Avrete, forse, sentito la storia della grazia concessa dal Presidente Giorgio Napolitano il 15 Ottobre scorso a Calogero Crapanzano, il padre che quattro anni fa, uccise il figlio Angelo, 27 anni, dopo l’ennesima crisi violenta del ragazzo. Angelo era autistico e, a quanto ne sappiamo, era stato colpito da meningite quando era piccolissimo. Il tutto ha avuto come teatro il quartiere di Falsomiele a Palermo. Falsomiele. Un nome che mi ha colpito. I latini dicevano nomen omen. Nel nome, un destino. Non c’è nessun miele in questa storia, nessuna dolcezza. La grazia concessa permette ad un padre di essere a posto nei confronti della legge. Ma, temo, dovrà per sempre fare i conti con la mancanza di suo figlio. E’ un nome che descrive appieno l’ambivalenza di questa storia. Il padre di Angelo accudiva il figlio da solo dal momento che anche la moglie dell’uomo soffriva di forti esaurimenti nervosi. La situazione era insomma abbastanza pesante e Calogero, all’ennesimo scoppio d’ira del figlio, ha reagito in modo definitivo. Il giudice che si trovò a giudicarlo per primo, Lorenzo Matassa, difese l’imputato asserendo che l’uomo, e la sua famiglia, fossero stati lasciati soli sia di fronte alla malattia del figlio, sia di fronte alla difesa della salute, bene la cui difesa è prevista dalla nostra Costituzione. Per queste motivazioni, Matassa fu duramente criticato è accusato di “troppa partecipazione, di troppo afflato, di eccessiva comprensione umana…“( fonte Corriere della Sera) A parte che ci sarebbere da discutere su cosa sia la eccessiva comprensione umana, la vicenda mi ha fatto riflettere, dal momento che si colloca nel confine tra cosa è lecito fare e cosa no. Può un uomo per quanto esasperato da una situazione terribilmente complicata, porre fine alla vita di un’altra persona? E’ tollerabile che le attenuanti possano trovarsi nella salute mentale? Perché sembra che questa famiglia fosse lasciata sola nell’affrontare questa situazione? Nessuno si era mai accorto di come ci fosse la possibilità di arrivare ad un punto di non ritorno?
No, non ho delle risposte. Conosco troppo poco di questa storia per potermi permettere di darvene. Spero che, conoscendomi, sappiate che preferisco un sicuro dubbio ad una confusa certezza.
Penso sempre, però, come, in vicende come questa, l’unica mia vera certezza sia muoversi con rispetto. Rispetto delle persone coinvolte. Della storia. Di una morte. Di una storia carica di sofferenza. Una storia, forse, condizionata dalla solitudine di due persone che si sono trovate impreparate ad affrontare quello che il figlio rappresentava per loro. Una storia che, con le sue ombre, le sue ambiguità, le sue incertezze, forse ha qualcosa da insegnare anche a tutti noi.
A presto…
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Se la condanna deve essere una punizione, quale punizione più grande per un genitore di avere sulla coscienza la morte del proprio figlio. Dov’è la pericolosità sociale di quest’uomo?
“Sicuro dubbio” o “confusa certezza”? Questo è il dilemma. Una certezza senz’altro c’è: non dobbiamo/possiamo esprimere un giudizio su una situazione che non conosciamo nel dettaglio…Il compito di giudicare è dei giudici e noi possiamo solo provare a capire. Non sappiamo se quest’uomo abbia chiesto aiuto, magari ha gridato la sua disperazione a persone che non hanno saputo ascoltare…magari il suo è stato un silenzio disperato…Niente giustifica il fatto di dare la morte ad una persona, niente, nemmeno il fatto che sia un criminale di guerra (come Gheddafi), figuriamoci un padre che uccide un figlio. Ma allo stesso tempo non posso non pensare che non è certo stato un atto predeterminato, ma l’esito di una sconfinata disperazione senza alternative…Non vuole essere un’attenuante, ma non credo che per quel padre la grazia sia stata un sollievo…forse lo è stata da un punto di vista pratico, ma non sappiamo quale può essere il peso di vivere con un carico simile…Dalle mie parti si dice: “non nias mai ego de uss’abba non bivo” (non dire mai io di quell’acqua non bevo)che vuol dire che non si può mai saper come ci si comporterebbe trovandosi in una situazione simile. Quest’uomo viveva senz’altro una condizione di malessere, che non aveva un’etichetta diagnostica (nè autismo, nè depressione), questo può essere l’elemento che ci rende così difficile capire? Se ci avessero detto che era depresso l’avremmo forse visto con altri occhi?
penso che la situazione per il padre del ragazzo fosse abbastanza pesante ma perchè non chiedere aiuto??? non penso che senza quel figlio che creava problemi ora il padre si senta tranquillo e sereno…forse sarebbe davvero bastato rivolgersi a qualcuno. Non giustifico assolutamente il gesto compiuto nè la grazia concessa. Tutte le madri che negli ultimi anni hanno ucciso in maniera violenta dei piccoli bambini perchè affette da depressione post partum vanno giustificate? oppure siccome sono loro le malate devono essere condannate mentre nel caso del signore lui doveva convivere con i malati quindi… poveretto??? Non posso esprimere sentenze ma sicuramente sono in disaccordo per come la vicenda è stata trattata!