggiunta. Posso e devo immaginare le conseguenze di quello che sto facendo, ma quello che poi succederà lo saprò nel momento stesso in cui è successo. E le conseguenze di questo cambiamento, saranno comprensibili solo alla luce di quello che avverrà più avanti, in una continua catena di cambiamenti, correzioni, errori che costituiscono la base della nostra stessa esistenza.

Spero mi abbiate seguito fino a questo punto, perché consapevole che quello che sto facendo non è un discorso semplice, e comprendo che quello che dico possa sembrare arduo. Ma credo che faccia la differenza porre attenzione sui termini che utilizziamo, perché da essi dipende il racconto della realtà che ci costruiamo. Il punto è che troppo spesso sottovalutiamo come la nostra capacità narrativa influisca sul nostro stesso mondo, come possa modificare la nostra percezione e come questa sia influenzabile a partire dal modo che scegliamo per narrarla.  Sono, in altri termini, consapevole che sia un discorso molto complicato.

O molto complesso?  

A presto…

Fabrizio Boninu

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Come migliorare la comunicazione con i bambini? (2)

imageMa veniamo specificamente alle frasi utilizzate: smettila di fare i capricci: non é una frase molto utile perché il capriccio é una modalità comunicativa che potrebbe essere utilizzato per dirvi qualcosa. Sarebbe più utile prendervi qualche minuto, sedervi con loro e chiedere che succede. Questo aiuterà il bambino a sentirsi compreso ed accolto, qualunque sia il motivo del suo comportamento. Una volta accolto il comportamento, potreste ribadire il fatto che non é necessario attuare questo comportamento per essere ascoltati, stabilendo che si possa avere una modalità comunicativa tra voi e loro da decidere. E, naturalmente, che qualunque sia l’emozione sottostante, non sarà accettato un certo tipo di comportamento, cercando di educare il bambino a differenziare tra quello che è il suo sentire e quello che è il suo agito. Picchiare, insultare, rompere delle cose non può essere accettato e il bambino deve comprendere questa differenza fondamentale. Per compiere questo percorso è necessario che il bambino venga accompagnato con amore, attenzione e rispetto all’interno di un viaggio alla scoperta delle sue emozioni.

Un’altra modalità che può consentirvi di accompagnare il bambino nelle sue attività quotidiane è quella di offrirgli delle alternative su quello che deve fare. Ritorniamo agli esempi precedenti. Gabriele potrebbe intimare, nel dopocena, che Francesca si lavi i denti prima di andare a letto. Normalmente, Francesca si lava i denti insieme al suo pupazzo preferito. E lava anche i denti al suo pupazzo. Un rito che si ripete ogni sera. Ecco, Gabriele, anziché alzare la voce all’ennesimo invito ad andare a lavarsi i denti caduto nel vuoto, potrebbe chiedere a Francesca se preferisce lavare i denti del suo pupazzo prima o dopo essersi lavata i suoi. Questo permette a Francesca di sentirsi chiamata in causa nel decidere quello che può fare, ma nel contempo Gabriele la sta spingendo a lavare i suoi anche senza il bisogno di urlarle contro.

Ancora, i bambini, quando non hanno voglia di fare qualcosa assieme a noi, iniziano a fare storie su tutto e i genitori mi raccontano di quanto spesso li debbano trascinare, a volte anche fisicamente, per fare insieme a loro delle cose che non vogliono fare. Andare a scegliere vestiti, andare ad un matrimonio, sono spesso occasioni nelle quali il bambino è poco coinvolto e non vuole partecipare. Le reazioni possono essere le più diverse: magari iniziano a piagnucolare e ripetere che non vogliono fare quella cosa, oppure si rinchiudono in una stanza o in posto per non essere coinvolti/trovati. Se coinvolti con la forza, attuano la ‘strategia’ di opporsi, e se non lo fanno, si vede chiaramente le loro insofferenza e il loro disagio. Anche in questo caso, la cosa migliore da fare sarebbe fermarsi un attimo e cercare di capire meglio cosa succede. Una volta chiarito che vi siete accorti del loro disagio e della loro poca volontà di fare quello che dovete fare, potete anche chiarire che siete in difficoltà, perché, pur sapendo la loro ritrosia, non avete alternative.

Questa ‘ammissione’, creerà una vicinanza tra voi e loro, e passerete  da un rapporto basto su devi-fare-quello-che-dico-io-perchè-lo-dico-io ad un rapporto nel quale il bambino interiorizza che vi importa come si sente ma che, per vari motivi, dovete arrivare ad un compromesso tra quello che vorrebbe e quello che chiedete voi. Altra possibilità è chiedere loro di immaginare una soluzione che possa rendere la cosa più accettabile e gestibile anche per loro. Questo li farà sentire coinvolti in quello che sta succedendo e consentirà loro di sentirsi parte in causa dell’organizzazione della loro famiglia.

Queste sono solo alcune idee rispetto ad un cambiamento di relazione tra voi e loro. Tenete a mente che i massimi esperti di vostri figli siete voi. Siete sempre voi a poter trovare soluzioni originali ed adatte a vostro figlio, trovare metodi che aiutino voi e loro a costruire un rapporto che abbia sempre meno bisogno di urla, costrizioni e punizioni. Nel caso succedesse, come detto, non colpevolizzatevi ulteriormente. Chiedere scusa quando ci si accorge di aver sbagliato o esagerato è un’altra ottima occasione nella creazione di un buon rapporto tra voi e i vostri figli.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Sul tema comunicazione coi bambini puoi anche leggere:

Come parlare di morte ai bambini (1) 

Come parlare di morte ai bambini (2) 

Bambini e internet: che fare (1) 

Bambini e internet: che fare (2) 

Legittimare le emozioni (1) 

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Come migliorare la comunicazione con i bambini? (1)

imageHo già provato ad affrontare in altri post questo tema: come comunicare con i bambini? L’argomento è sempre complesso ed è abbastanza difficile cercare di capire come riuscire a trovare un canale comunicativo con i bambini soprattutto nel momento in cui si trovano in una fase di opposizione o di diniego, ‘fasi no’, nelle quali sembra difficile, se non impossibile, riuscire a trovare una modalità comunicativa che consenta di comprendere e superare il momento. Credo che trovare un modo per comunicare con loro sia fondamentale per riuscire a stabilire un ponte relazionale e cercare quindi di comprendere, di contenere e accogliere i loro comportamenti facendo sì che sappiano di avere un referente valido e competente tra gli adulti che lo circondano. Un valido aiuto può essere costituito dall’uso dell’intelligenza emotiva.

Per chi non conoscesse questo approccio, il concetto di intelligenza emotiva è stato teorizzato da Daniel Goleman, ed è un costrutto nato in contrasto con la filosofia che sta alla base del concetto di quoziente intellettivo: a differenza dell’accento posto solo sulle competenze ‘oggettive’ e ‘ misurabili dell’intelligenza umana, Goleman cercava di prestare attenzione e mettere in risalto tutta una serie di caratteristiche dell’intelligenza umana (sensibilità, empatia, consapevolezza di sé e della propria realtà emotiva,…) concetti ignorati all’interno della ideologia della misurazione dell’intelligenza secondo canoni quantitativi.

La teorizzazione di Goleman ha dato il via ad una serie di studi che hanno cercato di far luce su cosa significhi intelligenza in senso lato, nelle diverse aree di vita di una persona: all’interno delle relazioni personali, della vita quotidiana delle persone e di come possa influenzare la comunicazione empatica tra genitori e figli. Senza entrare troppo nello specifico della teoria, sarebbe forse più interessante occuparci della pratica, utilizzando piccoli esempi che possano aiutare a capire come migliorare la comunicazione tra adulti e bambini, principi applicabili anche più in generale nella comunicazione tra adulti. Per i nostri esempi, abbiamo bisogno di un genitore, poniamo un papà, Gabriele, e una bambina che chiameremo Francesca. Faremo fare i capricci a Francesca e vedremo come il papà affronterà, o potrebbe affrontare, la situazione con la figlia. 

Prima di continuare, sarebbe necessario aggiungere altre due premesse molto importanti, delle quali tenere conto: la prima: un rapporto e un’autorevolezza nei confronti dei figli non si costruisce dall’oggi al domani. Se il rapporto con vostro figlio è deficitario (per le più svariate cause che possono stare alla base di questo deficit), il capriccio di vostro figlio non sarà un buon momento per cercare di rimarcare la vostra autorevolezza. Il secondo punto importante riguarda invece questa lista stessa: é un suggerimento e vorrebbe essere un modo per aiutarvi a gestire meglio il rapporto con vostri figli. Non colpevolizzatevi se avete difficoltà a rispettarla: non costituisce l’unico modo con il quale è possibile approcciare ai vostri figli.
Fatte queste doverose premesse, possiamo partire con i nostri esempi. Prendiamo in considerazione una scena tipica: Francesca é nella sua cameretta e sta giocando contemporaneamente con diversi giochi. Arriva il momento nel quale dovrebbe rimettere tutto quanto a posto, ma in quel momento, inizia a fare storie, a lamentarsi, a dire che lei non vuole mettere a posto e così via. Papà Gabriele potrebbe iniziare ad usare tutte le armi per cercare di convincerla a farlo. Frasi più o meno tipiche possono essere: ‘smettila di fare i capricci’, oppure ‘se non rimetti a posto tutto, domani non giochi’, oppure ‘fai sempre così’, o anche ‘non sei mai brava a rimettere in ordine tutto quello che tiri fuori’, oppure ‘non penserai che sia io a rimettere a posto tutta questa roba’. Chi di noi non ha mai utilizzato questo genere di frasi con un bambino?

Pur essendo tra loro molto diverse, facendo leva su minacce, senso di colpa ecc, qual è l’aspetto che accomuna tutte queste frasi? Pensateci un attimo, perché è quello che tutti noi facciamo, spesso automaticamente, quando parliamo ad un bambino. Avete notato cosa può essere ? Nessuno ha chiesto al bambino perché si stia comportando in questa maniera. Tutte queste frasi hanno come punto comune il fatto che non si preoccupino di cosa possa avere scatenato la ribellione di Francesca. Presupponendo che non sia impazzita mentre giocava in camera sua, possiamo immaginare che qualcosa l’abbia disturbata e turbata e che il non mettere a posto i suoi giochi sia il modo di manifestare questo disagio. Prevengo le critiche: ‘Si, vabbè, ma io non posso mica stare dietro a tutti i capricci di mio figlio’, starà sicuramente pensando ognuno di voi. ‘Se facessi così ogni volta non mi rimarrebbe tempo neanche per bere un bicchiere d’acqua’. Sicuramente è vero che questa strategia può essere più impegnativa in un primo momento, quando questo momento di incontro e di accoglienza deve essere costruito. Ma piano piano, quando questo diverrà la norma nel rapporto tra voi e vostro figlio, questo modus operandi diventerà sempre più facile ed automatico e sempre più semplice da attuare. Col tempo e con il vostro impegno (ricordatevi che la guida siete voi!) si sarà stabilita una buona intesa emotiva tra voi e vostro figlio e questo aiuterà voi ad interagire a cogliere quello che lui sta manifestando e a lui di riconoscere un ruolo di aiuto e supporto ogni qual volta sentirà di non stare bene.

 

– CONTINUA –

 

FILM: Still Alice

Still AliceCosa sono i ricordi e quanto questi influiscono nel definire chi siamo? Cosa succederebbe se li perdessimo? Se le nostre esperienze sono quello che ci rende tali, cosa ne sarebbe di noi nel momento in cui queste, gradualmente, scompaiono?  Cosa accade quando a tutto questo si aggiunge la consapevolezza dell’inesorabilità del declino cognitivo? Sono alcune delle domande venutemi in mente guardando un bellissimo film, Still Alice, diretto da Richard Glatzer e da Wash Westmoreland, interpretato, nel ruolo della protagonista Alice, da Julianne Moore, che grazie alla sua interpretazione vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista. 

Tra le altre cose Richard Glatzer, uno dei registi, ebbe esperienza diretta di cosa poteva implicare questa degenerazione, dato che gli venne diagnosticata la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) durante la lavorazione del film ed è infine morto per le complicazioni della malattia nel marzo del 2015. Il film racconta la storia di Alice, donna determinata, insegnante di linguistica alla Columbia University, una donna che ha costruito tutta sé stessa sul piano intellettivo e cognitivo. Alice ha anche una famiglia, un marito e tre figli Anna, Tom e Lydia. Ed in questa vita all’apparenza perfetta, è la stessa Alice che inizia a rendersi conto di come ci sia qualcosa che non va. Il tutto inizia apparentemente in maniera casuale, dimenticando, come capita a molti di noi, un termine o una parola, e proprio lei, che ha fatto della sua vita una continua ricerca delle nostre doti cognitive, soprattutto per quanto concerne il linguaggio, e quindi la capacità comunicativa delle persone, si trova a dover sperimentare cosa succeda quando una malattia degenerativa dapprima modifichi e poi distrugga del tutto le nostre capacità mnemoniche e, con esse, la nostra intera vita. 

Pur avendo solo 50 anni, infatti, Alice è portatrice di un patrimonio genetico che la espone all’insorgenza precoce del morbo di Alzheimer, una forma di demenza invalidante e particolarmente compromissiva per la vita dell’individuo. Assistiamo così all’inesorabile decadimento intellettuale di una donna prima nel pieno possesso della sua vita. La progressione è sempre più rapida e dimenticare un termine si accompagna al disorientamento spaziale e temporale, al mancato riconoscimento delle cose e delle persone. La veloce discesa nel mondo della patologia aumenta lo scollamento della vita di Alice da quella dei suoi familiari.

Come tutte le malattie, infatti, anche il morbo di Alzheimer ha una fortissima componente relazionale, dal momento che non colpisce la singola persona, ma si ripercuote sulla vita delle persone vicine, provocando conseguenze sulla relazioni sociali dell’individuo il quale, sempre più velocemente, con la perdita della capacità di orientarsi nel tempo e nello spazio, perde qualunque autonomia. I contraccolpi di questa riorganizzazione sono molto evidenti nella vita della famiglia di Alice

L’iniziale amore e comprensione per quello che le succede, lascia spazio anche ad incomprensioni, egoismi e rabbia, in un oscillare profondamente umano di grandezza e piccolezza, aspetti che caratterizzano il modo in cui spesso affrontiamo le fasi altalenanti della nostra vita. 

Il film è esemplificativo per la capacità che ha di introdurci nella complessità e difficoltà della vita di una famiglia ‘normale’ nella quale le piccole beghe tra sorelle e i trasferimenti per la carriera lasciano il posto ad un vero e proprio dramma, al rovesciamento di ruoli, alla necessaria riorganizzazione familiare dovuta alla malattia. Mi ha personalmente permesso di focalizzare l’attenzione sul dramma che le persone colpite dal morbo di Alzheimer devono sopportare, lo sfaldamento di ogni loro ricordo, il frantumarsi di ogni autonomia, di ogni piccola certezza di tutti quei singoli punti di riferimento che le persone costruiscono con fatica per orienterai all’interno della loro stessa vita. Il film descrive bene la mancanza di capacità di messa a fuoco del senso della vita dell’individuo, l’impossibilità di una consapevolezza di se stessi che viene a sfumare dolorosamente in un continuo presente mai trattenuto. Una patologia che solo in Italia colpisce circa 500.000 persone e le loro famiglie e che, dato l’allungarsi medio della vita degli individui, è destinato a colpire un sempre maggior numero di persone, una malattia per la quale a tutt’oggi non c’è alcun tipo di cura, una patologia della quale, mi accorgo, sapevo troppo poco. Questa, secondo me, è la grandezza di un film: non lasciare indifferente lo spettatore e spingere l’attenzione di chi guarda verso il tema proposto. E Still Alice credo sia in grado di farlo.

Come sempre chi l’avesse visto e volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure commentando il post. 

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Perché io valgo

frustrazioneIl titolo di questo post vi suona sicuramente familiare. Insieme a migliaia di altre frasi e slogan che da anni e per anni vengono ripetuti quasi quotidianamente, anche questo è uno di quelli che, volenti o nolenti, è entrato a far parte del nostro linguaggio. Che avvenga tramite tv, Internet, radio, manifesti, foto, è un dato di fatto che ormai molti marchi siano identificabili solamente con la frase che viene ripetuta ad ogni spot. Siamo talmente bombardati da messaggi che ormai è necessario che il consumatore identifichi la marca immediatamente. Il più delle volte questa identificazione avviene, appunto, tramite una frase, ma non è l’unico metodo: può essere un simbolo grafico oppure un suono (penso, per esempio, alle pubblicità di BMW o di Audi che terminano sempre con una sorta di brevissimo jingle). Nulla di nuovo, penserete: sono gli slogan pubblicitari, piccole frasi che condensano, in poche parole, l’essenza del prodotto che devono reclamizzare. Devono (o dovrebbero) essere brevi e facilmente ricordabili, devono essere chiari e comprensibili immediatamente per imprimersi nella mente di chi, come noi, ogni giorno, viene subissato da una serie di stimolazioni visive, uditive e tattili.

Non molto tempo fa gli slogan avevano a che fare con il prodotto stesso, ed esaltavano alcune caratteristiche del prodotto rispetto ai concorrenti. Ricorderete slogan famosissimi come ‘Altissima, Purissima, Levissima‘, o lo slogan della ‘scarpa che respira‘. Ben presto i pubblicitari si sono resi conto che per far presa su un mercato sempre più competitivo, la spinta all’acquisto doveva trasferirsi da fattori contingenti, come per esempio la qualità o la differenza rispetto ai concorrenti del prodotto, a caratteristiche più emozionali, più istintuali. Per questo si è arrivati a slogan sempre più emotivi, slogan che cercavano di fare presa sulla sensazione nell’avere o nell’usare un determinato prodotto. Si è arrivati, così, a frasi che non fanno più riferimento a caratteristiche del prodotto o a differenze rispetto alla concorrenza, ma che cercano appunto di veicolare l’emozione associata all’uso di quel tipo di bene: penso a slogan celeberrimi come ‘no Martini, no party‘, ‘dove c’è Barilla, c’è casa‘, ‘Just do it‘ fino al celeberrimo ‘think different‘ di Apple. 

Dove voglio arrivare, vi starete chiedendo. Il punto, ovviamente, non sono gli slogan: sono sempre esistiti come parte identificativa della campagna pubblicitaria che ci veniva proposta. Gli slogan, però, si sono ulteriormente evoluti in una deriva sempre più egoistica, sempre più individualistica, e sono proposti come leva per forzare la nostra fame di onnipotenza, di potere, lisciando emozionalmente il pelo al nostro egocentrismo. Pensiamo al messaggio di una notissima marca di prodotti di cosmetica, che qualche anno fa coniò lo slogan ‘perché io valgo‘, slogan associato a modelle famosissime e bellissime. Ho sempre pensato che uno slogan del genere fosse controproducente perché il messaggio era facilmente fraintendibile da tutte le persone che, vedendo lo spot con uno slogan di questo tipo, e non essendo top-model famosissime come le testimonial, si sarebbero sentite escluse, da una comunicazione il cui sottotesto poteva essere ‘mentre voi no, non valete’. Ed evidentemente anche i pubblicitari si resero conto del sottomessaggio passato, perché lo slogan fu poi cambiato in un più generico ‘perché voi valete‘. Ma non è il solo esempio.

Una notissima catena che vende prodotti tecnologici usa, dal 2014, lo slogan ‘voglio il mondo‘. E potrei farvene altri. Come ‘impossibile è niente‘. Ecco, io credo che questo tipo di slogan sia profondamente insidioso. Credo lo sia per persone adulte, ma ancora più complesso per le menti e i cuori dei ragazzi che hanno più difficoltà ad analizzare e rendersi conto della ambivalenza di messaggi di questo tipo. Qualcuno di voi potrebbe obiettare a questo punto, come queste siano solamente frasi, che non si dovrebbe dare così tanta importanza ad un aspetto così marginale come uno slogan pubblicitario. Potrebbe essere vero. È solo una frase dopotutto, non può essere così dannosa. Ma il punto è che non è solo una frase. Sono tante frasi. E sono ripetute migliaia di volte al giorno, instillando in noi, piano piano ma con costanza, l’idea di dover aver tutto, che non ci sia nulla di impossibile, che noi valiamo e perciò nulla ci potrà essere negato. D’altronde noi vogliamo il mondo. Mettiamo, invece, per assurdo, che il mondo non possa essere nostro. Cresciuti e iperstimolati con l’idea che dobbiamo avere tutto, perché valiamo solo in virtù delle cose che possediamo, come reagirà il nostro piccolo io che magari non è così convinto del suo valore? Come reagirà il nostro amor proprio quando si accorgerà di non poter ottenere il mondo e si dovrà accontentare di qualcosa di decisamente meno? Come ne uscirà la nostra immagine personale quando ci accorgeremo di non ottenere che un millesimo di quello che, per diritto pubblicitario instillato in anni di bombardamento, riteniamo ci appartenga di diritto? Quanta paura avremo che gli altri si accorgano di quanto poco valiamo perché non siamo riusciti ad ottenere quel mondo promesso? Ecco, credo che tutte queste domande possano circolare, non consapevoli né esplicitate, dentro di noi provocando un senso di malessere per ogni meta (imposta!) che non riusciamo a raggiungere. Come dicevo prima, questo è ancora più difficoltoso per i bambini e i ragazzi che possiedono meno strumenti per comprendere quante pressioni vengano esercitate per trasformali in perfetti consumatori prima che persone. Ed è questo che mi inquieta, questa continua rincorsa non più a solo a comprare, ma a diventare padroni, bramare, volere e valere in base a quello che compriamoo. Questa onnipotenza ipertrofica avrà l’amaro risveglio nel momento in cui passerà dal magico mondo pubblicitario, dove tutto è facile, veloce, accessibile (ma anche pulito, bello, liscio, giovane e perfetto) al mondo reale, ben più complesso di quello dipinto.

Donald Winnicot, celeberrimo pediatra e psicanalista inglese, descrivendo lo sviluppo del bambino, parlava di onnipotenza soggettiva per descrivere la fase nella quale il bimbo molto piccolo ha solo sé stesso come riferimento, e vive all’interno di una realtà percepita come costruita da lui e nel quale è creatore del suo mondo. In questa fase il bambino, essendo creatore di questo mondo, è fondamentalmente come un dio, e supera questa fase nel momento in cui si rende conto che il mondo non è suo, ma è una realtà condivisa con altri, ognuno dei quali portatore dei propri bisogni. Questa fase di sviluppo viene (o dovrebbe essere) superata con l’integrazione dell’altro e delle sue esigenze nel mondo.

In questo gli slogan compiono il salto regressivo del quale vi parlavo, nel momento in cui solleticano sempre più profondamente le istanze egoistiche di ciascuno di noi nell’assicurare i propri bisogni, non prendendo in considerazione quelli degli altri.

Su questo punto invito a prestare particolare attenzione, affinché messaggi di questo tipo non riescano più ad agire senza la nostra consapevolezza. Sarà un grande momento evolutivo quello nel quale ci scontreremo/incontreremo con la nostra impossibilità di avere il mondo. La nostra solleticata onnipotenza farà i conti con la realtà, potendone, forse, finalmente prenderne le misure. E riuscendo a prendere anche le misure di sè stessi, dei propri desideri, delle proprie aspirazioni, del proprio valore, della paura di non averne. Arrivando a comprendere, infine, quanto valiamo. A prescindere dal fatto che ce lo ricordino solo per comprare uno shampoo. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Adolescenti & videogiochi

adolescenti e videogiochiUno dei risvolti della pubblicazione di un blog, credo soprattutto di un blog che ha come tema la psicologia, è quello di ricevere mail di persone che chiedono soluzioni o consigli su situazioni che si trovano a dover affrontare. Recentemente, una delle mail più interessanti ha come oggetto un tema affrontato anche in studio: l’eccessiva passione (ossessione per i genitori!) dell’interesse dei ragazzi e dei bambini per i videogiochi. I racconti su questa sorta di ‘epidemia’ sono sempre più terribili: bambini di 7 o 8 anni che senza le loro due ore quotidiane di videogiochi non sono disposti a fare nulla, adolescenti che passano l’intero pomeriggio in trance davanti ad un televisore oppure collegati online con un gruppo di amici.

Questa la mail ricevuta da Angela, mamma di Marco (pubblicata, naturalmente, con il consenso della persona che me l’ha inviata, e preservando l’identità degli interessati). Indicherò con ‘A‘ le mail di Angela e con ‘F‘ le mie:

A: Buon giorno Dott. Boninu, scusi se la disturbo, ho letto il suo blog e vorrei un consiglio se me lo puo’ dare. Ho un figlio adolescente di 14 anni, è attratto dai giochi di internet in un modo spropositato, da quando il padre gli ha comprato un computer potente rispetto a quello che aveva la nostra vita è cambiata in peggio. Prima riuscivo a marginare questa sua tendenza perché il pc era quello di casa e io lo gestivo con la password. Bestemmie parolacce e tutta la notte, o quasi, attaccato a giocare e chattare. Inoltre il giorno dopo dobbiamo lavorare, io mattina e sera quindi la stanchezza si fa sentire. Gli ho tolto il cavo per la connessione, almeno temporaneamente, non so però come reagirà. A parole ho provato già innumerevoli volte. Grazie per qualsiasi consiglio possa darmi.

Questa la mia risposta:

F: Salve Angela, (…). La situazione che mi descrive è conosciuta perché molti genitori lamentano questa attrazione. L’uso compulsivo dei videogiochi è un comportamento che molti ragazzi manifestano. Il punto è che sono la spia indicativa di varie difficoltà che possono avere. Per esempio se diventa la loro unica attività può essere che abbiano difficoltà in attività diverse come per esempio lo sport o i rapporti coi coetanei. So troppo poco di vostro figlio per consigliarvi qualcosa, e il consiglio non è nelle mie corde professionali. Sarebbe più interessante capire cosa comunichi vostro figlio con il suo comportamento e se questa comunicazione possa essere recepita da tutti gli adulti che si trovano intorno a lui. E sarebbe interessante anche capire cosa provochi il suo comportamento in famiglia. Insomma avrei bisogno di molti più dettagli per capire come aiutarvi. 

A: Grazie a Lei che ha trovato il tempo di rispondermi. Marco non ha difficoltà ad avere amicizie, anzi. Ora ha anche una “fidanzatina” di 14 anni come lui. Và be mi sembra un po presto ma accompagnamo i ragazzini  a metà strada entrambi i genitori perché si vedono circa 2 volte alla settimana (città diverse di residenza).  Io penso che comunque di base sia insicuro e timido, anche se lo nasconde con una maschera di ironia a volte anche offensiva/irritante soprattutto verso il padre.  Con internet però gli capita anche di isolarsi, ma fortunatamente dura pochi giorni, anche grazie agli amici che lo cercano ininterrottamente per una pedalata o una partita a calcetto.  Lui cerca di fare entrambe le cose a volte,  spessissimo a scapito dello studio.

Io l’ho lasciato al padre che aveva solo tre mesi per lavorare a tempo pieno. Necessità. Non sono riuscita a dargli quella sicurezza di avere un genitore che lo ama e lo aspetta a casa. Il padre non ha mai nascosto di rimanere la sera con lui controvoglia, neanche al bambino. Oltretutto mio marito ha un grave handicap (poliomielite) una scelta incauta che la madre ha fatto in buona fede di non fargli fare i vaccini. Lo dico perché il modo di vedere il mondo in modo negativo del padre credo che abbia influito nel comportamento del bambino che sempre ha preferito gli amici, giocare fuori oppure play station/computer.  Per giunta a 12 anni la scoliosi non gli ha reso le cose semplici, il bustino lo ha accettato per 2 anni ma ora lo rifiuta categoricamente. Riesco a malapena a fargli fare 3 volte alla settimana la  ginnastica correttiva. E’ una scoliosi lieve ma con la costanza, che non ha, l’avrebbe potuta risolvere completamente. Marco mi parla poco di cosa farà da grande nonostante sin da piccolo cercavo di capirne le tendenze. Comunque ieri gli ho tolto internet ma di sera glielo ho concesso un paio d’ore, di notte gli imposto un orario  che poi ha rispettato, almeno ieri!  Sono contenta quando riesco a farmi vedere decisa ma serena.   La mia preoccupazione è avere di fronte una dipendenza da giochi di internet perché essendo molto bravo  (2° in una graduatoria europea) il fatto di levarglielo del tutto non vorrei causare danni maggiori, internet  secondo me gli dice “sei capace” “vedi che vali a qualcosa” un complimento che probabile bisognava fargli da piccolo quando faceva bene un disegno, un lavoro a scuola.  

Internet in ogni caso può essere dannoso ed è una fatica regolamentarne l’uso quando i figli sono il doppio della tua altezza!

F: Salve Angela, (…) Sarebbe interessante capire quanto la sua storia sanitaria e quella che ha respirato in casa fin dalla nascita, abbiano contribuito alla sua ‘visione della vita’. Il punto è che i videogiochi sono spesso additati come causa dei mali di molti ragazzi ma, credo, la maggior parte delle volte siano solo la ciliegina su una enorme torta che è difficile vedere. O è difficile capire chi l’abbia creata.  

Spesso ho trattato sul mio sito temi inerenti l’importanza per un adolescente di poter contare sulla figura di un adulto competente che possa fungere da ‘coadiuvante’ nell’attraversare una età così complessa. Non deve essere necessariamente un professionista, basta un amico di famiglia, una persona che abbia la vostra fiducia e la sua fiducia e che possa fungere da tramite autorevole tra il mondo dell’infanzia (che vostro figlio si accinge ad abbandonare) e quello degli adulti verso il quale è proteso. Se non esiste una figura del genere, consiglio in questi casi un breve percorso di supporto, per lui o per aiutare voi a gestire con lui la situazione. (…)

Il punto importante è che la concentrare la propria attenzione solo sui videogiochi spesso impedisce di vedere la complessità del mondo che si muove attorno ai ragazzi ed è facile puntare il dito contro un colpevole, i videogiochi in questo caso, senza chiedersi quanto altri fattori giochino un ruolo importante e decisivo nell’influenzare il ragazzo. Come si può vedere anche in questo caso la storia di Marco era ben più articolata rispetto a quanto si percepisse da una prima visione. Bisognerebbe prestare attenzione a non perdere questa complessità di insieme, non focalizzandosi esclusivamente su un unico fattore. I videogiochi sono un grande attrattore per i ragazzi, ma è anche vero che costituiscono una via di fuga privilegiata da una realtà percepita come spaventosa, discorso che vale per qualunque altra dipendenza. Se ci si focalizza su di essa, qualunque essa sia, si perde di vista la domanda principale: perché si sia arrivati a questo. Ogni storia ha, naturalmente la sua risposta e non voglio generalizzare in nessun modo. Il rischio è quello di rovesciare i ruoli trasformando un’effetto (l’uso dei videogiochi) in una causa. I videogiochi non causano uno straniamento dei ragazzi, lo straniamento dei ragazzi viene agito (anche) tramite i videogiochi.

L’obiettivo, dunque, può passare dalla demonizzazione dei videogiochi alla costruzione di un’interazione ‘sana’ con loro, un modo di utilizzarli che possa in qualche modo soddisfare i ragazzi evitando che diventino la loro unica fonte di interesse. Per fare questo, però, è necessario tanto altro: gli adulti che li circondano dovrebbero interessarsi a quello che interessa loro, lasciarsi coinvolgere nelle loro vite, proporre un modello educativo coerente e responsabile. Tutte scelte decisamente più complicate e intricate rispetto al parcheggiarli davanti ad uno schermo, pensando che almeno non romperanno le scatole.

Quale scelta siete disposti ad intraprendere?

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

Sullo stesso tema puoi leggere anche: 

Bambini e internet: che fare? (1) 

Bambini e internet: che fare? (2)

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L’importanza del no per i bambini (e per i genitori!) (2)

famigliaLa possibilità di dire no svolge dunque una funzione che reputo fondamentale nella crescita e nello sviluppo del bambino. Costituisce uno dei passaggi fondamentali tramite il quale il bambino riesce a passare dalla sua concezione egoistica ad una consapevolezza sociale, iniziando dunque a capire dove finiscono le sue esigenze e, necessariamente, iniziano quelle che sono le esigenze degli altri. È il modo in cui impara a separarsi, impara che i suoi bisogni non sono spesso condivisi e che anzi quelli degli altri possono essere contrastanti rispetto ai suoi. Come ogni genitore può testimoniare, non è un processo facile. Ed è probabilmente in questa fase che inizia l’ambivalenza nei confronti dei genitori, quel sentimento di amore-odio che caratterizzerà la vita del bambino fino al raggiungimento dell’età adulta dove, se la separazione ha avuto un buon esito, sarà possibile rapportarsi in maniera diversa.

L’ambivalenza può naturalmente avvenire da entrambe le parti perché può essere un sentimento che caratterizza anche i genitori: l’amore-odio per i propri figli non è una bestemmia ma un sentimento molto umano che deve essere esplicitato, non giudicato. Spesso, ragionando per stereotipi, viene detto che l’unico modo per essere dei buoni genitori sia quello di amare incondizionatamente i proprio figli. Se dobbiamo solamente amare quanto spazio rimane per autorizzarci e riconoscere l’emozione contraria? Ed è innegabile che questo sentimento possa essere presente nei rapporti tra persone, anche tra persone molto vicine come appunto genitori e figli. Se viene negato un sentimento che comunque ci appartiene, il rischio è quello di non riconoscere e di non dare voce a quello che è appunto possibile provare. Anche in questo caso la difficoltà più evidente è l’individuazione, in questo caso dei genitori rispetto ai figli.

La possibilità di riconoscere questi sentimenti e di poterli legittimamente provare senza sentirsi dei ‘mostri’ costituisce, a mio avviso, un passaggio evolutivo molto importante. È il processo tramite il quale possiamo riconoscere la nostra separatezza, possiamo riconoscere la possibilità che ha un genitore di lasciar andare il proprio figlio, la capacità di riconoscere di avere un compito, quello di formare con l’esempio un individuo che possa percepire la sua autonomia, e che questa autonomia possa essere costruita fin dalle prime fasi della sua vita. Se un genitore non riesce a farlo con sé stesso come potrebbe insegnare ai propri figli la possibilità di riconoscere spazi emotivi che non si possono ammettere e ai quali non possono dare voce?

Lo psicoanalista Ron Britton scrive: quando riconosciamo di odiare la stessa persona che sentiamo anche di amare, sentiamo di essere sinceri e di avere delle relazioni stabili. Visto in questa prospettiva, dire no non è crudele, è un aspetto necessario del fatto di essere separati. Se non si è separati, non si può avere un rapporto. I genitori che soddisfano ogni desiderio del figlio lo illudono, inducendolo a pensare che essi siano una sua estensione e che solo i suoi bisogni contino. Via via che cresce il nostro coinvolgimento con gli altri, impariamo ad accettare le differenze: quello che piace a me può non piacerti. Più il bambino impara a tollerare questi fatti, più diventa consapevole degli altri e dei loro sentimenti. Saranno doti importanti, sia a scuola che nella vita. Molti adulti non hanno ancora capito fino in fondo che non si gestiscono le differenze cercando di rendere l’altro uguale a noi, e da questo hanno origine molti problemi coniugali. Le basi per il superamento dell’egoismo vengono poste nell’infanzia[1]

Non fraintendetemi: non voglio dare l’impressione che tutto quello di cui scrivo sia un processo semplice o lineare anzi: la complessità caratterizza tutto il processo educativo e coinvolge allo stesso modo gli attori in gioco: genitori e figli. È però necessario cercare di prendere consapevolezza rispetto a quelli che sono meccanismi ed automatismi spesso inconsci che non consentono di guardare con chiarezza quello che vuol dire essere genitori. E credo che solo una maggiore conoscenza di queste dinamiche possa permette di fare scelte diverse rispetto a quello che spesso agiamo del tutto inconsapevolmente.

Che ne pensate? Se ci fossero genitori intenzionati a condividere la loro esperienza possono contattarmi, come sempre, tramite mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Phillips, A. (2009), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano

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L’importanza del no per i bambini (e per i genitori!) (1)

bambiniIl post di oggi ha come tema l’importanza di dire no ai bambini. Abbiamo già affrontato questa tematica nel post I no che aiutano (i genitori) a crescere (1) e (2), dove affrontavo la questione da un punto di vista leggermente diverso dal momento che concentravo l’attenzione sulla difficoltà del genitore di assumere la responsabilità del proprio ruolo di adulto. Il senso del post odierno vuole invece concentrarsi sulla possibilità che la difficoltà nel dire no ai propri figli sia dovuta ad una ‘confusione emotiva’ tra i bisogni dei genitori e quella dei figli. Ma andiamo con ordine. Sembra una semplice questione di educazione, in realtà credo sia una questione estremamente complessa con diversi piani intrecciati (genitoriale, filiale, relazionale, ecc ) ed è il modo attraverso cui i bambini iniziano a rapportarsi e confrontarsi con il mondo circostante. Vi riporto i passi di un libro (riferimenti bibliografici alla fine della pagina) che illustrano bene il nodo centrale della questione:

(…) dire no, rifiutarsi di essere sempre presenti può rivelarsi molto utile per il bambino. Il nostro compito non è sempre quello di riempire i vuoti, ma dobbiamo anche tollerare questa posizione scomoda. Lo psicoterapeuta infantile Adam Phillips scrive: non è rivelatore quello che la noia di un bambino evoca negli adulti? Viene interpretata come una richiesta, come un’accusa di fallimento, come delusione; raramente viene accettata semplicemente per quello che è. E aggiunge: gli adulti sono tirannici quando pretendono con bambino sia interessato, invece di dedicare del tempo a scoprire cosa gli interessa. (…) L’alternativa però è di allungare il periodo della dipendenza è limitare le risorse del bambino, dipingendoli fra l’altro il mondo come un posto pericoloso. Dobbiamo soppesare attentamente i pro e i contro di una simile presa di posizione. [1]

Il punto importante di questo primo passaggio è capire cosa significhi il no per il bambino e cosa invece significhi per l’adulto che quel no si trova costretto a sancire. Per il bambino un no è lo spazio che non siamo disposti a travalicare, è il modo simbolico con cui lo proteggiamo da se stesso nel momento in cui gli stiamo dicendo che deve imparare ad uscire dal suo egocentrismo infantile (devo avere tutto ciò che desidero) e iniziare a fare i conti con quelle che sono le esigenze delle persone che gli stanno attorno. Naturalmente sta al genitore calibrare i no che i bambini sono in grado di recepire e fare propri. Il fatto è che dire no pone il genitore in una posizione scomoda e può risvegliare sentimenti che fanno riferimento alla sua infanzia e, in base alla sua personale esperienza spingerlo ad agire a seconda di quello che lui stesso (o lei, naturalmente) ha vissuto. Un genitore che ha avuto genitori molto severi e rigidi potrebbe, per esempio essere molto più permissivo con i figli, memore di quanto l’atteggiamento dei genitori l’abbia fatto soffrire. Agisce, però, quello che avrebbe voluto per se stesso da piccolo, non quello che è adeguato per il rapporto che ha con suo figlio. È come se agisse ‘il suo bambino’ identificandosi appunto nell’essere piccoli. Ma ad un adulto è richiesto un ruolo di guida: se questo ruolo risulta appannato, c’è il rischio di non svolgere questo ruolo per il proprio figlio.

Altro punto che ritengo rilevante riguarda il ruolo del genitore nel momento in cui accontenta il figlio. Spesso dire no equivale a porre dei limiti, dei paletti. È come se dicessimo che quella cosa non si può ottenere. Costringiamo in questo modo il bambino a farsi un’idea di che cosa voglia, se valga la pena insistere rispetto all’ottenimento di quella cosa oppure a mollare la presa. Prendendo una posizione riguardo ad una richiesta, costringiamo anche l’altro a posizionarsi, a pensare, coscientemente oppure no, alla propria posizione rispetto a quello che chiede. Questo consente in ultima analisi di scoprire cosa ci interessa e cosa no, per cosa siamo disposti ad impegnarci e a lottare e per cosa invece no, ed è parte integrante del processo di crescita che avviene nel bambino nel momento in cui riesce a fare proprio il no ricevuto. Se, invece, questo movimento non avviene e non sembra esistere nessun paletto circa cosa sia o meno accettabile chiedere (e sperare di ottenere), il bambino si trova immerso pienamente nel suo mondo egoistico dal quale non riesce a discernere cosa sia fondamentale e cosa no in un appiattimento che tutto include ma nello stesso tempo tutto vanifica. Se nella mia ‘classifica’ di valori imperdibili si trovano il trenino elettrico e l’amore dei miei genitori, tutto è assolutamente importante ma nello stesso tempo niente lo è. Perdere un oggetto (il trenino si guasta) significherà temere il crollo di qualunque cosa entri a far parte di questa scala di valori proprio per il livellamento che questa classifica contempla. Un genitore potrebbe ovviare al problema, come spesso accade, sostituendo il bene perduto, ma non rendendosi conto di quanto questo alimenterà ulteriormente la spirale egocentrica e livellatoria innescata dalla sua difficoltà di porre dei paletti. Oltretutto l’incapacità di porre freno alle continue richieste del bambino, alimenteranno in quest’ultimo la dipendenza, dapprima fisica ed affettiva man mano che cresce sempre meno fisica ma molto stretta dal punto di vista affettivo, dai genitori aumentando se non del tutto compromettendo la possibilità di svincolo che credo sia, in un’ultima analisi, una delle funzioni più alte della funzione genitoriale.

– Continua –

[1] Phillips, A. (2009), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano, 

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Il male innominato

maschereQuesta riflessione scaturisce da una frequente osservazione: la differenza che esiste tra quello che mi raccontano i genitori e quello che mi raccontano i ragazzi una volta che vengono in studio. Provo a spiegarmi meglio. Quando inizio a lavorare con persone nuove, e la richiesta riguarda un minore, ho un ‘protocollo’ abbastanza collaudato: fisso prima un appuntamento coi genitori e i successivi col ragazzo. In questo primo incontro con i genitori, può capitare che mi raccontino dei problemi del figlio ed è su questa loro percezione che si augurano venga svolto il lavoro con il ragazzo (o ragazza, naturalmente): per esempio il ragazzo può avere, a loro dire, problemi di aggressività, oppure problemi a scuola, problemi di socializzazione, problemi di autostima e così via.

Quale che sia il problema, i genitori danno la descrizione della situazione dei figli dal loro punto di vista, sostanzialmente il punto di vista di persone adulte. Può anche capitare che i punti di vista non coincidano tra i due genitori, e si apre una fonte ulteriore di complessità che non affronterò in questo post. Tornando a noi, il secondo appuntamento è riservato ai ragazzi: i ragazzi mi raccontano quello che succede dal loro punto di vista e, nella maggior parte dei casi, se non forse in tutti, questo racconto è completamente diverso da quello che mi è stato fatto dai genitori e quelli che nel racconto dei genitori sembravano i problemi più grandi, spesso non lo sono per bocca dei diretti interessati.

Questo punto è di fondamentale importanza e credo testimoni diverse cose: genitori e i figli non condividono la causa, il perché che ha determinato quella data situazione. Non solo: capita che esista una discrepanza enorme tra il racconto del genitore e ciò che raccontano i ragazzi, ma capita altrettanto spesso che i ragazzi abbiano difficoltà e non riescano a definire quale sia la loro difficoltà. Magari si rendono conto che hanno delle difficoltà: possono, per esempio, pensare di avere una difficoltà con la propria autostima o con la propria aggressività, ma spesso non riescono ad individuare il punto che reputano più importante o mancano del tutto le parole per descrivere il malessere di quel momento. Capita anche che le parole che vengono utilizzate siano vaghe, oppure che contengano un forte giudizio nei loro stessi confronti: ‘sono scemo’, ‘sono sbagliato’ o ‘non valgo nulla’ sono solo alcune delle frasi che vengono utilizzate per descriversi. Parole, come abbiamo detto, severe e svalutanti, ma in fin dei conti non adatte per descrivere quelle che sono le loro emozioni e i loro sentimenti in quella fase della loro vita.

Questo aspetto mi colpisce perché testimonia come siano loro stessi a non riuscire a trovare le parole che descrivano quello che stanno attraversando. Ritengo che questa sia una delle parti più rilevanti della loro difficoltà, perché nel momento in cui mancano le parole che descrivono lo stato, non si ha neanche la capacità di immaginare una soluzione per quel tipo di problema. Quello che faccio è invitarli a parlare, invitarli innanzitutto a fare uscire le immagini che loro possiedono sulla loro attuale situazione e, partendo da queste, cercare di far loro assomigliare e precisare l’immagine, cercando di renderla il più precisa e dettagliata possibile, di modo che si attivino nuovi pensieri, precisazioni delle/sulle loro convinzioni, riflessioni che abbiano come obiettivo quello di spronarli a tirare fuori termini migliori per descrivere l’istante nel quale si trovano. Credo sia di fondamentale importanza per far stabilire loro cosa sia vero e cosa non lo sia, cosa ci sia nella loro evoluzione, quali immagini di se stessi vadano aggiornate e quali immagini possano essere archiviate perché ormai appartengono inesorabilmente al passato.

Credo sia una delle mie grandi prerogative: aiutarli a dare un nome, a dare un ‘volto’, se vogliamo, alle emozioni che stanno attraversando, cercando di farli riflettere sul fatto che quelle che usano per descriversi non sono solamente parole, prive di senso, ma che abbiano una fortissima valenza nel caratterizzare quello che è il loro sentire, nei confronti di loro stessi prima che con gli altri

Perché sono sempre più convinto di quanto la discrepanza tra come si raccontano e come si percepiscono sia legata spesso al disorientamento e al turbamento che provano. E perché dare un nome e un ‘volto’ a quello che si prova e, in ultima istanza, alle proprie emozioni, può essere il primo passo che permetta la condivisione e la comunicazione di quello che si sta provando, condivisione che può, di fatto, avvicinare genitori e figli e rendere meno marcata la differenza tra come si raccontano loro e come li raccontano i genitori.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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I compiti per le vacanze

Prueba1669Ci siamo. Le tanto sospirate vacanze sono arrivate. Per molti bambini e ragazzi è arrivato finalmente il momento in cui, essendo liberi dalle tante incombenze che caratterizzano la loro routine quotidiana, pensano di potersi dedicare a ciò che più piace loro. Questo sarebbe possibile se non avessero quello che per molti è un vero e proprio incubo da vacanza: i compiti delle vacanze appunto. Esistono due tipi di scuole al riguardo: coloro che reputano i compiti necessari per tenere in allenamento i ragazzi e coloro che li ritengono l’ennesimo modo per tenerli sotto scacco anche nei momenti in cui dovrebbero essere più liberi. In supporto alla seconda tesi ho trovato un interessante articolo che fa un elenco dei motivi per cui sarebbe preferibile che i ragazzi non avessero compiti durante le vacanze. L’elenco è stato stilato da Miriam Clifford, insegnante e blogger che si occupa del tema scuola attraverso InformEd, sorta di laboratorio di idee sulla scuola. Trovate il link in fondo al post.

Intanto i punti:

  1. Gli studenti  imparano tutto il tempo nel 21° secolo. In una società come la nostra, costantemente connessa e nella quale circolano una miniera di informazioni ovunque, non si può pensare che i ragazzi apprendano solamente all’interno del contesto scolastico. Questo rende in parte superflua l’idea di compiti da fare a casa, legati alla visione di tenere vive e fresche le conoscenze acquisite a scuola durante l’anno;
  2. Non necessariamente molti compiti equivalgono ad una maggiore realizzazione: non è detto cioè che assegnare compiti a casa faccia studenti più diligenti o più bravi a scuola;
  3. I paesi che assegnano più compiti a casa non sono i migliori. Spesso invece è vero il contrario. Per esempio il Giappone ha abolito l’utilizzo di compiti a casa per favorire il tempo in famiglia mentre paesi del nord Europa, come per esempio la Finlandia, hanno limitato i compiti a casa ad un impegno massimo di mezz’ora al giorno;
  4. Invece di assegnare compiti, suggerire che leggano per divertimento: invece di assegnare un compito si può cercare di far interessare ad una lettura libera, per divertimento, che consenta di superare la logica di imposizione dei compiti a casa;
  5. Non assegnare troppo lavoro durante le vacanze: è controproducente anche al momento del ritorno a scuola; 
  6. Invitare gli studenti a partecipare a un evento culturale locale: questo tipo di attività, oltre ad essere percepita come più attiva rispetto allo svolgimento dei soli compiti, può portare il ragazzo a conoscere aspetti della sua realtà che non avrebbe mai preso in considerazione altrimenti;
  7. Il tempo in famiglia è più importante nelle vacanze: spesso infatti è una delle poche occasioni nella quale tutti  i membri, essendo anche gli altri in vacanza, possono passare del tempo insieme, non distratti dalla mille incombenze quotidiane che portano spesso ad incontrarsi tutti assieme solamente a cena; 
  8. Per gli studenti che viaggiano durante le vacanze, i compiti possono ostacolare l’apprendimento sul loro viaggio: dovendosi portare i compiti appresso hanno meno tempo di dedicarsi all’esperienza che stanno vivendo; 
  9. I bambini hanno bisogno di tempo per essere bambini: il fatto di avere spesso doveri non aiuta molto questo aspetto; 
  10. Alcuni esperti consigliano una fine a tutti i compiti: il rischio è, come detto, quello del sovraccarico; 
  11. Inviare una lettera ai genitori per spiegare perché non si stia assegnando lavoro: questo punto è dedicato agli insegnanti che possono spiegare con una lettera ai genitori dei propri alunni per quale motivo non reputano necessario assegnare loro compiti;
  12. È possibile rendere le vacanze un momento per un “progetto aperto” per crediti supplementari: si può, cioè, affidare alla fantasia e alla creatività del ragazzo l’esecuzione di un compito che sia dal ragazzo pensato, progettato ed eseguito. Il progetto sarà poi valutato a seconda delle qualità che il ragazzo ha deciso di mettere in gioco; 
  13. Suggerire la visita di un museo: se a scuola si studia il Medioevo, una visita ad un museo che ha questo tipo di reperti può essere più interessante che l’ennesima scheda su un brano letto nel libro di storia; 
  14. Esortare gli studenti a fare volontariato durante il periodo di vacanza: questo genere di attività, come nel punto 6, può essere percepita come più attivante rispetto al fare semplicemente dei compiti, e può spronare il ragazzo ad impegnarsi in attività che lo portino ad interessarsi all’altro e ai suoi bisogni;
  15. Sviluppare un gioco di classe: prima delle vacanze è possibile costruire un’attività scolastica la cui fine può essere poi assegnata a casa, coinvolgendo anche altri membri della famiglia. Questo favorirà un maggior tempo che i membri passano tra loro; 
  16. Gli studenti possono imparare di più osservando il mondo reale, piuttosto che fargli fare compiti su quello stesso mondo;
  17. Fare escursioni a piedi: e utilizzare le impressioni registrate. Come per altri punti precedenti, un’esperienza diretta è spesso più formativa dello studio della stessa esperienza; 
  18. Invogliare gli studenti di visitare un parco divertimenti: concetti spesso astratti come le forze fisiche possono essere sperimentate direttamente con molti giochi presenti in questi parchi!
  19. I bambini hanno bisogno di riposo: come tutti noi, anzi forse sopratutto loro, hanno bisogno di un momento di stacco dalle attività quotidiane;
  20. Molti genitori e studenti non amano compiti delle vacanze: sulla veridicità di questo punto non sono molto d’accordo, perché da per scontato che i genitori vogliano passare più tempo coi figli durante le vacanze e non sempre le cose stanno così.

Come avrete notato, uno dei punti principali di questo elenco è quello di preferire delle attività pratiche piuttosto che mere attività scolastico/mentali. Il tempo che rimane libero può essere utilizzato per far vivere delle realtà (musei, volontariato…) che normalmente vengono solamente insegnate. Come accennavo nell’ultimo punto, questo comporterebbe passare e dedicare maggior tempo ai propri figli e per molti genitori, in vacanza a loro volta, potrebbe essere un impegno non da poco che eviterebbero volentieri per riposarsi. Sarebbe interessante allora chiedersi a chi giovi che i figli abbiano compiti da svolgere anche durante le vacanze.

Che ne pensate? A che scuola di pensiero appartenete? I compiti sono per voi una cosa utile oppure una vessazione cui cercare di porre al più presto rimedio?

Se voleste leggere l’articolo per intero, in inglese, cliccate qui

A presto…

Fabrizio Boninu

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