Subentrano, nel giro di pochi giorni, alcune cose che iniziano a non piacergli: non dorme bene, ha un sonno agitato e non riposante, sebbene non ricordi nessun sogno in particolare. Inizia ad insinuarsi in ogni cosa che preveda un minimo di pianificazione un sottile senso di ansia che pervade tutta la sua giornate anche nelle cose più piccole. Inizia ad avere paura ogni volta che sale in macchina, anche se i tratti di strada da fare sono brevi e non troppo trafficati. Inizia a manifestare veri e propri scoppi di ira che lui stesso giudica del tutto inadeguati a quello che li ha provocati. In uno di questi episodi, mi racconta, la causa dell’ira è legato al fatto di non trovare la sua penna preferita. Mi racconta che si sentiva assolutamente ‘fuori di testa’, sapeva benissimo che non poteva essere un motivo valido per attaccare briga con la sua fidanzata. Pur tuttavia, non era riuscito a bloccarsi in nessun modo. Sempre più spaventato da quello che gli stava succedendo, aveva deciso di forzare i tempi della guarigione rientrando a lavoro. Marco fa essenzialmente un lavoro di ufficio che gli permetteva di rientrare anche se aveva ancora il gesso. Anche a lavoro stavano succedendo cose che non lo facevano stare tranquillo e che aumentavano in lui la percezione che nulla sarebbe tornato come prima. Aveva l’impressione che gli altri lo stessero scaricando e che non godesse più della considerazione che aveva prima dell’incidente. Insomma, tutto quello che gli stava succedendo era dovuto a quel maledetto incidente. Se ci pensava razionalmente, però, si rendeva conto di quanto sembrasse sproporzionata la reazione rispetto a quello che era successo. Quando ci conoscemmo, Marco aveva deciso che non voleva più andare avanti così. Voleva cercare di far qualcosa che gli facesse capire cosa gli stava succedendo. Lavorammo, inizialmente, su quello che gli procurava più ansia. Dapprima il suo racconto si concentrò su quello che lo infastidiva maggiormente (principalmente i disturbi del ciclo sonno-veglia e l’ansia). Man mano che il lavoro procedeva sembravamo focalizzarci sempre più su una paura che sembrava sovrastare le altre. La paura che potesse succedere nuovamente qualcosa di così grave. Ma grave da che punto di vista? Marco stesso diceva che, in fin dei conti, sarebbe potuto andare molto peggio. E allora cosa era successo di cosìgrave? Continuammo a lavorarci su fino a che non si palesò ad entrambi il fatto che la cosa più grave che fosse successa riguardava il fatto che Marco avesse fatto i conti, per la prima volta nella sua vita, con l’idea che potesse morire. Per la prima volta in vita sua, aveva sentito che aveva rischiato la vita. “Se fosse passata una macchina dietro di me mi avrebbe potuto mettere sotto” ripeteva. Questa idea non lo aveva mai sfiorato prima. Tendiamo a pensare sempre che la morte riguarderà altri, non noi. Il fatto che fosse giovane, in buona salute, non gli ha mai fatto prendere in considerazione il fatto che la morte potesse riguardare anche lui. Che fosse un destino condiviso. No. Gli altri muoiono. Io no. È l’idea stessa di mortalità che fa entrare in crisi tutti i nostri valori, tutti i nostri metri, tutte le nostre idee. Tutto viene ribaltato, tutto messo in discussione. Questo può alla lunga provocare quell’ansia, quella paura di cui Marco si lamentava. Che fare? Come si fa i conti con l’idea della nostra morte? Forse uno dei primi passi può essere quella di metterlo nel novero delle cose di cui possiamo parlarci. Se lasciassimo quest’area inesplorata è come se avessimo una zona grigia che non vogliamo prendere in considerazione per paura di quello che potrebbe succedere.
Com’è andata a finire? Non è andata a finire perché il lavoro è ancora in corso. Stiamo lavorando su quest’idea, sulla necessaria ristrutturazione che questo ha comportato nella vita di Marco. Paradossalmente solo ricomprendendo la morte all’interno della nostra vita possiamo provare a sconfiggere quel senso di instabilità che stava mandando Marco nel panico. Mi piace pensare ad una frase che descrive perfettamente quanto descritto. Contenuta nello splendido libro Danzando con la famiglia, del terapeuta Carl Whitaker, dice: l‘idea che solo affrontando la nostra morte siamo liberi di vivere veramente è spaventosamente esatta. [1]
Credo riassuma perfettamente ciò che intendevo comunicarvi!
A presto…
[1] Whitaker, C. (1988), Danzando con la famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 65
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Credo che Mattafaluga affronti la questione da un punto di vista leggermente diverso. Io parlavo dell’idea della propria morte non della morte in generale. O della morte di persone che ci stanno care. Nel primo caso non c’è nessuna possibilità di abituarci o di poter dire Stop. Nel secondo caso c’è, ovviamente, tutto un vissuto da elaborare, emozioni da maneggiare, perdite da assimilare.
P.s.: Perchè scusate? ben vengano i punti di vista diversi!
Non è necessario pensarci perchè arriva un momento in cui la morte si presenta da sè senza preavviso.Poi il tempo passa e ci abituiamo a ciò che è accaduto, quasi come ad un mal di testa cronico.Poi ad un certo punto succede qualcosa e tutto quello che abbiamo vissuto torna alla memoria e noi vorremo opporci e dire Stop!questo l’ho già vissuto!non ho voglio di passare di nuovo attraverso tutto questo!lasciatemi in pace…ma sai che non puoi opporti perche davvero sei impotente di fronte a certi fatti della vita.Puoi fare solo una cosa:estraniarti.Non ne parli, non sai cosa sia successo, ci pensi il meno possibile.Scusate forse sono un pò O.T.ma è quello che mi è venuto in mente leggendo l’articolo.
La morte ci coglie sempre impreparati. La nostra vita frenetica non ci permette di riflettere su quell’inevitabile momento e conduciamo la nostra intera esistenza a ritmi esagerati, convinti come siamo di potercela sempre fare e di cavarcela in ogni circostanza Qualcosa poi però ci presenta il conto e ci sbatte in faccia le nostre paure. Tutto cambia. La sicurezza, l’arroganza, la spavalderia di tutta la nostra quotidianità lascia il posto al PANICO. D’improvviso scopriamo che siamo vulnerabili e non temiamo ciò che può capitare in futuro ma quello che sarebbe potuto succedere. Il film della nostra vita scorre lentamente davanti ai nostri occhi e ogni fotogramma è al cardiopalma La vita si svolge allora al rallentatore e mille pensieri affollano le notti che ormai sono agitate e faticose. Ma come sempre il tempo sarà la migliore medicina e insieme agli amici e al terapista potrà aiutarci a metabolizzare e, perché no, a restituirci i nostri sogni sereni. E dio sa quanto bisogno ne abbiamo. MA IO NO, NON VOGLIO PENSARE NÉ ABITUARMI ALLA MORTE. Voglio vivere ancora spensieratamente…sino alla ineluttabile fine dei mie giorni. Un abbraccio
eh già.. verissimo!!
se si analizza il percorso storico dell’uomo appare chiaro come in quest’epoca di benessere economico (malgrado oggi si parli dell’opposto) il nostro rapporto personale con la morte si sia fatto sempre più lontano.. oggi, salvo eccezioni, non si muore più di malattie generiche, la sicurezza sul lavoro, nei trasporti etc ha fatto passi da gigante, e per tanti altri motivi ancora possiamo dire che, in generale, dal dopoguerra in poi ci siamo quasi DISABITUATI alla morte.. oggi, per gran parte di noi, nel quotidiano la morte è un’esperienza molto più televisiva che reale.. per i nostri bisnonni non era così.. e tutto ciò che non si conosce, o a cui non si è abituati ad assistere da vicino, può affascinare e/o disorientare. E dunque anche spaventare. Riguardo l’idea della morte, chi impara ad accettarne L’IDEA appunto e a conviverci serenamente in qualche modo la esorcizza, chi la subisce e basta cerca in ogni modo di cancellarne il pensiero stesso. Certo, detta così pare semplice, vero? 😉