Il Piccolo Principe e la relazione terapeutica

landscape-1431634997-il-piccolo-principe-con-la-volpeChi di noi non ha letto il Piccolo Principe? Considerato, riduttivamente, uno dei testi fondamentali della letteratura per ragazzi, credo sia uno dei testi più complessi per la molteplicità dei punti di vista dal quale può essere colto. Letto per la prima volta a scuola, l’ho ripreso diverse volte nel corso degli anni, trovandoci sempre suggestioni diverse. Ho come l’impressione che il libro cresca insieme a me, che non sia statico e finito ma mi permetta, in spazi e tempi diversi, di cogliere riferimenti e muovermi tra suggestioni che nella lettura precedente non avevo colto. Tra le varie riletture diventavo (come ormai saprete!) psicologo specializzandomi, poi, in psicoterapia familiare. L’ho (per caso?) ripreso in mano qualche giorno fa per rileggerlo, curioso di capire cosa mi avrebbe comunicato in questa fase della vita. E, ovviamente, non sono stato deluso. Tralasciando la complessità dei riferimenti sempre presenti nel testo, la suggestione in questa lettura è stata nel rapporto tra il bambino e la volpe, associando la descrizione di questo rapporto, alla costruzione della relazione terapeutica.

In generale, in ogni relazione abbiamo l’incontro di due mondi che si incontrano. La peculiarità della relazione terapeutica è forse quella che quest’ultima ha (o dovrebbe avere!) come fine la maggiore coscienza di se stessi. La relazione terapeutica è particolare perché uno dei capisaldi è la non totale reciprocità nel rapporto, aspetto che la differenzia da un rapporto amicale. È una relazione nella quale dovrebbero svolgere un ruolo determinante diversi fattori: la capacità di costruire una relazione, l’accoglienza del terapeuta, la presenza di empatia, la mancanza di giudizio per le vicende del paziente, la pazienza, la responsabilità. E forse vi starete chiedendo: come si lega questo con la storia del Piccolo Principe? Proviamo a vederlo assieme.

Ad un certo punto nella storia, il piccolo principe incontra nel suo percorso una volpe (che poi diventa LA volpe, ma ci arriveremo…) e inizia un dialogo con l’animale. Inizialmente il piccolo principe chiede alla volpe di giocare con lui, ma la volpe gli risponde che non lo può fare perché non è addomesticata e, nella sua infinita saggezza istintuale, chiede al piccolo di addomesticarla. Il piccolo principe chiede alla volpe cosa significhi addomesticare. La volpe gli risponde che vuol dire creare dei legami. Spiegando ancora:

“Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremmo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”

Primo passo nella relazione è proprio quella dell’addomesticamento, la possibilità cioè di stabilire una relazione. La relazione terapeutica può essere basata, inizialmente, sul bisogno, sulla necessità. Da questo primo movimento può nascere, con costanza, fiducia e impegno, una relazione basata sull’importanza e non più esclusivamente sull’urgenza. Altro elemento presente in questo passo è l’unicità nella relazione, il momento nel quale si ha il passaggio dall’essere una volpe tra le volpi per diventare LA volpe con la quale si intrattiene un rapporto, un riconoscimento reciproco del ruolo che ognuno di noi assume per l’altro. Questo passaggio è necessario nel momento in cui, come dice la volpe, “non si conoscono le cose se non si addomesticano”, non si riesce a comprendere una realtà con le quali non si è riusciti a stabilire una relazione. L’addomesticamento è un processo a doppio senso, non interessa solo uno dei due membri, per quanto la relazione terapeutica sia apparentemente sbilanciata dal disvelamento su un lato (il paziente) e un disvelamento minore dall’altro (il terapeuta). Ma la creazione del legame è reciproca. Ed è unica. L’unicità nella/della relazione è un principio fondamentale. Il paziente è consapevole che ogni terapeuta veda altre persone, ma deve avere la sicurezza che al momento in cui noi siamo con lui, siamo totalmente presenti e centrati sulla relazione che in quel momento abbiamo nel rapporto con lui:

“(…) Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

La relazione ha la capacità di significare il nostro mondo. All’interno della relazione le cose acquistano un diverso valore e un campo di grano, che non ricordava nulla alla volpe, diventa significativo nel momento in cui viene associato al colore dei capelli del bimbo. È la relazione col piccolo principe a dare senso al grano. Così, nella relazione terapeutica, è la relazione stessa la base del cambiamento di senso del mondo del paziente

Uno degli aspetti più rilevanti per l’addomesticamento è sicuramente la pazienza:

Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”

L’avvicinamento è costante e graduale. La relazione, qualunque essa sia, è inizialmente fondata sulle parole. Ma da subito, ad un livello che non riusciamo neanche a capire e spiegare, possono intervenire fattori non legati esclusivamente alla comunicazione verbale. Sappiamo subito, a pelle, se una persona può piacerci oppure no. È un aspetto inconscio che nella relazione terapeutica è basato anche sulla fiducia, sull’empatia, sull’accoglienza, sulla mancanza di giudizio.  

Altro aspetto rilevante nello strutturare la relazione terapeutica è la costanza:

“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai ancora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”

Come accennato, la costanza è una parte rilevante nella strutturazione della relazione terapeutica. È necessario il rispetto di alcune regole nella costruzione della relazione, che all’inizio appaiono costrittive ma che strutturano la costruzione relazionale della stessa. È necessario prepararsi il cuore prima dell’incontro? Io credo di si, credo sia necessario ‘sintonizzare’ il proprio cuore con quello della persona che deve venire. E questo ha a che fare con l’unicità nella relazione terapeutica stessa:

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente,” disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora per me unica al mondo”.

Nessuna rosa/persona è uguale all’altra, e solo il suo addomesticamento, la costruzione di una relazione con essa, permette di dare un significato a quella rosa/persona.

Ma qual è il fine della relazione terapeutica? Io credo che l’obiettivo sia la costruzione di una maggiore consapevolezza della persona e la si può ottenere accompagnando la persona stessa nell’esplorazione del suo mondo interiore, l‘anima

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”

La costruzione del rapporto può avvenire anche in maniera non verbale, ma istintuale e inconscia, senza mediazione visiva o linguistica. Chiave di accesso per questo mondo è una delle doti fondamentali del terapeuta l’empatia, la capacità cioè di relazionarsi intimamente con l’altro, avvicinandosi al suo sentire, accogliendolo e comprendendolo, dando la possibilità all’altro di far emergere e condividere la sua realtà interiore.  

All’interno della relazione terapeutica altro spazio fondamentale è la responsabilità

Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa”  

Ho fatto mia questa frase. Mi sento pienamente responsabile, anche a distanza di tempo, delle rose che ho avuto la fortuna di incontrare in tutti questi anni di professione. Ho cercato di stabilire una connessione con ognuna di loro, addomesticandole e venendone addomesticato. 

Anche nella relazione terapeutica può arrivare, come in ogni relazione, il momento di separazione, un momento nel quale il cammino di due persone può portarle ad allontanarsi l’una dall’altra. È un momento importante, spesso etichettato come triste:

“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”.
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe…
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

Ci si può focalizzare su due momenti alla fine della relazione: il momento della perdita, il fatto che le cose ‘stiano finendo’, ma ci si può concentrare anche sulla gratitudine dell’incontro, sull’essersi trovati. Le persone tendono a focalizzare la loro attenzione sul primo aspetto, scordandosi di quanto ci si è arricchiti nell’incontro. Anche questo essenziale è invisibile agli occhi ed è il concetto stesso di perdita che altera l’idea dell’incontro. Non c’è perdita, né di relazione, né di tempo. D’altronde:

“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”

E se il tempo che abbiamo dedicato loro le ha rese così importanti non si comprende dove sia la perdita!

Poi soggiunse: 
“Và a riveder le rose. Capirai che la tua è unica al mondo” [1] 
E sono sempre più convinto che ognuna delle rose che ho (e mi hanno) addomesticato sia unica al mondo.

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Antoine De Saint-Exupéry (1949), Il Piccolo Principe, Bompiani, Milano pp. 91-98

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Violenza sulle donne: una testimonianza diretta

74de2-violenza-sulle-donneIl post di oggi è dedicato ad un tema sempre più dibattuto, soprattutto in questi ultimi tempi di fatti ancora più efferati e violenti, fatti nei quali insufficienti sembrano le parole delle dirette protagoniste. Sto parlando di violenza sulle donne. Il tema è presente nel dibattito dell’opinione pubblica e su molti media: ne parlano giornali, tv, internet dando la parola ad esperti, o presunti tali, che disquisiscono su cosa sia meglio o no fare, o dibattono su casi di cronaca nera dei quali, magari, non hanno nessuna conoscenza diretta. Più rare sono le parole di chi quella violenza l’ha subita sulla propria pelle riuscendo, con difficoltà, a trovare il modo per riuscire a descriverla. Angela, la protagonista di questa storia, ha generosamente deciso di condividere la sua esperienza con tutti noi, con l’augurio che possa servire alle tante persone che, come lei, si trovano o si sono trovate in una situazione analoga.

Salve Angela, innanzitutto benvenuta. Puoi dirci qualcosa di più su di lei? 

Partirei da uno stato d’animo: il senso della progressiva perdita della mia identità, come una donna che andava dissolvendo la propria essenza e che per questo alternava sensazioni di paura e di colpa.

Vuole raccontarci come vi siete conosciuti con il suo ex compagno?

Eravamo compagni di classe alle scuole superiori. Ma restammo soltanto amici durante quegli anni e poi ci perdemmo di vista. Ci incontrammo nuovamente, dopo un mio percorso di studi all’estero, quando eravamo studenti universitari.

Come è stata la vostra vita di coppia?

La nostra vita di coppia cominciò in una modalità non proprio convenzionale, nel senso che in realtà avevamo avuto la nostra prima figlia e ci sposammo senza formare in effetti una famiglia. Ho cresciuto da sola mia figlia per circa tre anni.

Quando ha iniziato ad avvertire che le cose stessero cambiando tra voi?

Eravamo ancora fidanzati, giovani ma non ragazzini. Fu quando mi resi conto che fu sconvolto al pensiero che avremmo avuto un figlio, letteralmente impreparato al ruolo di padre. Iniziò la nostra più grave divergenza inerente una decisione che mi sentii di prendere unilateralmente in assoluta libertà, come donna e come madre. Ma dopo un primo suo allontanamento, vista la mia scelta irremovibile di tenere mia figlia, tornò da me convincendomi delle sue buone intenzioni di non lasciarmi sola. Ero molto innamorata e fui felice di poter garantire a mia figlia anche la presenza di suo padre. 

Che succedeva nella vostra vita e nella vostra famiglia?

Nei mesi a seguire e durante i primi anni di vita della bambina cominciò a manifestare una certa instabilità comportamentale, e tanta, tanta insofferenza nei miei confronti. Si arrabbiava sempre più spesso e diventava via via più duro e anaffettivo, contraddittorio nelle parole e nelle azioni. Gli esternai le mie preoccupazioni circa il nostro rapporto e l’influsso dannoso del suo atteggiamento anche nei confronti della nostra bambina, ma lui mi rassicurava che la sua instabilità era dovuta al fatto che non eravamo ancora autonomi economicamente. Quando cominciammo a vivere insieme mi resi conto che mentiva spesso e, con grande preoccupazione, realizzai che quelli che avevo ritenuto potessero essere dei normali difetti caratteriali si rivelarono in realtà degli eccessi che mi incutevano sempre più paura: urlava spesso, mi insultava, non aveva gestione dei suoi impulsi quando si arrabbiava. Diventò aggressivo fino a schiaffeggiarmi, spingermi fino a farmi cadere per terra. Capitava anche che trovandomi per terra mi colpisse con dei calci insultandomi senza alcun controllo, anche in presenza della bambina.

Cosa ha fatto?

Un giorno in cui accadde che fu più aggressivo e violento del solito nei miei confronti, in presenza della bambina, mi recai alla caserma dei Carabinieri vicina alla nostra abitazione per raccontare l’accaduto. Non ebbi ancora il coraggio di denunciarlo, ma il maresciallo stilò un rapporto e mi rassicurò che lo avrebbe ammonito. Lo informai che mi sarei allontanata dalla nostra casa, dove ci eravamo trasferiti pochi mesi prima, per recarmi all’estero dalla famiglia di mia sorella dove mi sarei sentita al sicuro e avrei avuto modo di riflettere su quale direzione prendere per il mio bene e, soprattutto, per il benessere psicologico di mia figlia, nei confronti della quale sentivo una grande responsabilità educativa e di tutela.

I vostri genitori e, in genere, la famiglia allargata che ruolo ha giocato in quello che accadeva? Erano al corrente di ciò che stava succedendo tra voi?

I miei familiari avevano avuto modo di sentire alcune delle sue urla ed offese nei miei confronti e non mancarono di esternarmi inizialmente le loro perplessità circa la sua mancanza di rispetto verso di me e in seguito la loro preoccupazione circa la totale mancanza di autocontrollo quando si arrabbiava con me per futili motivi. Ma riusciva, in loro presenza, a limitarsi alle urla e alle aggressioni verbali. Le aggressioni fisiche avvenivano sempre quando si trovava da solo con me o, qualche volta, in presenza di nostra figlia. Poi si allontanò affettivamente dalla mia famiglia, fino a spezzare ogni legame con essi. Con me parlava dei miei familiari con disprezzo ed ingiurie nei loro confronti. Capii più tardi che i suoi erano al corrente del “cattivo carattere” di mio marito, soprattutto sua madre e i fratelli, i quali non sono mai intervenuti in mia difesa, nonostante sapessero e spesso avessero udito, senza mai riflettere sul fatto che il loro intervento poteva essere d’aiuto anche per il loro fratello.

Ha mai sporto denuncia nei confronti del suo compagno? Cosa è successo nel caso?

Fu dopo il nostro trasferimento in una città del nord che mi resi conto che i problemi erano dovuti a delle sue componenti caratteriali e disturbi della personalità che andavano sempre peggiorando. Sporsi denuncia dopo che fece male a me e ai nostri due figli di 11 e 4 anni. A me personalmente causò, con una violenta spinta, un politrauma cranico e una frattura all’osso sacrale. Mia figlia, la maggiore, mi vide distesa per terra priva di sensi. Fu lei a interessarsi chiamando immediatamente il 118 e la polizia. Dopo essermi un po’ ripresa dalle ferite fisiche e morali, lo denunciai. In quel periodo (sia prima che dopo la denuncia), non ci fu alcun suo interesse né per me, né verso i nostri figli. Non è facile sporgere denuncia. Costa tanta sofferenza, forza e coraggio. Credo di esserci riuscita per amore e senso di responsabilità per la tutela dei miei figli, prima che per me stessa. Ma, seppure possa apparire paradossale, ero convinta che forse avrei potuto offrire una possibilità a mio marito di riflettere sulla sua condotta, di realizzare finalmente tutto il male che aveva fatto a me e ai miei figli, di scuotere la sua coscienza. Oggi sono più che mai convinta che le donne che subiscono violenza dai loro partner, non fanno alcun dono ad essi non denunciandoli. Si tratta anche della prima urgente forma di tutela per i figli, oltre che per se stesse.

A suo avviso qual è stato il momento in cui ha realizzato che le cose dovessero cambiare?

Non c’è un momento solo in cui pensi che le cose debbano “cambiare”. E, nel contempo, non è che vedi prospettive, pensi che sarebbe un miracolo se solo riuscissi a fuggire. Ogni altra alternativa ti pare per forza migliore, qualunque essa sia. Pensi solo che devi attendere il momento buono per fuggire, scappare. E’ come un buio tunnel in cui corri, corri, tenendo per mano i figli. Qualunque spiraglio diventa una porta che tenti di aprire. Se non è quella buona corri ancora, senza perdere tempo. Lui non accettava la separazione, era impensabile. Ma, nel contempo, distruggeva tutto e tutti noi. A ogni mio tentativo di aiutarlo era come se anziché aggrapparsi a me tirandosi su, mi trascinasse nel baratro con lui. Non si metteva in discussione: Ero diventata il contenitore di tutti i suoi mali. Tutto ciò che gli accadeva di negativo lo destabilizzava terribilmente. Non accettava di dover fronteggiare dei problemi, perfino i capricci dei nostri bambini erano motivo di forte stress per lui, con reazioni aggressive abnormi. Vivevo riflettendo su questa sua condotta, prestando la massima attenzione a non provocarlo minimamente, ad evitare ogni possibile litigio per il bene dei figli. Essi non mi hanno mai sentito rivolgermi al loro padre con una parola offensiva. Ma mi resi conto che non era più possibile vivere col cuore in gola, chiamandolo alla sera al cellulare per monitorare il suo umore e sapere come aspettarsi che rientri a casa, in modo da consigliare anche ai figli come comportarsi, perché lui non si irritasse. Posso dire che i fatti più significativi, che maggiormente mi hanno consapevolizzata che dovevo reagire e rifiutare quel tipo di violenze psicologiche, fisiche ed economiche, sono stati i maltrattamenti verso i figli e il mio stato di salute psico-emotivo sempre più fragile. Dovevo riuscire a controllare la mia paura di lui, il mio terrore e la disperazione nel vedere i miei figli esposti a dei comportamenti insani del loro padre. Non avrei mai voluto che mia figlia un giorno avesse cercato una figura maschile come quella di suo padre, né mai avrei potuto essere complice di una stessa modalità di comportamento maschile verso la propria donna, da parte di mio figlio, allora un bambino. Dovevo fermare questa spirale prima che fosse troppo tardi.

Cosa è successo?

Accadevano numerosi fatti che mi persuadevano sempre di più che, accanto a dei suoi tratti caratteriali molto negativi, c’erano anche sentimenti di cattiveria, insensibilità. Dopo aver picchiato i figli, e dopo offese e ingiurie terribili, sia verso di loro che verso di me in loro presenza, non mostrava mai ripensamento, pentimento e sofferenza per quanto aveva fatto o detto. Mai un ravvedimento. Intravedevo dei sentimenti, anzi complessi, di superiorità perfino in famiglia. Aveva un altissimo concetto di sé. Mi sentivo una formica ai piedi di una montagna che mi schiacciava sempre di più con la sua sola ombra. Mi capitava di aspettare che i figli fossero a scuola per tentare di parlare con lui, di ragionare, di fargli capire che non poteva fare finta che nulla fosse accaduto. Gli chiedevo se si rendesse conto di ciò che aveva fatto, ma, nel vedere i risultati disastrosi, il ripetersi dei suoi scatti d’ira, in quanto non dovevo assolutamente fare riemergere problemi che secondo lui erano già risolti, prudenzialmente e impaurita mi allontanavo. Finiva sempre col dire che la responsabilità era tutta mia. Ho tentato di aiutarlo indirizzandolo verso uno specialista, uno psicoterapeuta. Lui stesso mi chiese aiuto due volte, impaurito da ciò che egli stesso era capace di fare. Ma la prima volta tornò dicendomi che la specialista gli disse che non aveva bisogno di alcuna terapia psicologia. La seconda fu da uno psichiatra molto bravo e noto nella nostra città. Da lui vi si recò più volte, ma si rifiutò di tornarci dopo che anch’io mi ci recai con lui, su richiesta del medico. Emerse che non aveva mai esternato di avere problemi in famiglia, ma solo al lavoro. Dovetti dire al dottore che eravamo sull’orlo della separazione. Quando dovetti rispondere con sincerità alle domande postemi, si infuriò e urlò volgarità nei miei confronti anche vicino a lui. Lo stesso medico mi disse che aveva capito, e che veramente non mi restava altro da fare che separarmi. Più tardi riferì al mio avvocato che mentre io mi mettevo in discussione, lui era rigido, con un atteggiamento molto ostile e accusatorio nei miei confronti e che non sapeva autogestirsi nelle reazioni. Mi disse che era preoccupato per l’incolumità mia e dei nostri figli.

Si è mai chiesta perché sia successo questo nella sua vita di coppia?

Si, infinite volte, ma nel passato. E, purtroppo, tendevo a colpevolizzarmi. Oggi direi che è successo perché è ciò che succede nelle stesse situazioni in cui la donna è molto innamorata, e forse anche un po’ ingenua nel credere di farcela, con l’amore, a cambiare l’uomo che ti fa del male. Ma non posso generalizzare. Forse l’unico comun denominatore in questi casi è la buona fede di noi donne, il valore della famiglia, la speranza che tutto possa, gradualmente risolversi. Ma sentirsi sempre in colpa è solo dannoso. Sono uomini che hanno una doppia personalità, che prendono possesso della donna e della sua vita, come un oggetto. Quando li vedi buoni e affettuosi sono così diversi dall’altro sé che ci credi o ci vuoi credere che stia cambiando, questa volta. Sono uomini che agli altri appaiono innamoratissimi, responsabili padri di famiglia. Poi, a casa, ti spaventi nel vedere nel cestino della spazzatura quella rosa in argento che ti aveva regalato (uno dei suoi pochi regali), piegata e danneggiata. L’avevi cercata, avevi chiesto a lui se l’avesse vista, spostata. Ti guarda e ti dice stupito che no, che senso avrebbe avuto spostarla? Vedi che quando si arrabbia toglie la fede e la lascia nella vetrina in soggiorno per mesi. Trovi fotografie dei figli coi tuoi parenti strappate. Cartoline dei parenti anche queste strappate, nascoste nei cassetti. Durante le vacanze estive, ti tiene lontana dai parenti, ti isola. Chi ti vuole bene è da lui odiato, e ha tutti i difetti di questo mondo. E tu sei una stupida, una cretina, una che non vale niente e che non avrebbe fatto niente nella vita, se non fosse per lui che t’ha “raccolta”. Sono uomini che sperano di convincerti, a furia di gridartelo, che sei uno schifo e non vali niente. 

Che rapporti ha attualmente col suo ex compagno e che rapporti ha lui con i vostri figli?

Non ho un vero “rapporto”. Ha avuto una condanna dal Tribunale di un anno e otto mesi, per maltrattamenti in famiglia e abuso dei mezzi di correzione. Serba in sé un profondo rancore nei miei confronti e della nostra figlia maggiore. Con lei non ha alcun rapporto da oltre otto anni, da quando era appena adolescente. Ha verso di lei un totale rifiuto. E lei ha dichiarato anche al giudice, in tribunale, di non avere mai avuto un padre. Faccio sforzi da equilibrista nel gestire il suo rapporto con il figlio minore. Non è facile, in quanto il loro è un rapporto altalenante, discontinuo, alternato da lunghi periodi senza frequentazione tra di loro ad altri brevi periodi in cui si vedono. Si sta perdendo, lentamente, anche il figlio minore, con atteggiamenti che rientrano ancora nel maltrattamento psicologico.

Si è sentita protetta, aiutata dalle istituzioni preposte dopo la denuncia dei maltrattamenti e delle lesioni? Come ha superato tale difficile e dolorosa esperienza?

Comincio dalla seconda domanda. E’stato importante per me capire cosa mi fosse successo. Ho ripercorso tutto il mio cammino con lui, riletto decine di volte tutte le lettere che mi aveva inviato da fidanzati. Vedevo, rileggendo, delle avvisaglie della sua personalità che non ero riuscita a intravedere allora, che avrebbero potuto farmi riflettere. Ho scritto tanto, tanti pensieri, per riuscire a convivere con il dolore che avevo nell’anima. Cercavo con disperazione e fiducia nel contempo, le modalità più consone alla ricomposizione del mio io frantumato, a partire dalla lettura del mio stato d’animo e delle mie emozioni, del mio dolore. Questo percorso è stato dolorosissimo, ma essenziale. Questo dolore interiore è molto più dilaniante di un dolore fisico. Ma ho imparato a non avere paura di osservarlo, per potermi curare non solo “da” esso, ma “con” esso. Ho imparato anche ad avere rispetto della mia storia, della quale nulla era da buttare. Nulla di essa era spazzatura. Tutto doveva essere compreso in un bagaglio umano e dignitoso. Scrivevo come se dovessi consigliare a un’amica come farsi forza, come andare avanti con coraggio. Volevo guardare in faccia il dolore senza paura, per non imprigionarlo in me. Quando non si è capaci di odiare, nonostante tutto, si ha il coraggio di toccare le proprie ferite, di accarezzarle e di ricomporre i pezzi lesi della propria personalità, della propria dignità di donna e di madre. 

Ho avuto il grande sostegno morale e materiale dei miei familiari, seppure vivono, purtroppo, lontano da noi. Mi ha aiutata tantissimo mia sorella medico. Mi ha aiutata tanto anche documentarmi sulla personalità di questi mariti, partner. E’ stata oltremodo interessante e d’aiuto la lettura dell’articolo “Violenza in famiglia e disturbi psichici”, di Dott. Domenico Chindemi (Magistrato di Cassazione) e Dott.ssa Valeria Cardile; il libro “Donne che amano troppo”, della psicologa americana Dott.ssa Robin Norwood e, più recentemente, l’articolo del Dott. Giuseppe Raspadori: “Tribunale per minorenni: una giustizia priva di confini, dedicato al silenzio delle madri a cui il dolore toglie anche la dignità della parola”. Quest’ultimo è inerente un altro percorso che sto attualmente vivendo, inteso a tutela del mio figlio minore, ma con gravi errori giudiziari che dovrebbero essere riconosciuti e colmati da regolamentazioni più consone ai casi di violenza in famiglia e modalità di affido che dovrebbero essere intraprese senza indugio alcuno, come detta fermamente la stessa Convenzione di Istanbul. 

Ho dovuto imparare ad avere cura di me stessa. Non ho avuto alcun particolare aiuto morale e psicologico dalle autorità, dalle istituzioni, né consigli su indirizzi di istituzioni preposte all’aiuto delle donne nella nostra città. Non ho incontrato in esse persone preparate nel campo di questi eventi di violenza domestica. Ho riscontrato frequenti contraddizioni e perfino considerazioni maschiliste anche in ambito giudiziario e dalle autorità istituzionali. Sulla base della mia personale esperienza, posso dire che la donna è lasciata sola dalle istituzioni nel suo percorso doloroso. Devo ammettere, però, che l’unica persona ad aver dimostrato particolare perspicacia nel capire la personalità del mio ex marito e la psicologia degli uomini maltrattanti è stato il Pubblico Ministero. Ma non è riuscito in pieno a passare la sua dettagliata analisi, introduttiva alla sua richiesta di condanna al giudice, in Tribunale. Però a me ha fatto bene, moralmente e psicologicamente. Per quanto ho potuto sperimentare, l’iter giudiziario nelle aule dei tribunali, molto burocratico e freddo, non è uno scenario idoneo alla presa di coscienza di una necessaria informazione e formazione per l’aspetto psicologico e doloroso dei maltrattamenti in famiglia. Noi donne maltrattate potremmo dire tanto, essere loro d’aiuto perché siano in grado di aiutarci effettivamente.

Com’è stato l’iter giudiziario?

Lunghissimo. E’ durato per più di sei anni. Senza alcuna regolamentazione delle frequenze tra padre e figlio (la maggiore non l’ha mai più cercata), nessuna ammonizione, nulla. 

Le udienze sono state rimandate numerose volte, per un frequente turnover dei giudici, per errori di notifica, o su richiesta dei suoi avvocati, o per assenza dell’imputato. Questo sistema giudiziario farraginoso determinava un sempre maggiore senso di ansia in me e in mia figlia, influendo negativamente sulla nostra qualità della vita, come se ci trovassimo in una strada di cui non vedevamo la fine. Tutte sensazioni ed emozioni che ho esternato ai giudici e al mio avvocato. Ha inciso molto anche il fatto che, non avendo i mezzi per pagare un avvocato, ho dovuto ricorrere al gratuito patrocinio.

Quali pensieri le vengono in mente in relazione al terribile fenomeno del femminicidio, così attuale nelle nostre cronache quotidiane?

Ogni volta che sento di una donna vittima della violenza di un uomo, spesso fino a morirne, penso che è stata solo per fortuna che anch’io non sia finita nelle cronache tra le vittime del femminicidio. Sento anche, ovviamente, un forte senso di pietà umana. Ogni donna che muore per mano di violenza del proprio uomo, è mia sorella. Nel contempo, provo un sentimento di impotenza, nella piena consapevolezza di come le esposizioni di questi fatti di cronaca sui giornali, le inadeguate e superficiali risposte delle sentenze dei tribunali e la solitudine delle donne vittime sopravvissute ma gravemente segnate anche fisicamente per la vita, non solo non costituiscano prevenzione, ma addirittura favoriscano pericolosamente la spirale della violenza di genere e quindi del femminicidio. C’è tanta letteratura sulla prevenzione del fenomeno. Ci fanno scuola le convenzioni internazionali circa la tutela dei diritti delle donne. Bisognerebbe cambiare mentalità, a cominciare dall’immagine della donna imposta dai media, dalle pubblicità offensive verso la dignità delle donna, troppo spesso rappresentata come mero oggetto erotico. Si dovrebbe sentire maggiore responsabilità verso la formazione delle nuove generazioni per un nuovo concetto di rispetto per la donna. Senza questo rispetto non c’è civiltà, non c’è democrazia, non c’è parità di genere. 

Nel giugno del 2012, nel corso della 2° Sessione del Consiglio dei Diritti Umani, l’Onu condannava così l’Italia: “La violenza sulle donne in Italia resta un problema grave, risolverlo è un obbligo internazionale è un crimine di Stato, fate di più.”. Ciò a seguito delle pesanti osservazioni all’Italia di Rashida Manjoo, Special Rapporteur delle Nazioni Unite, in un Rapporto tematico annuale del 2012 sugli omicidi basati sul genere, ed il Rapporto sulla violenza sulle donne in Italia. Il Rapporto contiene dati, osservazioni e raccomandazioni alle istituzioni italiane in materia di violenza sulle donne. 

L’ONU denuncia: “Femminicidio e violenza sulle donne sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita – ha detto Manjoo a Ginevra -. In Italia, sono stati fatti sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di leggi e politiche, incluso il Piano di Azione Nazionale contro la violenza”, riconosce, “questi risultati non hanno però portato a una diminuzione di femminicidi o tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine (…) In Italia c’è l’incapacità di riconoscere alle donne posizioni e ruoli pari agli uomini e l’incapacità a rispondere con strumenti adeguati a proteggere le vittime. In un contesto sociale patriarcale, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine e le risposte dello Stato non sono appropriate e sufficienti”.

Nell’appena trascorso 2015, dopo due anni e mezzo dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, l’Onu ha ammonito ancora una volta l’Italia per non avere fatto abbastanza per ridurre la violenza di genere.

Noi donne non dobbiamo mollare, sono certa che riusciremo a scuotere le coscienze.

So che è difficile generalizzare, e ne sono consapevole ancora di più in situazioni di questo tipo, ma ripensando a quello che è successo cosa suggerirebbe alle persone che si trovano in una situazione simile?

Suggerirei di pensare guardando in avanti. Di fronte a voi c’è l’altra sponda. Dietro l’abisso. Ci fosse anche un oceano che vi separa da quella sponda di salvezza, credete in voi. Se avete dei figli, teneteveli stretti, abbracciati, trattenete il respiro, tenete bene gli occhi aperti e fate il salto più lungo che potete. Vi meraviglierete di scoprire di avere le ali. Quelle dell’amore, per il quale le distanze non hanno misura. E’ possibile una vita migliore, in cui potrete affrontare ogni problema con un’autostima che non verrà più minata. Parlate delle violenze subite coi parenti, con gli amici più cari e fidati, non chiudete tutto dentro voi stessi, altrimenti diventerà sempre più difficile essere consapevoli di vivere una storia che non è normale. Documentatevi, chiedete aiuto a degli esperti sensibili al problema, che purtroppo è molto diffuso. Consultatevi con delle associazioni per la difesa della donna, a gruppi di mutuo aiuto. Cominciate un percorso di liberazione interiore da un laccio che inevitabilmente ha interrotto la vostra vera esistenza, tenendovi in apnea. Non sentitevi in colpa. Non perdetevi nel rancore, nell’odio. Sarebbero sentimenti che vi terrebbero ancora legati al vostro partner. Aver scelto di sposare o di convivere con l’uomo che amavate non è una colpa. Ci sono dinamiche che in una coppia si manifestano soltanto con la convivenza e, fortunatamente o sfortunatamente, è con essa che riusciamo, via via, a capire dolorosamente in che spirale insana ci si trova a vivere. Siate libere come mai prima. Uscite, camminate, frequentate le persone che veramente vi fanno stare bene. Ricominciate a fare delle scelte per il vostro benessere. Ascoltatevi respirare, ascoltate la vostra anima e vogliate bene a voi stesse. Abbiate cura amorevole di voi. Fate della vostra fragilità un punto di forza nella vita e per la vita. Scrivete a voi stesse di essere rinate.

 

Per il momento ci fermiamo qua. Ringrazio di cuore Angela per la generosità con la quale ha accettato le mie domande che sono doppiamente impegnative, sia perché ripercorrono un’esperienza così dolorosa, sia perché condivise in contesti pubblici come il blog e il sito. Sono consapevole della delicatezza del tema e qualsiasi intervento è ben accetto. Chiunque volesse partecipare alla discussione è invitato a farlo, tenendo sempre presente il rispetto dovuto in vicende così complesse. Qualora preferiste contattarmi in privato potete farlo alla mia mail fabrizioboninu@gmail.com.  

A presto…

Fabrizio Boninu

 

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Gli adolescenti e la noia (3)

Gli adolescentiAdulti invidiosi e mal disposti, li definisce l’autore. Invidiosi di cosa? Cosa può invidiare l’adulto a questi giovani perennemente annoiati e in crisi con la propria vita? Le cose che possono suscitare invidia sono diverse: la vitalità, il tempo, le possibilità, le occasioni, le infinite prospettive che si trova davanti, le opportunità, le esperienze da fare. Non che questi aspetti non possano far parte del mondo adulto, ma spesso molti, una volta cresciuti, non vedono queste possibilità in un vita ormai ordinata, spesso ordinaria, una vita che ha assunto una piega che non lascia intravedere grandi possibili novità. Questo sentire, non ammissibile e non confessabile, spesso neanche cosciente, induce una particolare severità nel giudicare la vita dei ragazzi, severità attraverso la quale non percepiamo l’altro lato della medaglia, il dolore, lo sconforto e la paura che suscita diventare grandi. Se riuscissimo a ricontattare l’adolescente che siamo stati, forse ci tornerebbe alla mente il miscuglio di eccitazione e terrore, di paura e sfida, di sicurezza e fragilità che l’adolescenza comporta. Gli esiti imprevedibili di questa miscela sono ben più spaventosi di quanto un adulto riesca a percepire o ricordare. Anche la noia in questa prospettiva, assume contorni nuovi e stupefacenti, contorni che l’adulto stenta a riconoscere:

Il nostro adolescente non si annoia, ma contempla sgomento la pochezza del mondo che gli hanno preparato ed è costretto a chiedersi come possa renderlo più interessante. Non è affatto ottimista sull’esito dell’operazione è quasi sempre decide di non interessarsi ad azioni trasformatrici, limitandosi a cercare di soffrirne il meno possibile; spesso si costruisce, in alternativa, un mondo parallelo fatto del piccolo gruppo di amici e amiche, con cui prendere in giro il mondo esterno[1]

La noia diviene una forma di desensibilizzazione rispetto al mondo che circonda, mondo sentito come pauroso e ostile, un mondo dal quale fuggire e nel quale, spesso, non si trova la guida di un adulto del quale fidarsi. Un mondo percepito come pericoloso, nel quale ogni privilegio sarebbe volentieri scambiato con la sicurezza, con la facilità, la stabilità, la comprensione. Il mondo in trasformazione è un mondo nel quale anche le relazioni con gli altri, stabili fin da quando si era bambini, vanno ristrutturate all’interno di un rapporto diverso, complesso da decifrare, con continui rimandi e rimproveri, all’interno della logica del ‘non puoi più comportarti così, non sei più un bambino’, quando ancora a quel bambino non è subentrato un adulto che comprenda come relazionarsi con il mondo dei grandi che si avvicina inesorabile.

Questa complessità non viene presa in considerazione, ottenebrati come siamo dai meravigliosi privilegi che concediamo loro e dei quali loro godono. I ragazzi hanno gioco facile nel mostrarsi presuntuosi o fragili, forti o disinteressati, boriosi o intimiditi, in una oscillazione emotiva che spaventa chi sta loro intorno e li allontana. La noia è l’arma con la quale non si fanno toccare, rifuggono dal contatto con un emotivo che disorienta, in primis, loro stessi. Ed è questo il grande dilemma dell’adolescente: essere coinvolto o disinteressarsi? Un dilemma che lambisce anche gli adulti: farsi coinvolgere o mollare la presa?  

Ed è in questo che una figura adulta, supportiva e non giudicante, può essere di grande aiuto. Solo con il sostegno di adulti che siano riusciti a trovare il loro equilibrio tra il ragazzo che sono stati e l’adulto che sono diventati, si può offrire loro una mano tesa e agevolarli a trovare un modo per relazionarsi con un mondo, fisico, relazionale ed emotivo che sta inevitabilmente assumendo contorni nuovi. Un adulto che riesca a non farsi impressionare o spaventare dalla noia e dal disinteresse che manifestano per tenerli alla larga. Un adulto che abbia ben presente che questo mondo sta mutando per i ragazzi ma anche, inevitabilmente, per coloro che li circondano.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Charmet, G., P. (2010), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 107-111

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Gli adolescenti e la noia (2)

Gli adolescentiSiamo solo profondamente consapevoli di quanto ci costi concedere loro questa vita così gremita, e di quanto loro, di contro, si annoino profondamente per tutto il ben di dio che nella nostra infinita generosità, abbiamo concesso loro: 

È opinione diffusa che gli adolescenti si annoino e che il tentativo di risolvere la loro noia sia all’origine di una serie preoccupante di azioni individuali e di gruppo, che lambiscono l’area delle condotte a rischio, fino a sconfinare in azioni direttamente scellerate. La sottocultura dei mass-media soffia sul fuoco di una rappresentazione che vede il nuovo adolescente disperato a causa della noia che lo affligge. E che gli impedisce di scorgere l’azione che lo potrebbe divertire e motivare, tanto da rendersi disponibile a qualsiasi azione che gli garantisca una scarica di adrenalina e lo svegli, restituendogli il gusto pieno della vita.

Consideriamo questa noia come base di tutte le ‘stranezze’ che accadono. Con sempre più risalto sui mezzi di comunicazione che tendono ad esaltare il fenomeno nei suoi aspetti più deleteri, rifiutandosi poi di aiutare a comprendere cosa abbia generato l’atto in se, qualunque impresa compiano attribuiamo la colpa alla noia, alla profonda noia delle loro vite vuote, vite nelle quali tutto (il vandalismo, il bullismo, l’abuso di sostanze, e così via) è legato a doppio filo con l’evitamento di una vita sazia, piena e prevedibile, una vita nella quale l’unico elemento di sorpresa e di vitalità sembra essere riposto solamente nella condotta a rischio

Si tratta di una delle rappresentazioni più scellerate messa a punto dalla cultura degli adulti. Essa parte dall’accusa rivolta agli adolescenti attuali di godere di una serie infinita di privilegi, quali mai nessuna generazione di adolescenti ha potuto godere; beni di consumo à go go, sesso libero, denaro in smodate quantità, libertà di movimento, facilitazioni scolastiche, azzeramento dei controlli, libera frequentazione degli amici, annullamento dell’obbligo militare, genitori disponibili a sponsorizzare la ricerca della propria vera vocazione per un trentennio: questi sono sono alcuni dei privilegi di cui godono i giovani maschi e femmine, in regime di pari opportunità, avvolti in nuvole di fumo di provenienza sospetta e preda di una strana ebbrezza che forse deriva dall’assunzione di beveroni enormi all’ora dell’happy hour, ammassati nei locali alla moda. 

E anche in questo frangente troviamo il modo di dare loro la colpa. Questi giovani adulti, circondati da tutti i privilegi possibili, sono talmente inetti da non preoccuparsi nemmeno di come rendere interessante la loro esistenza, sprecando in maniera sfacciata non solo tutto il tempo che hanno ma anche le opportunità a loro disposizione. Come osano essere così ingrati? Siamo arrivati all’immagine perfetta della nostra innocenza: noi che triboliamo per concedere loro i privilegi dai quali sono circondati, e che a nostra volta avremmo voluto avere, vediamo dissipata in questa maniera un tesoro dalle proporzioni enormi. E cosa dire, poi, dello smisurato spreco di tempo? Questo è la dilapidazione meno comprensibile per un adulto, forse per l’inesorabile senso di sfuggevolezza che, di contro, caratterizza le nostre vite. Ecco allora la continua rincorsa degli adulti a riempire il loro tempo o a sbraitare perché non ne sprechino, come se non dovessero fare esperienza di cosa significhi ‘tempo’ per loro.

Agli occhi degli adulti i nuovi adolescenti sono soverchiati dai privilegi, soddisfatti dai genitori prima ancora che possano desiderare alcunché, alle prese con una scuola che ormai ha ammainato le vele e non chiede nemmeno più che si parino gli enormi debiti accumulati in anni di pirateria scolastica. Così sarebbero esposti a soffrire gravemente di noia, non perché si trovano a giocarsi la giovinezza in assenza di occasioni e di stimoli, ma perché ne hanno troppi e hanno fatto, fin da piccoli, indigestione di privilegi e vizi di ogni tipo. Conseguentemente, ora non sanno più come gestire i loro il loro sconfinato tempo libero, perché hanno già fatto tutto, di corsa, troppo presto, senza alcuna fatica, ma senza neanche avere il tempo di gustarne il sapore. (…)

In questo contesto di soffocanti privilegi diventa scandaloso, agli occhi degli adulti invidiosi e mal disposti, che i ragazzi possano anche solo alludere al fatto che non sanno bene cosa fare, che si annoiano un po’. Se si annoiano in condizioni così stimolanti, vuol proprio dire che non sanno più trovare stimoli, che soffrono della noia in modo quasi allergico. (…) [1] 

– CONTINUA –

[1] Charmet, G., P. (2010), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 107-111

 

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Gli adolescenti e la noia (1)

Gli adolescentiMi sono occupato diverse volte del tema dell’adolescenza, e sono consapevole della nomea che la considera uno dei momenti più critici nella vita dell’individuo. Sicuramente questa fase costituisce una sorta di crocevia di quello che sarà l’assetto adulto (relazionale, emotivo, sociale) che il ragazzo si appresta non solo a costruire ma anche ad esprimere, entrando in relazione in maniera nuova col mondo dei pari e con quello degli adulti, mondo quest’ultimo nel quale si appresta, appunto, ad entrare.

L’incontro tra il mondo dell’adolescenza e quello adulto non sempre è facile, anzi. Il più delle volte una serie di immagini cristallizzate e stereotipate rendono l’incontro tra i due mondi complesso e difficoltoso, e solo con pazienza e costanza si riescono a superare le incomprensioni. Il movimento di incontro deve avvenire da ambo le parti: l’adolescente spesso si rifugia nel mito dell’adulto ‘che non ascolta’ e, convinto di questa realtà, non fa nulla per aprirsi al confronto. Oppure insegue il mito della sua ‘incomunicabilità’, ponendo una vera e propria barriera alla possibilità di scoprirsi con l’altro. Gli adulti, d’altro canto, si rifugiano nel mito, sempre più in voga, dell’adolescente ‘difficile’, mito dietro al quale si nascondono molte delle tante incapacità comunicative e relazionali. Altro mito duro a morire è quello secondo il quale gli adolescenti comunichino solamente col gruppo dei pari, costruendo una perfetta scusante per quella mancanza di rapporto e dialogo che anche gli adulti sono stati in grado di costruire.

In questa difficoltà comunicativa e relazionale, gli adolescenti, a mio avviso, hanno una grande attenuante della quale quasi mai si tiene conto: non sanno cosa significhi essere adulti. Se un adolescente sta crescendo, si sta gradualmente portando verso l’età adulta. Non ha ancora fatto esperienza di cosa questo significhi e costruisce questo significato per l’appunto con la crescita. Un adulto, di contro, sa (o dovrebbe sapere) cosa significhi essere stato adolescente, dal momento che è una fase della vita che deve aver passato (e vissuto) per divenire adulto. Un adulto sa (o dovrebbe sapere) cosa significhi quel senso di straniamento fisico, emotivo, sociale, relazionale, che spesso gli adolescenti provano nella loro crescita. Sa (o dovrebbe sapere) quali picchi di felicità e quali vette di sconforto possano caratterizzare velocemente l’umore di una singola giornata. Gli adulti sanno (o dovrebbero sapere) quali malumori può significare un no, e quali chiusure può portare. Gli adulti lo potrebbero sapere se riuscissero a contattare e a dare voce dentro se stessi all’adolescente che sono stati, al ragazzo che è ancora dentro di loro, che forse non ha mai voluto diventare l’adulto che sono diventati. Se riuscissero a far partire questo dialogo tra il ragazzo che erano e l’adulto che sono diventati, riuscirebbero a stabilire una comunicazione migliore con gli adolescenti che hanno la fortuna di incontrare nelle loro vite. Purtroppo, invece, l’adolescente che sono stati viene spesso messo a tacere, soffocato dalle incombenze ‘da grandi’ che la vita adulta si trova a mettere davanti. L’adulto prende il sopravvento ed è da questa angolazione che si forma la famigerata presa di posizione nel rapporto con adolescenti (e bambini!) per la quale ‘sono io il grande, so io che cosa sia giusto per te’, tanto disprezzato all’epoca ma riapplicato pedissequamente ora che siamo diventati noi gli adulti e siamo dimentichi di cosa tutto questo significasse quando gli adolescenti eravamo noi.

Mettere in discussione questa posizione è estremamente complicato: comporta un confronto personale pesante da sostenere e i cui esiti, incerti e teorici, non rendono sicuramente più facile affrontare. Ecco perché ci si rifugia in stereotipi vaghi, e si ricorre ad immagini dietro le quali si nasconde la complessità di un mondo del quale sentiamo di non condividere più il linguaggio, sentendo, prima che nel rapporto con loro, di aver perso il rapporto con noi stessi, con la nostra stessa adolescenza e con il ragazzo che siamo stati.

Le immagini divengono, in quest’ottica, sempre più statiche e ferme, frasi fatte che contemplano, compatiscono e si beano di quanto gli adolescenti non sappiano cosa fare, rimarcando una distanza sempre più siderale tra il ‘loro’ ed il ‘nostro’ mondo. Fioriscono gli aneddoti più comuni: adolescenti che passano tutto il tempo di fronte alla tv o con videogiochi, ragazzi che non fanno nulla tutto il giorno, quelli che non sanno cosa vogliono, che non sanno godersi la giornata, quelli sempre in giro e quelli sempre a casa, quelli terribili o quelli troppo mansueti che ‘dottore, ci aiuti perché non è in grado di affrontare la vita’. Un’immagine scoraggiante e sconfortante: ragazzi che hanno tutto e che non sono in grado di essere contenti di nulla. Ragazzi profondamente annoiati da una vita troppo piena, una vita nella quale non capiamo neanche cosa sia quello che chiediamo loro.

– CONTINUA –

 

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Come parlare della morte ai bambini (2)

come parlare della morte ai bambini 2La domanda, allora, sorge spontanea: chi proteggono i genitori con la scelta del silenzio? Abbiamo paura di parlare al bambino dei nostri sentimenti, abbiamo timore di mostrare la nostra fragilità. E soprattutto siamo impreparati a discutere – usando termini che i bambini possono comprendere – e a rispondere alla miriade di domande che hanno da porci.

Sono gli adulti i primi in difficoltà nell’esporre le loro emozioni. I genitori si sentono impreparati a discutere e a confrontarsi su tematiche così vaste. Sono gli adulti a sentirsi in difficoltà nell’immaginare quale tipo di termini possano meglio essere utili per condividere con il bambino l’esperienza della morte. Sono gli adulti che si sentono inadeguati ad avere una conversazione con un bambino su un tema così ostico. Sono gli adulti che sentono la difficoltà di fronteggiare i figli con le loro domande, i dubbi, le paure, le speranze. Quello che gli adulti non si dicono è, in realtà, abbastanza semplice: la morte mette in crisi ognuno di noi. Ci obbliga a riflettere sulla nostra vita e sul suo senso, sul nostro destino, sulle nostre scelte. È questo il confronto che cerchiamo di evitare. Quello con noi stessi, con i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre speranze. Quella serie di domande che un bambino, prima di imparare che di certe cose è sempre meglio non parlare, fa ai propri genitori con il desiderio di condividere queste emozioni

Come si può interrompere questa catena di silenzi? Una delle possibilità è quella di accogliere senza giudicare le manifestazioni del dolore: la rabbia, lo scoramento, la delusione, il pianto:

Piangere è uno sfogo utile. Spesso ciò che aiuta davvero è piangere con qualcuno per ricevere appoggio e contenimento affettivo. La condivisione affettuosa di un pianto intenso e non trattenuto è una premessa fondamentale. Essa veicola implicitamente un messaggio strutturante, che dovrà successivamente ed utilmente essere esplicitato: ‘Capisco la tua sofferenza, la trovo legittima, la tua sofferenza e anche la mia, insieme possiamo sostenerla. Il fatto che ci vogliamo bene è anche la risorsa con cui possiamo affrontare le paure, le ansie e le separazioni!’

Questo è un punto particolarmente importante. Il pianto potrebbe essere un momento di condivisione, un momento che accomuna le emozioni del bambino e del genitore, un momento nel quale ognuno può sentire accolto l’altro, ognuno coi propri mezzi. Accogliere e non giudicare o distrarre: frasi come ‘smetti di piangere’, ‘tanto piangere non serve a nulla’, ‘pensa ad altro’, torna a giocare’, ‘non ora’, sono frasi dette talvolta senza prestare troppa attenzione e che, invece di aiutare, possono far sentire soli e isolati. Non accolti appunto. E lascia la manifestazione del dolore incompiuta, incompleta e carente.

Tutti i genitori che mi chiedono cosa fare nel caso la morte entri nell’esperienza di vita di un bambino vengono invitati sul terreno della introspezione e della condivisione, convinto come sono che la cosa più utile sia parlare e con-dividere quello che si sta provando. Magari partendo da se stessi, da quello che si prova e da come ci si sente. Indubbiamente temo sia la scelta più ‘difficile’, più ardua da fare perché opposta a tutto quello che ci hanno insegnato, ma credo anche la più responsabile dal momento che permette di dare un senso, di significare un evento nella storia di vita del bimbo che, altrimenti, rimarrebbe inespresso e sospeso.

Per quanto dolorosa sia la perdita, i bambini non hanno bisogno di distrarsi, non hanno bisogno di pensare ad altro, non hanno bisogno di adulti per i quali quello ‘non è il momento adatto’. I bambini hanno un profondo bisogno di verità, hanno un profondo bisogno di adulti che si assumano la responsabilità di raccontare e condividere con loro questa verità, per quanto dolorosa sia anche per gli adulti

Parlare della morte ai bambini vuoi dire a prepararli a capire la realtà, aiutarli a crescere. Quando muore un nonno, una zia, un genitore, è indispensabile che la verità non venga taciuta o mascherata ai bambini. I bambini sono desiderosi di verità. Se al bambino non è permesso confrontarsi su questo tema cerca di comprenderlo da solo e a volte si crea delle fantasie assurde, il che è molto peggio dell’affrontare la dura realtà della morte. [1]

Verità, non bugie. Avete presente o vi è mai capitato (da genitori o da bambini) che alla morte di una animale domestico lo abbiate (o vi abbiano) semplicemente sostituito l’animale morto con un altro? L’intento è sempre lo stesso: cercare di non (far) vivere l’esperienza dolorosa della morte. Questa apparentemente innocua bugia è la rappresentazione di come affrontiamo la morte: sostituendo l’oggetto amato per non far soffrire. Se l’intento è comprensibile, non altrettanto comprensibili sono le conseguenze di questo gesto: insegniamo (o impariamo) che di alcune cose non si parla, che sono brutte, che sono da dimenticare. Vi invito a fare il contrario: fare una profonda dichiarazione di verità può essere doloroso, ma insegna una grande lezione: non c’è nulla che provo del quale mi debba sentire colpevole di parlare

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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Come parlare della morte ai bambini (1)

come parlare ai bambini della morteParlare di morte è difficile. All’interno della società che ha fatto dell’eterna giovinezza l’ideale più alto, anche solo nominare la sua nemesi mette in difficoltà. Quando ci troviamo ad affrontare l’argomento, stentiamo a trovare le parole adatte, oscillando tra frasi di circostanza e tentativi di rimozione. E sembra ancora più complicato parlare di un tema così complesso con bambini o con adolescenti. Come possiamo parlare di una cosa così dolorosa, così ineluttabile con persone che stanno appena iniziando a vivere la loro vita?

Eppure, per quanto non ci piaccia, è un’esperienza che entra a far parte della vita, spesso fin dalle prime battute. In terapia assisto a situazioni di questo tipo: genitori, peraltro molto premurosi e attenti alle esigenze dei loro figli, si trovano completamente in difficoltà e spiazzati riguardo al come affrontare un argomento così spinoso coi propri figli. La difficoltà è proporzionale al grado di vicinanza (parentale o emotiva) con la persona deceduta. ‘Non volevo farlo star male parlandogliene‘, mi ripetono spesso. Come se la persona cara potesse semplicemente svanire dalla vita o dai ricordi del bambino senza lasciare traccia. Naturalmente questo non è possibile e serve, allora, trovare un modo per condividere quello che avviene. Per farlo utilizzerò alcuni passi di un libro: trovate tutti i riferimenti bibliografici in fondo al post.

Partiamo da una prima considerazione: Gli adulti creano una rischiosa congiura del silenzio intorno al tema della morte. A volte si rimane in silenzio perché si è convinti che la psiche infantile non sia in grado di confrontarsi senza danni con un’esperienza di lutto. I bambini e gli adolescenti si trovano spesso nell’impossibilità di affrontare ed esprimere il lutto, perché non trovano negli adulti che li circondano e anche nella società stessa, un supporto educativo, psicologico ed emotivo adeguato alla perdita.

Questo punto è molto importante: gli adulti costruiscono una sorta di muro di silenzio intorno ai propri figli per non farli confrontare e per proteggerli da un tema doloroso. L’intento potrebbe essere lodevole, ma ogni muro ha una doppia valenza: se da un lato protegge, dall’altro isola. In questo caso, può proteggere da un dolore manifesto (ci sarebbe da chiedere chi protegga questo silenzio ma ci torneremo più avanti!) d’altro canto, però, isola profondamente il bambino che si trova a comprendere di dover gestire autonomamente i propri dubbi, i propri timori perché gli adulti intorno a lui non sembrano intenzionati a condividere con lui questo. Gli adulti utilizzano spesso questo meccanismo coi piccoli (non ne parlo=non esiste) ritenendo il silenzio una grande risorsa protettiva per i figli. In realtà spesso il silenzio genera mostri. Nel silenzio, nella mancanza di confronto, nell’impossibilità di condivisione, proliferano le paure che non possono essere espresse, e crescono dubbi che difficilmente vengono condivisi ma così imparano (e così riproporranno a loro volta da grandi), che di certe cose non si parla ed è meglio che ognuno le gestisca da solo

Andiamo avanti: Sovente i bambini rimangono esclusi dalle comunicazioni e dai rituali che accompagnano la morte di una persona amata. Tale esclusione riflette la grande difficoltà degli adulti nell’affrontare e nel condividere i sentimenti e le emozioni che seguono la perdita di una persona cara. Erroneamente pensiamo che i bambini debbano essere protetti dal tema della morte perché riteniamo che non possiedano gli strumenti psichici, intellettivi ed emotivi per poterlo sostenere. Crediamo che il dialogo con i nostri bambini arrechi loro un dolore insopportabile. Ma questo dialogo fa più male agli adulti, feriti ed impreparati ad affrontare un simile argomento, che non ai bambini desiderosi di verità e di condivisione. [1] 

I rituali funebri, qualsiasi essi siano e comunque vengano celebrati, hanno come scopo quello di sancire una chiusura, scrivere un nuovo capitolo relazionale tra la persona defunta e le persone legate a lui/lei. Anche per gli adulti ha un’alta valenza simbolica, perché permette ad un’esperienza così misteriosa e dolorosa di avere un senso, di essere ricompresa nella vita stessa delle persone che rimangono. Eppure capita che i genitori mi dicano di non aver fatto assistere i figli al funerale della persona amata. Pur comprendendo la difficoltà, temo che questa strategia ottenga in realtà risultati opposti a quelli sperati. Se l’intento, infatti, è quello di proteggere i propri figli, va presa anche in considerazione l’impossibilità, in caso di non partecipazione al rituale che viene celebrato, di salutare la persona amata. Non far partecipare i bambini a questo rito, non permette loro di chiudere l’esperienza di vita con quella persona. È come se l’evento rimanesse sospeso, non definito, aperto. Il bambino, che magari ha già sentito difficoltà a trovare persone con le quali condividere il dolore per la scomparsa della persona, si ritrova anche nell’impossibilità materiale di potergli dire addio e di poter, così, chiudere simbolicamente il percorso di vita con la persona deceduta

– Continua –

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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PEDOFILIA: intervista a Massimiliano Frassi

abuso

Il tema che affrontiamo in questo post è un tema duro, complesso e disturbante. Parliamo di pedofilia e lo facciamo con una persona che se ne occupa da parecchi anni e in diversi contesti. Una di quelle persone preziose che, anziché ritrarsi inorridito da questo baratro, ha deciso di guardarci dentro e a fondo, cercando di illuminarne gli anfratti, di chiedere e chiedersi il perché, di portare alla luce tutti gli elementi che avvicinano questo baratro a noi e alle nostre storie. Una persona che ha cercato di svegliare le coscienze intorpidite dalla paura e dall’orrore, coscienze che spesso si voltano, con le pericolose conseguenze che ne discendono, pur di non vedere una realtà spaventosa. Sto parlando di Massimiliano Frassi, autore di diversi bestseller sul tema della pedofilia, organizzatore con l’associazione Prometeo del coordinamento nazionale delle vittime di abuso. Ci racconterà meglio lui la sua storia e il suo percorso. Per quanto riguarda la mia storia, mi sto occupando sempre più spesso di questo tema, inserito all’interno della distorsione adultocentrica della nostra società e, in questo mio percorso di conoscenza e approfondimento, ho avuto la fortuna di incontrare Massimiliano ad un convegno organizzato dalla fondazione Domus de Luna (clicca sul nome per visualizzare la pagina della fondazione) a Cagliari.

Scomodo, emozionante, pungente, disturbante, sconvolgente, sono solo alcuni degli aggettivi che mi vengono in mente per descrivere il convegno. E, forse, adatti per descrivere Massimiliano stesso. 

Parlare di materie così complesse mette in difficoltà, costringe a confrontarci con una realtà impossibile solo da immaginare. Una realtà che, invece, esiste e che, su questa nostra difficoltà, prospera e cresce. Una realtà misconosciuta, dove giocano anche stereotipi e pregiudizi che, con l’aiuto di Massimiliano, cercheremo di vagliare. 

Ciao Massimiliano, benvenuto e grazie per aver accettato l’invito e parlare con me di un tema che ti/ci sta tanto a cuore. Dopo la mia breve presentazione, vogliamo darne una più approfondita per chi non conoscesse il tuo lavoro: chi sei e di cosa ti occupi?

Sono il responsabile di Prometeo Onlus, una associazione, da me fondata circa 20 anni fa e tra le più attive, in Italia, nel campo della lotta alla pedofilia. Da una parte siamo operativi e diamo assistenza e tutela alle vittime, molte delle quali adulte che solo oggi trovano la forza e la possibilità di parlare e chiedere aiuto e dall’altra parte facciamo formazione e sensibilizzazione affinché l’omertà che protegge chi abusa sia definitivamente annientata.

La prima curiosità è: come sei arrivato ad occuparti di un tema così forte come la pedofilia?

Non per aver subito abusi io stesso, semmai per poter dare agli altri la stessa infanzia che ho avuto io. Professionalmente parlando è stata parte di un percorso, partito con una scelta di vita che mi ha portato ad operare prima come operatore di strada, che si occupava di emarginazione grave e poi di minori, specializzandomi e fondando la Prometeo.

Che realtà è la pedofilia oggi?

La realtà di sempre. Che vede un abusante e buona parte della società, abilmente impegnati a zittire un bambino. Per potergli nuocere.

All’interno del tuo intervento, mi ha colpito come tu sia riuscito a mettere in discussione alcuni stereotipi ben radicati. Il primo è che, nell’immaginario collettivo, la pedofilia sia un fenomeno prettamente maschile. É proprio così?

Purtroppo da alcuni anni a questa parte assistiamo ad un fiorire di una pedofilia al femminile. Numericamente minoritaria, con percentuali molto basse, ma pesanti “qualitativamente”. Perché quando è la mamma ad abusare, ad es., è chiaro che le ferite saranno ancora più profonde.

Altro stereotipo: gli abusanti sono spesso stati abusati a loro volta. Possiamo confermarlo?

Sì, ma non lo dico io, anche se 20 anni di esperienza mi danno il potere di poterlo gridare forte. Lo dicono tutti i trattati scientifici che hanno davvero studiato questa assurda equazione. Creata dai pedofili per, in qualche modo, difendersi, tutelarsi e nuovamente infangare le vittime. Poi può capitare che su un numero elevatissimo di vittime ci sia chi diventa pedofilo, ma se c’è è davvero un numero bassissimo che non rende tale equazione reale. Chi lo sostiene dimostra di non aver mai lavorato nel campo dell’abuso ma ancora prima, dimostra di non aver rispetto delle vere vittime.

Sapessi quante donne seguo che hanno paura di rimanere incinta perché “magari poi diventano pedofile e fanno provare al proprio figlio quanto hanno provato loro” e questa mala educazione, gliel’ha inculcata chi doveva guarirle. Non renderle vittime a vita.

Ancora: il pedofilo è un mostro, una sorta di orco facilmente identificabile. Cosa c’è di vero?

Nulla. È ovviamente mostruoso l’atto che compie. Ma se cerchiamo l’orco, così come pensiamo lo sia, non lo vedremo mai nel bravo vicino di casa, nello zio affettuoso, nel maestro severo ma presente, nel parroco pacioccone.

Ho letto il tuo lavoro ‘Il libro nero della pedofilia‘ e le cifre sono spaventose. Credi sia un fenomeno in aumento o stia semplicemente affiorando sempre più in superficie?

Forse entrambe le cose.

Oggi se ne parla poco ma sicuramente molto più di quando iniziammo anche solo 20 anni fa. Poi c’è internet, con il suo lato oscuro e la possibilità di avere accesso a materiale che farebbe uscire di testa qualsiasi essere umano, ma che a loro dà piacere. Ed a lungo andare si stuferanno della “sola” foto e passeranno al contatto diretto. Poi ancora oggi c’è la possibilità di fare viaggi dall’altro capo del mondo, con spese irrisorie rispetto ad una volta e comunque alla portata di tutti, che favoriscono i turisti sessuali, cacciatori di bambine e bambini coetanei dei figli che lasciano a casa.

Sono tutte varianti che portano allo stesso punto: il progresso di questa civiltà ha paradossalmente portato ad una regressione di parte della stessa. In parole spicce, se da una parte siamo andati sulla Luna, dall’altra siamo tornati a Jurassic Park.

In questo giocano un ruolo enorme le nuove tecnologie: social network, smartphone rendono la pedofilia più ‘facile’ e ‘fruibile’? 

Sì, purtroppo sì. Molto banalmente: pensiamo a cosa voleva dire per un pedofilo dover far sviluppare un rullino con delle immagini di abusi da lui prodotte. E pensiamo oggi con il più piccolo smartphone cosa non si può fare.

Quali sono le aree geografiche più interessate al fenomeno?

È un fenomeno trasversale. Che tocca tutte le sfere della società. Non certo solo le aree più povere. Poi di sicuro se dobbiamo fare una analisi “geografica”, posso dire che ci sono aree dove il retaggio culturale ancora favorisce il silenzio. L’omertà. Ma questo vale nel paesino del bresciano, come in quello del cagliaritano.

La pedofilia è una realtà percepita come distante dalla nostra vita quotidiana. Queste sono cose che succedono agli altri, lontani da noi. Noi, e i nostri figli, siamo ‘al sicuro’. E funziona fino a quando un caso cruento di cronaca nera scuote le coscienze. Penso al caso di Yara Gambirasio. O del piccolo Tommaso Onofri. Come possiamo stare attenti a quello che succede intorno a noi?

Questo non è un paese per bambini. Lo grido, disperatamente, da tempo. Basandomi su fatti concreti. Avrei preferito che i fatti mi smentissero. Che i pazzi fossimo noi. Ma purtroppo così non è stato. E la piccola Yara o il nostro angioletto Tommaso, sono solo la punta dell’iceberg. Bimbi strappati dal loro mondo. E sottratti al nostro futuro. Sarebbero diventati dei grandi adulti, in grado di fare grandi cose. Ma qualcuno ha scelto che così non fosse e l’ha deciso con la violenza.

Pensare a loro come fossero figli nostri, forse la risposta sta proprio lì….loro ovviamente in rappresentanza di Salvo, Roberto, Susanna, Lucia, Silvia, Carolina, Alex, Giovanni, Massimo, Rosaria, Andrea, e via dicendo per un elenco di bambini numericamente elevatissimo. Bimbi non finiti per fortuna sul tavolo di un obitorio, ma morti dentro. Fino a quando non troveranno chi riaccenderà in loro la speranza e la voglia di vivere.

C’è, tra i diversi casi che ha seguito personalmente, un caso che ti ha coinvolto più degli altri?

No. Ognuno ha la sua importanza. Ognuno il suo dolore. Poi sì, di sicuro c’è quello che ti resta più dentro, per vari motivi, ma ripeto sono tutti uguali e tutti meritano lo stesso posto e lo stesso rispetto.

La pedofilia spaventa e atterrisce perché è un fenomeno di proporzioni enormi. Nel nostro quotidiano, cosa possiamo fare noi?

Informarci. Ed indignarci. Non chiediamo molto, non credi? Peraltro lo facciamo per mille cose futili. Farlo per qualcosa di serio, non sarebbe male. E sarebbe ora!

C’è qualcosa che non ti ho chiesto che mi vorresti dire? 

Sì, se c’è vita, un futuro dopo l’abuso. E la risposta è: “certo che c’è. Si può e si deve tornare a vivere. E quando accade, ed accade sempre, è meraviglioso!”.

Parola di Massimiliano Frassi.

Ringrazio di cuore Massimiliano per essersi prestato alle mie domande. Il tema è vasto e mi riprometto di tornarci. Chi fosse interessato può visitare il blog di Massimiliano: potete cliccare sul link L’INFERNO DEGLI ANGELI e verrete reindirizzati al sito. Consiglio vivamente anche la lettura dei suoi testi (trovate tutta la bibliografia sul sito L’inferno degli angeli), tra tutti il già citato Il libro nero della pedofilia con prefazione di Alessia Sinatra ed edito da La Zisa. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Le mete della terapia: un caso clinico (2)

le mete della terapiaSe torniamo per un momento alle tre regole, possiamo vedere come il sistema familiare sia stato destabilizzato da una versione alternativa del loro racconto e gli sia stato ‘impedito’ di procedere continuando nel mito  condiviso per il quale il figlio costituisse l’unico contrasto all’interno della famiglia. Questa sorta di disvelamento riuscì in qualche modo a far riposizionare tutti gli attori in gioco, padre, madre e figlio, su posizioni diverse rispetto a quelle iniziali. Il forte attrito familiare non era solo del figlio ma, anzi, coinvolgeva molto più il livello genitoriale e di coppia. Il figlio si ritrovava in qualche modo ad agire questa frizione, attuando dei comportamenti che non gli erano propri neanche a detta dei genitori. Le sedute successive servirono per stabilizzare la presa di coscienza di questa situazione, servirono a tutti e tre i protagonisti ad accettare la situazione tra loro, farla emergere e sopratutto potersi confrontare in merito, anziché fingere che non esistesse e che non stesse provocando lacerazioni così forti.  

Il ruolo del terapeuta all’interno di questo processo è quello di agevolare e proporre una visione alternativa di quello che sta succedendo:  il terapista non ricerca l’ipotesi più plausibile, non ritiene di avere ragione nella sua interpunzione dei fatti, si propone di creare e offrire delle ipotesi alternative, delle connessioni diverse tra gli eventi per sbloccare la famiglia da una interpretazione rigida che non permette la risoluzione del problema. È in questo processo di punteggiatura che si fa un ampio uso della ridefinizione [1]. Questo è uno degli elementi maggiormente interessante, perché permette, sia nelle terapie familiari sia nelle terapie individuali, di svincolare la famiglia dal racconto che si è data e che costituisce un blocco e una restrizione nella sua ulteriore evoluzione. Un nuovo racconto condiviso tra i membri permette la ridefinizione di una serie di fattori: ruoli, percezioni, collegamenti, relazioni. Dovendo riassumere tutte queste funzioni in un termine credo potrebbe essere senso. Il senso di quello che succede, il senso di come sia organizzata la famiglia (o la vita dell’individuo!) viene ricostruita a partire da considerazioni diverse rispetto a quelle con le quali la famiglia stessa è arrivata in terapia. Immaginate, nel caso della famiglia raccontata, come possa essere stato liberatorio per il figlio poter scrollarsi di dosso la responsabilità di tutto il malessere che circolava all’interno della famiglia e sentirsi come parte di quello che stava succedendo a livello più ampio e che coinvolgeva elementi che andavano ben oltre le sue frequentazioni o il suo rendimento scolastico oppure a come dev’essere stato importante, per quanto doloroso, per i genitori poter discutere apertamente del nuovo assetto che si stava prospettando per la loro famiglia.

La famiglia viene in terapia con un’ipotesi che organizza il suo rapporto con la realtà; compito del terapista è impedire che questa perseveri nelle premesse. Non si tratta certo di sostituire l’interpunzione della famiglia con un’ altra più ‘corretta’ quanto di proporre varie letture perché la famiglia a prendere a organizzare i dati [1].

Nel nostro caso, non si tratta quindi di dare una ‘versione corretta’ di quello che sta succedendo, quanto di proporre una versione alternativa a quello che viene portato, una nuova visione che permetta loro di uscire dall’unico racconto di senso che si sono autorizzati a vivere. Torniamo a questo punto alla domanda iniziale: abbiamo forse curato la famiglia? L’abbiamo guarita? Curare o guarire sono termini che presuppongono riportare qualcosa o qualcuno da uno stato di malattia ad uno stato di sanità. Possiamo dire di avere fatto questo? Probabilmente no, non si è trattato di curare quanto di agevolare un percorso in un momento evolutivo specifico della famiglia o dell’individuo. Più che di cura, allora, sarebbe necessario parlare di una sorta di processo accompagnatore. Utilizzando un’immagine, mi piace immaginarlo simile al compito che ha un’ostetrica quando aiuta una donna nel parto: non la sta guarendo dalla gravidanza, la sta accompagnando ed aiutando all’interno di un processo che determina l’enorme cambiamento che sta coinvolgendo la sua vita. 

Questo è uno degli enormi obiettivi della terapia: un accompagnamento consapevole, attento e partecipe nel percorso di cambiamento che una famiglia, o un individuo, decidono di affidarti. Un percorso che porta in qualche modo alla ristrutturazione della prospettiva di vita dell’individuo che decide di fidarsi di noi.

Credo sia una meta, un traguardo decisamente più appassionante di quello di voler guarire una famiglia (o una persona).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Boscolo, L., Caille, P., et al. (1983), La terapia sistemica, Editore Astrolabio, Roma, pp. 46-47

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Le mete della terapia: un caso clinico (1)

le mete della terapiaUno degli interrogativi più importanti, che spesso le persone con le quali lavoro mi chiedono, è quali possano essere considerate le mete, gli obiettivi della terapia. Qual è l’obiettivo che si dovrebbe raggiungere in terapia, quali sono gli scopi, e verso cosa sarebbe necessario tendere nel lavoro? All’interno della cornice sistemica, orientamento psicoterapeutico nel quale sono specializzato, il concetto stesso di malattia è messo in discussione, sostituito dal concetto di significato: un comportamento che sembra ‘malato’ dall’esterno, spesso acquista un senso nel momento in cui ci si rende conto che ha un’utilità all’interno del sistema familiare nel quale viene portato avanti. In quest’ottica epistemologica, questa premessa ha, come necessaria conseguenza, considerare come l’obiettivo della terapia non possa essere la ‘guarigione’, dal momento che non c’è nessuna guarigione da perseguire. L’obiettivo può allora diventare la consapevolezza dei meccanismi che, diventati automatici, sono talmente radicati e istintivi da diventare del tutto inconsapevoli. L’obiettivo può essere quello di una risignificazione, costruire un nuovo significato a ciò che definiamo ‘malato’. Questa presa di coscienza presuppone un cambiamento? Non necessariamente, dal momento che, data maggiore consapevolezza al sistema familiare che lo persegue, la famiglia stessa potrebbe decidere comunque di portare avanti quel tipo di comportamento. Ma allo stesso tempo è vero che qualunque presa di consapevolezza, qualunque riflessione sui modi che sottostanno al comportamento stesso costituisce già di per  un cambiamento perché porta quel comportamento da uno stato di automatismo ad uno stato di maggiore consapevolezza.

Come si ottiene che si dia l’avvio ad un processo terapeutico?

Tre sono i momenti (…):
1) destabilizzare il sistema ponendosi come campo di forza esterno in grado di provocare o amplificare una fluttuazione, offrendo informazioni alternative e una lettura differente degli accadimenti;
2) impedire che la famiglia proceda nel solito percorso e favorire l’introduzione di informazioni che facilitino il processo di riorganizzazione introducendo una costante;
3)  sapersi separare al momento in cui si innesta il processo di riorganizzazione (Fivaz, 1980)[1]

Va fatta una premessa: l’autore fa questo lavoro riferendosi specificamente alla terapia familiare ma credo che il senso sia estendibile anche alle terapie individuali. Il terapeuta, all’interno della terapia familiare, può dunque dare vita a tre momenti diversi: può destabilizzare il sistema offrendo un racconto diverso rispetto a quello che si da la stessa famiglia. Proporre una lettura alternativa a quello che è il racconto della famiglia, può impedire che essa torni o tenda al solito percorso, introducendo in questo modo una costante nuova, una variabile, che possa modificare la visione. Il terapeuta dovrebbe, infine, comprendere quando questo processo è avviato e riuscire a separarsi, favorendo l’autonomia, l’individuazione e l’indipendenza della famiglia.

Un esempio concreto renderà questo discorso più facilmente comprensibile: tempo fa avevo in terapia la famiglia Bianchi, composta da padre, madre e un figlio di 16 anni. Vennero perché il figlio, a loro dire, era particolarmente indisponente, non faceva più nulla di quello che doveva fare, andava male a scuola, frequentava persone che non piacevano ai genitori, aveva iniziato a fumare e così via. Volevano che lo curassi, che lo facessi tornare ‘normale’. Accolsi questa loro richiesta e proposi loro qualche incontro col ragazzo. Il ragazzo che mi si presentò era molto diverso dalla descrizione che me ne era stata data: era un ragazzo disponibile, aperto, molto educato e faticai a riconoscere in lui il ‘mostro’ che mi era stato dipinto.

Pensai, allora, che un incontro con tutti e tre i membri della famiglia assieme potesse far incontrare le diverse visioni che avevano sulla loro stessa famiglia. Nell’appuntamento successivo vennero, dunque, tutti e tre e, per lo meno inizialmente, la seduta si concentrò su quanto il comportamento del figlio fosse l’unica causa del malessere in famiglia. Con tutti i membri del nucleo familiare presenti era però possibile rendere loro l’idea che questo focus così forte sul comportamento del figlio, potesse anche essere un modo per ‘occultare’ qualunque altro movimento all’interno della famiglia. Concentrarsi esclusivamente sul comportamento del figlio rendeva completamente invisibile tutto il resto che riguardava la famiglia e non lasciava molto spazio per i malesseri dei singoli membri. Tentai di passare loro la mia idea che il comportamento del figlio costituisse una sorta di grande distrattore familiare che non permetteva di vedere altro. Cos’altro accadeva in famiglia? Spostando il comportamento del ragazzo dal centro dell’attenzione, vennero fuori aspetti particolarmente interessanti. Il padre era completamente insoddisfatto della sua vita lavorativa e meditava, avendolo di fatto già deciso, di partire all’estero per cercare di fare qualcosa di più interessante oltreché più remunerativo. D’altro lato la madre era completamente insoddisfatta (e spaventata) da questa prospettiva, ed era altrettanto insoddisfatta della piega che stava prendendo la sua vita familiare, dal momento che si apprestava a diventare una madre sola con un figlio adolescente, con un marito lontano per molti mesi all’anno che non avrebbe più potuto occuparsi attivamente dell’educazione del figlio. Al figlio non era stato detto nulla dell’enorme cambiamento che si andava prospettando ma, come tutti voi avrete avuto modo di sperimentare in famiglia, le cose le aveva in qualche modo intuite anche se nulla era stato apertamente ammesso (potremmo aprire una parentesi enorme sulla gestione del dialogo in questa famiglia, soprattutto nei confronti del figlio, ma il tema ci porterebbe troppo lontano dall’idea centrale di questo post). Insomma, una serie di movimenti, dei quali non si poteva neanche parlare, stavano interessando tutto il nucleo familiare. Ecco allora che il comportamento del figlio, concomitante con questa fase di vita familiare, acquista un significato del tutto diverso. Il comportamento del ragazzo ha un senso contrario rispetto al valore che ne veniva dato nella descrizione iniziale: anziché disturbatore della pace familiare, il ragazzo catalizza le attenzioni dei genitori, permettendo a tutti loro di non concentrarsi su un divario ben più pericoloso e consistente.

– CONTINUA –

[1] Boscolo, L., Caille, P., et al. (1983), La terapia sistemica, Editore Astrolabio, Roma, pp. 46-47

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Bullismo omofobico: risponde il dr. Jimmy Ciliberto

bullismoIl post di oggi ha come tema un fenomeno che ha radici profonde ma che, complici alcuni fatti di cronaca con risvolti particolarmente tragici, è diventato argomento dibattuto nelle cronache nazionali. Sto parlando del bullismo omofobico e questa attenzione testimonia una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica su temi legati alla violenza omofoba, argomento, questo, che possiamo considerare strettamente legato al dibattito più ampio che interessa la possibile approvazione in parlamento di una legge che regoli le unioni civili. Ma torniamo a noi: cosa si intende con il termine bullismo omofobico? Sostanzialmente consiste in atteggiamenti o comportamenti violenti tramite i quali una persona viene presa di mira da un coetaneo (o da un gruppo organizzato di suoi coetanei) in una relazione all’interno della quale il rapporto di potere non è paritario. La persona prescelta viene oppressa con vari atteggiamenti (derisione, minacce, insulti, esclusione…) ed il pretesto per l’attacco è dato, appunto, dalle scelte sessuali o dall’orientamento sessuale (reale o presunto) della vittima.

Per parlare di questo importante tema ho pensato di rivolgermi ad una persona che, per professione, è un conoscitore della materia. Mi riferisco a Jimmy Ciliberto, psicologo, psicoterapeuta, autore, insieme ai colleghi Paolo Rigliano e Federico Ferrari del testo Curare i gay?, edito da Cortina. Jimmy da tempo dedica la sua attenzione a tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Chi volesse ulteriore dettagli sul libro può cliccare qui mentre chi volesse saperne di più sul dr. Ciliberto può cliccare qui.

Ciao Jimmy, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito e benvenuto! Direi di partire dalla definizione di bullismo omofobico: come potremo descriverlo?

Ciao Fabrizio e grazie a te per il tema che hai deciso di trattare.

Possiamo definire generalmente bullismo omofobico quell’insieme di comportamenti apertamente squalificanti e discriminatori assunti da una o più persone nei confronti di un ragazzo o di una ragazza omosessuale (o solo considerati tali), proprio a causa del loro presunto o reale orientamento non eterosessuale. Questa è però una definizione molto generale, per quanto utile a capire di cosa stiamo parlando. Penso che il fenomeno sia molto più complesso, e come tale vada trattato, altrimenti si rischia di considerarlo come una nuova etichetta diagnostica che riguarda solo la persona che mette in atto il comportamento vessatorio.

Io preferisco parlare di contesti eterosessisti che favoriscono, a diverso grado, un insieme di dinamiche che hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica.

Penso inoltre che le dinamiche discriminatorie non siano elicitate tanto dall’orientamento non eterosessuale in sé, quanto da tutti gli aspetti che rimandano ad una idea di maschio e femmina che sfida la dicotomia esistente.

In base alla tua esperienza, è una realtà diffusa oppure un fenomeno di nicchia?

Purtroppo constato ancora che negli ultimi anni della scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, quelli durante i quali nascono le situazioni di bullismo omofobico, la situazione è stagnante. Le parole che rimandano alla non eterosessualità di una persona vengono usate come presa in giro e insulto, pochissimi insegnanti si sentono competenti e a proprio agio nel parlare di queste tematiche, e l’idea che un proprio alunno o una propria alunna possano essere omosessuali continua a rimanere, nella maggior parte delle situazioni, una “non idea”.

Diversa è la situazione nella scuole secondarie di secondo grado, dove emergono differenze significative tra Istituti e Istituti. Affianco a contesti non dissimili a quelli di cui sopra, esistono realtà (principalmente nei grandi centri urbani) che accolgono la diversità, sia tra pari che con gli adulti.

Cosa provocano questi attacchi alla persona colpita?

Come ho detto prima, questi comportamenti hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica. Se la persona vive poi in un contesto che sente come non sufficientemente supportivo, od addirittura collusivo con quello che a scuola lo discrimina, possono esserci conseguenze più complesse che possono andare dallo sviluppo di una sintomatologia ansioso-depressiva, all’assunzione di comportamenti a rischio, od anche (raramente per fortuna) all’ideazione suicidaria.

E quali sono le reazioni più comuni a questo tipo di discriminazioni?

Parlare di reazioni comuni è molto difficile, possiamo però affermare che sono ancora troppe le situazioni in cui c’è collusione, soprattutto tra i pari, o sottovalutazione della portata del problema da parte degli adulti.

La maggior parte di questi episodi avviene durante la preadolescenza e l’adolescenza, età nelle quali i ragazzi sono per molto tempo a scuola. Prendiamo in considerazione come si comportano gli altri attori di questa istituzione: gli insegnanti come affrontano questi episodi?

Purtroppo non ci sono risposte omogenee: a fronte di docenti che affrontano la situazione in maniera complessa, promuovendo discussioni con i ragazzi, parlando con le famiglie, attivando anche risorse extra qualora necessario (progetti educativi, supporti psicologici etc), troviamo anche insegnanti che si limitano ad intervenire in maniera punitiva, oppure altri ancora che non intervengono perché sentono di non avere gli strumenti o perché pensano che non rientri tra le loro mansioni.

Mentre le scuole come istituti che fanno?

Ritroviamo la stessa eterogeneità di cui sopra. Alcune scuole non prendono minimamente in considerazione la questione, altre organizzano momenti di riflessione a prescindere dalla presenza o meno di comportamenti discriminatori.

All’interno della famiglia, come pensi dovrebbero comportarsi i genitori dei ragazzi presi di mira? 

Rassicurare i figli che il loro amore prescinde dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, mettersi in posizione d’ascolto e chiedere ai figli stessi cosa possano fare per aiutarli. È fondamentale che i ragazzi e le ragazze sentano di valere, soprattutto per la propria famiglia d’origine.

Mentre le famiglie dei bulli a cosa dovrebbero prestare attenzione?

Non mi piace pensare alle famiglie dei bulli, ma alle famiglie in generale, che a loro volta sono parte di comunità locali via via più ampie. Dobbiamo fare lo sforzo di uscire di modalità di azione basata sulla risposta alle urgenze, in maniera parcellizzata, ed iniziare ad abbracciare una modalità di pensiero e azione più sistemica e dialogica.

Hai dei suggerimenti da dare agli attori coinvolti in queste vicende per affrontare episodi di questo tipo?

Come dicevo prima, ascoltare questi ragazzi, vederli, restituire in maniera forte il fatto che loro valgono per la loro straordinaria unicità.

Alle famiglie e alle scuole, invece, il mio invito è quello di rendere chiaro, nelle loro comunicazioni e nelle loro azioni, che una persona vale ed è unica a prescindere dal proprio orientamento sessuale .. un modo semplice, ma potente è quello di usare una comunicazione che non dia per scontato l’eterosessualità di una persona, mai …

Come possiamo collaborare per far si che episodi come questi diventino sempre più ostracizzati?

Penso che le azioni da compiere debbano essere più che altro nella direzione di renderli sempre meno sensati ed attraenti. Come dicevo sopra, penso sia fondamentale lavorare con gli insegnanti, di ogni ordine e grado, e con coloro che formano gli insegnanti, nei contesti universitari e post universitari, affinché interiorizzino sempre più profondamente un cambio di premesse, tale da consentire una comunicazione, nell’accezione più ampia del termine, che veicoli il messaggio che anche le persone non eterosessuali sono presenti nelle loro teste, indipendentemente dal fatto che ci sia una persona esplicitamente glb.

 

Ringrazio di cuore Jimmy Ciliberto per la disponibilità nell’essersi prestato alle mie domande. Il tema naturalmente è vasto e ci torneremo ancora con altri interventi. Credo sia un ulteriore, importante passo per introdurre questo argomento in un dibattito che coinvolga più spazi possibili.

Se ci fossero persone interessate a testimoniare o a condividere la loro esperienza, naturalmente in forma assolutamente anonima (a meno che non desiderino il contrario!), possono contattarmi telefonicamente (3920008369) o per mail (fabrizioboninu@gmail.com).

Come sempre fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

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FILM: Hungry hearts

hungry heartsEccomi a raccontarvi uno dei film forse più disturbanti visto da un po’ di tempo a questa parte. Il tema è abbastanza complesso e ricco di sfaccettature. Un film che mi ha colpito molto sia per il tema trattato, che per la bravura di regista e attori.

Il film in questione si intitola Hungry hearts, letteralmente Cuori affamati, scritto e diretto da Saverio Costanzo, e interpretato con straordinaria bravura da Alba Rohrwacher nel ruolo di Mina e Adam Driver nel ruolo di Jude.

Il film racconta la storia di Mina e Jude, due giovani il cui primo incontro avviene in maniera abbastanza imbarazzante ma che costituisce una sorta di presagio a quello che capiterà tra i due. Nella prima parte, viene raccontata la genesi del loro rapporto, dall’episodio nel bagno del ristorante giapponese fino alla costruzione del loro rapporto. 

Dopo qualche tempo arriva con loro, ma soprattutto tra loro, un figlio. Questo fattore costituisce il punto di rottura nei rapporti tra i genitori. Il bimbo, anziché costituire un ulteriore legame nella relazione genitoriale, si frappone fra i due genitori diventando causa scatenante delle ossessioni della madre. Mina, inizia gradualmente a chiudersi nel rapporto col figlio tagliando fuori il mondo esterno sotto tutti i punti di vista. Per cercare di garantire la purezza del figlio, arriva a non fargli mangiare altro se non cibo di sola origine vegetale che lei stessa coltiva su una sorta di serra sulla terrazza di casa. Il bambino non viene portato mai fuori: il mondo esterno è percepito come ostile, pericoloso, avvelenato. Da evitare. La loro casa diventa un piccolo mondo asfittico, deformato nelle stesse inquadrature dei personaggi che assumono contorni sformati ed alterati. Anche la relazione tra madre e piccolo diventa sempre più esclusiva e in Mina aumentano le difficoltà anche a far toccare il bambino dal padre che, venendo ogni giorno a contatto col mondo esterno, è sempre più contaminato. Il rapporto con Jude inizia a farsi complicato. La vitalità che sorreggeva il loro rapporto si è tramutata ormai in un clima di pericoloso sospetto, nel quale entrambi attribuiscono all’altro la pericolosità per la salute del bambino. La loro vita di coppia, finanche la loro vita sessuale è tramontata sotto la scure pesantissima dell’ossessione. Jude si rende conto del fatto che il comportamento di Mina è sempre più pericoloso e riesce, con una sorta di sotterfugio, a far visitare di nascosto il bambino da un medico che ne constata il grave stato di denutrizione e il mancato accrescimento. Questo provoca una sempre più forte perdita di fiducia tra entrambi i genitori, una perdita di sfiducia che sfalderà inesorabilmente il noi coniugale a favore di due io contrapposti, sublimati nelle frasi di Mina ‘Io so cosa è meglio per lui’ o in ‘tu hai fatto male a mio figlio’. Fine del noi, fine del nostro. Il contrapporsi di due visioni completamente differenti su cosa sia proprio fare, sfocerà in un esito che evito di raccontarvi per non rovinarvi il film.

Come dicevo, il film mi ha particolarmente colpito per l’apparente discrasia che esiste tra le intenzioni della mamma, quella di fare il bene del proprio figlio, ed i risultati manifesti. La nascita e la crescita del figlio diventano  vere e proprie ossessioni: il mantenimento della purezza del bimbo diventa lo scopo ultimo dietro al quale deve attendere tutto, persino la sua vita, tanto che si annulla nella crescita di questo bambino.

Ho letto che molte persone, in questo film, hanno visto una critica all’alimentazione vegetariana soprattutto se destinata ai bambini. Non sono d’accordo, non credo sia questo il punto principale della narrazione. Credo che il tema principale sia: cosa succede quando un figlio diventa l’unica ragione di vita? Cosa accade quando l’amore è solo un pretesto e un figlio è solo il modo per creare un senso alla nostra vita? In tutto il film aleggia una fortissima solitudine che accentua ancora di più lo spaesamento dei protagonisti. Ambientato a New York, alienante di per sé come ogni grande metropoli, i protagonisti si trovano a muoversi da soli, non circondati da una rete di relazioni né amicali né familiari che possano costituire per loro motivo di sicurezza. Solo la mamma di Jude avvicina i due giovani nella loro vicenda. La storia familiare di Mina è molto sfilacciata. Orfana di madre, ha un padre che non vede mai e con il quale non è in buoni rapporti. Questa potrebbe essere una delle chiavi che possano far ‘comprendere’ ciò che poi Mina attua con suo figlio: un bimbo che ci ama come la cosa più preziosa del mondo non può che riscattare una vita nel quale l’amore è stato così assente. E nessuno correrebbe il rischio di inquinare la sola fonte di amore che sente di avere. Ed è necessario esercitare un forte controllo sulla fonte, un fortissimo possesso, in grado di riscattare una vita che ha avuto così poco emotivamente.

Ripeto, un film profondo e disturbante, sicuramente un film che non lascia indifferenti e costringe a riflettere su quelle che sono le conseguenze dell’amore, o meglio sulle conseguenze del mancato amore, quando tutto quello che sembra dare un senso alla nostra vita è quello di aggrapparsi all’amore delle persone che riescono a fornircelo nel modo più incondizionato: i bambini. Finendo, in questo attaccamento, per perdere di vista il valore più importante: il loro bene.

Se l’aveste visto e voleste condividere le vostre impressioni lasciate un commento o contattatemi per mail (fabrizioboninu@gmail.com). 

A presto…

Fabrizio Boninu

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La persecuzione del bambino

violenza sui bambini

Tra i temi dei quali amo scrivere e occuparmi, una menzione particolare andrebbe fatta per i bambini e gli adolescenti. Il lavoro in loro compagnia è fonte di continue scoperte ed è spesso grazie all’incontro con le loro esigenze che le mie opinioni si affinano e migliorano.

Non sempre è stato così e, soprattutto all’inizio, mi sono trovato imprigionato all’interno di un’ideologia ‘adultocentrica’ che mi ha messo in difficoltà rispetto al confronto con i bambini e con i ragazzi. Rimuovendo tutto ciò che siamo stati e tutto ciò che abbiamo subito da bambini, una volta cresciuti costruiamo un modo di pensare che colloca l’adulto in una posizione privilegiata: questo ostacola la comunicazione e l’ascolto e fa si che idee quali superiorità, durezza, insensibilità, violenza, maltrattamento e costrizione si frappongano all’ascolto aperto e autentico della loro verità.

In questo senso, mi ha impressionato il libro dal quale ho tratto il brano che vi riporto. Scritto da Alice Miller, psicologa e psicoterapeuta svizzera, la quale si occupò, in quasi tutte le sue opere, della relazione tra i maltrattamenti subiti da bambini e i successivi maltrattamenti inflitti, una volta che questi bambini sono diventati adulti, alla generazione successiva. Nei suoi scritti la Miller arrivò a criticare pesantemente la psicoanalisi freudiana che, secondo l’autrice, costituisce un’ulteriore rimozione rispetto alle violenze subite dai bimbi in nome di alti principi come l’educazione. Il brano, riportato integramente, è tratto dall’opera La persecuzione del bambino (trovate tutti i riferimenti bibliografici alla fine del post) e costituisce una sorta di manifesto del processo che, partendo dall’infanzia, fa di ognuno di noi le vittime delle coercizioni subite da bambini che si perpetuano una volta che quel bambino sia diventato, a sua volta, adulto. Solo partendo da questa consapevolezza è possibile avvicinare, guardando con occhi diversi, il mondo dell’infanzia di oggi. Personalmente, soprattutto nel mio lavoro, reputo questa attenzione e questa consapevolezza la rappresentazione di ciò che un terapeuta attento dovrebbe avere in mente nel momento in cui ha la fortuna di lavorare con un bambino o con un ragazzo:

1) Ogni bambino viene al mondo per crescere, svilupparsi, vivere, amare ed esprimere i propri bisogni e sentimenti, allo scopo di meglio tutelare la propria persona.

2) Per potersi sviluppare armoniosamente, il bambino ha bisogno di ricevere attenzione e protezione da parte di adulti che lo prendano sul serio, gli vogliano bene e lo aiutino onestamente a orientarsi nella vita.

3) Nel caso in cui questi bisogni vitali del bambino vengano frustrati, egli viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti, picchiato, punito, maltrattato, manipolato, trascurato, ingannato, senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone di tali violenze. In tale modo l’integrità del bambino viene lesa in maniera irreparabile.

4) La normale reazione a tali lesioni dell’integrità sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che è stato fatto.

5) I sentimenti di ira, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi dallo sfondo che li aveva motivati – continuano tuttavia a esprimersi in atti distruttivi rivolte contro gli altri (criminalità e stermini) o contro se stessi (tossicomania, alcolismo, prostituzione, disturbi psichici, suicidio).

6) Vittime di tali atti vendicativi sono assai spesso i propri figli, che hanno la funzione di capri espiatori e la cui persecuzione è ancora sempre pienamente legittimata nella nostra società, anzi gode persino di alta considerazione, non appena si autodefinisca ‘educazione’. Il tragico è che si picchiano i propri figli per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori.

7) Perché un bambino maltrattato non divenga un delinquente o un malato mentale, è necessario che egli, perlomeno una volta nella vita, incontri una persona la quale sappia per certo che ‘deviante’ non è il bambino picchiato e smarrito, bensì l’ambiente che lo circonda. La consapevolezza o l’ignoranza della società aiutano, in tal senso, a salvare una vita o contribuiscono a distruggerla. Di qui la grande opportunità che viene offerta a parenti, avvocati, giudici, medici e assistenti sociali di stare, senza mezzi termini, dalla parte del bambino e di dargli la loro fiducia.

8) Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime. Nel suo accecamento, essa si appoggiava a teorie che, corrispondendo ancora interamente al modello educativo dei nostri nonni, vedevano nel bambino una creatura astuta, un essere dominato da impulsi malvagi, che racconta storie non vere e critica i poveri genitori innocenti, oppure li desidera sessualmente. In realtà, invece, non v’è bambino che non sia pronto ad addossarsi lui stesso la colpa della crudeltà dei genitori, al fine di scaricare da loro, che egli continua pur sempre ad amare, ogni responsabilità.

9) Solo da alcuni anni, grazie all’impiego di nuovi metodi terapeutici, si può dimostrare che le esperienze traumatiche rimosse nell’infanzia vengono immagazzinate nella memoria corporea e che esse, rimaste a livello inconscio, continuano a esercitare la loro influenza sulla vita dell’individuo ormai adulto. I rilevamenti elettronici compiuti sul feto hanno inoltre rivelato una realtà che finora non era stata percepita dalla maggior parte degli adulti: e cioè che sin dai primi attimi di vita il bambino è in grado di recepire e di apprendere atteggiamenti sia di tenerezza che di crudeltà.

10) Grazie a queste nuove conoscenze, ogni comportamento assurdo rivela la sua logica sino a quel momento nascosta, non appena l’esperienza traumatica subita nell’infanzia non debbano più rimanere nell’ombra.

11) L’aver acquisito sensibilità per le crudeltà commesse verso i bambini, che sinora venivano generalmente negate, e per le loro conseguenze arresterà il riprodursi della violenza di generazione in generazione.

12) Individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità, e a cui è stato consentito di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da parte dei loro genitori, da giovani e anche in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a se stessi né addirittura di uccidere. Useranno il proprio potere per difendersi, e non per aggredire gli altri. Non potranno fare a meno di rispettare e proteggere più deboli, ossia anche i propri figli, dal momento che essi stessi, un tempo, hanno compiuto tale esperienza, e dal momento che fin dall’inizio in loro è stato memorizzato proprio questo sapere (e non la crudeltà). Questi individui non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi nel passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non consisterà più nel difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.[1]

 

 Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Miller, A., La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pag. XII e seg.

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Educhiamoci ad educare

educazioneCi siamo occupati altre volte di cosa voglia dire educare: educare, secondo la definizione comune, è dato da quella serie di attività che servono e sono finalizzate a favorire lo sviluppo di una persona. Questa definizione è molto generica, dal momento che mette l’accento sulle attività consapevoli che vengono svolte per educare un individuo, ma non tiene conto della molteplicità di attività che sono educative senza che l’educatore ne sia consapevole. Il modo in cui mi comporto è educativo, perché funge da esempio, da paradigma al quale l’altro può rifarsi prendendolo a modello, ed è un modello educativo espresso spesso senza che, appunto, se ne sia consapevoli.

Nell’immagine comune del termine poi, è sempre l’adulto che educa il minore. Quasi mai viene preso in considerazione come un minore possa educare un adulto e anzi sembra una sorta di controsenso considerare che un minore possa farlo. Diversi altri aspetti dovrebbero essere presi in considerazione in una riflessione su cosa significhi educare: uno dei più rilevanti riguarda il fatto che nella relazione educativa è implicita una condizione di disparità tra chi educa (e sa) e chi deve essere educato (e non sa). L’educatore, soprattutto se il suo ruolo è riconosciuto e accettato a livello sociale, ha più potere di chi viene educato, e spesso si serve di questo potere nell’atto stesso di educare. Interessanti, a mio avviso, i passaggi che vi riporto:

Prima riflessione: chi educa rischia perché nella relazione educativa mette a confronto due soggetti, che non hanno una posizione paritaria: ce n’è uno più forte ed uno più debole e c’è sempre il rischio che il soggetto che ha più esperienza, più competenza, più capacità di parola sia tentato di usare questo potere non per far crescere il soggetto più inesperto e più facile, ma per approfittarne. È un rischio che si ritrova nella relazione educativa, nella relazione parentale, nella stessa relazione terapeutica: in queste situazioni si struttura un piano inclinato, dove il rischio è la distorsione strumentale della relazione a fini di potere da parte del soggetto più forte. Chi educa rischia, perché c’è sempre la tentazione da parte del genitore, dell’educatore, il terapeuta stesso di utilizzare la relazione interpersonale Per sostenere le proprie difese e imporre in qualche modo i propri bisogni.

Credo sia necessario prestare particolare attenzione a questo potere ed esserne consapevoli dal momento che, se non riconosciuto, può portare, nella relazione educativa, verso l’imposizione piuttosto che verso la proposizione di un modello. Anche nella relazione terapeutica questo rischio è particolarmente forte e rischia di far deragliare la relazione stessa nel momento in cui il terapeuta invece di sollecitare l’autonomia e le risorse del paziente, si sostituisce a lui con suggerimenti e consigli, perché ‘sa che cosa sia giusto fare’.

Seconda riflessione: chi educa rischia e chi non rischia non educa. Il rischio inevitabile, necessario che non si può eludere nella relazione educativa è quello di avvicinarsi alle emozioni. Non educa chi non vuole rischiare di mettere in discussione la propria immagine narcisistica di soggetto razionale, sempre è comunque capace di controllare le emozioni e le situazioni. Non educa che non scende dal piedistallo della propria competenza educativa auto rassicurante, raggiunta presunta mente una volta per tutte. Non educa chi evita di avvicinarsi al mondo fluido, sofferto, conflittuale delle emozioni. Non educa chi non è disponibile a sviluppare l’intelligenza emotiva, l’intelligenza del cuore.[1]

Questo secondo punto è facilmente fraintendibile. Se è vero che chi educa rischia e chi non rischia non educa, nel senso che chi educa deve mettere in gioco se stesso, è altrettanto vero che spesso chi educa cerca di non rischiare per niente perché si difende, dall’alto della sua posizione privilegiata di potere, dal mettersi in gioco, dal condividere, dal rendere la relazione più paritaria e non basata sostanzialmente sul gioco di potere nascosto per cui tu fai ciò che dico io perché io so che cosa sia giusto per te. Se questo non avviene è lecito ricorrere a qualunque strumento per ottenere i risultati voluti. L’incognita è che ciò sfoci nell’autoritarismo, rischio al quale ci si può opporre coltivando l’autorevolezza. Diverso è infatti essere autoritari, fare leva sulla forza o sul proprio potere per imporre la propria volontà, tutt’altra cosa è essere autorevoli, avere cioè un’autorità educativa riconosciuta per le proprie capacità e non per la propria forza. Nel primo caso è necessario fare qualcosa (farsi obbedire, sgridare, punire…) nel secondo, ben più difficile, è necessario essere (essere coerenti, credibili, contenitivi…).

La differenza come sempre la costruiamo noi. Sono sempre più convinto che educare sia fornire un esempio, coerente e centrato a partire da quello che siamo. Questo non vuol dire non dover porre delle regole o non farle rispettare. Significa non ritenersi  dei dispensatori di regole ma cercare di partecipare attivamente alla costruzione della relazione con l’altro.

E, soprattutto, iniziare a non ritenere che il processo educativo sia a senso unico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2012, pag. 74.

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