Il post di oggi riguarda una vicenda della quale ben poco sapevo fino a non molto tempo fa ma che ha forti risvolti con un dibattito in corso attualmente. Pur essendo sardo, non avevo mai sentito parlare della figura de s’accabadora. Per chi non lo sapesse il termine fa riferimento alla persona de s’accabadora, termine che potremmo tradurre con ‘colei che da la fine’, una sorta di incaricata dell’eutanasia delle persone moribonde nei piccoli paesini della Sardegna. Il termine ebbe un risalto nazionale grazie al libro della scrittrice sarda Michela Murgia che, nel 2009, pubblicò un libro dal titolo Accabbadora e che vi consiglio di leggere se voleste saper qualcosa di più sul tema. Ma torniamo a noi. Perché mi sto occupando di questo tema? Il pretesto de s’accabadora è utilizzato per parlare più specificamente dell’eutanasia. Il termine eutanasia composto dal suffisso eu-buona e dal sostantivo tanatos-morte, vuol dire appunto buona morte. Il tema è dibattuto ancora oggi e lo è stato molto in occasioni particolari come la morte di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby. In realtà, il tema dell’accompagnamento delle persone sofferenti alla morte è stato, e la figura dell’accabadora sembra dimostrarlo, sempre presente nella società. Forse era necessaria nelle società pre-mediche, società dove, cioè, la medicina non aveva ancora questa aura salvifica, una figura che fungesse da ‘intermediario’ tra le sofferenze della persona malata, la famiglia e la morte stessa. La funzione di questo tipo di figura era, essenzialmente, quella di dare una degna fine alla vita di un individuo non più in grado di viverla, alleviando non solo le sue sofferenze, anche solo quella di non poter più considerare quella che stava vivendo come Vita, ma anche quella del gruppo familiare e sociale più esteso dato che si doveva comunque fare fronte all’accudimento di una persona non più autosufficiente e per il quale, magari, non c’erano strumenti che consentissero di consentirgli di vivere in maniera decente. Curiosamente, anche dal punto di vista religioso s’accabadora godeva di un certo status, dal momento che, non considerata ‘assassina’, aveva una valenza sociale riconosciuta. Questa premessa dava luogo ad una certa considerazione: prima dell’avvento della medicina di massa, esisteva un forte legame tra la vita e la morte dove la seconda era considerata come necessaria conseguenza della prima.
Ho l’impressione che noi abbiamo perso tutto quest’insieme di simbolismi e di concezioni sulla morte. Schiavi ormai dell’idea di una medicina onnipotente, prendiamo in considerazione con sempre maggiore difficoltà che ci siano condizioni nelle quali la morte è preferibile ad una non-vita. Convinti fermamente di poter decidere in tutto e per tutto cosa ci possiamo (o no) permettere, siamo accecati da questa apparente onnipotenza. Questa onnipotenza viene meno nel momento in cui potremmo decidere della nostra fine. In questo la società sembra essere molto categorica e si rifugia dietro dogmi religiosi: non si può avere una ‘dolce morte’, partendo dal rispetto dei tempi della morte, perché la vita non è nelle nostre disponibilità e, privandocene, non rispetteremmo il volere di dio. In realtà, a ben pensare, se dovesse essere rispettato il volere di dio probabilmente bisognerebbe spegnere le apparecchiature che, artificialmente, tengono in vita le persone grazie al mantenimento, sempre artificiale, di tutte le funzioni vitali più importanti.
Chi non rispetta allora il volere di dio? E ancora più paradossale sembra essere il fatto che siamo privati della possibilità di decidere sulla nostra morte anche se la nostra palese volontà è quella di far terminare la vita al di là di qualsiasi accanimento terapeutico. E tutto ciò avviene in una società che apparentemente spinge a pretendere indipendenza e poi la nega sulle scelte di vita più intime e private. Solo a me pare un enorme contraddizione?
Perché è andato perso il valore sociale della possibilità di porre fine alla nostra vita? Sembra come se, una volta che venisse tenuto in vita a qualsiasi costo, la persona stesse ‘vivendo’. Forse dovremmo necessariamente partire da questa accezione meccanica della vita (la mia vita è respirare o io sono qualcosa di più del mio solo battito cardiaco?) per cercare di riconsiderare il senso intero della nostra esistenza.
Non vorrei che, ottenebrati dalla possibilità di vivere ‘per sempre’, non finissimo davvero per considerare vita il solo respirare.
A presto…
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Riflessione che era nelle mie intenzioni suscitare! Grazie per il suo commento Maria Nicoletta…
Tema controverso, di non facile trattazione. Ho gradito molto l’articolo e tutti i contenuti proposti per invitare a una riflessione, …riflessione davvero inevitabile.
Per chi volesse conoscere qualcosa di più sulla figura di “S’accabbadora” consiglio i libri dell’antropologa sarda (mia compaesana) Dolores Turchi che l’ha studiata a lungo.
Bellissimo questo articolo che tocca un tema difficile complesso e delicato…qui ci troviamo di fronte ad una scelta che ci erge a giudici in qualche modo forse…Ho molte difficoltà a capire cos’è giusto a riguardo devo dire, perchè se da un lato è vero che ci sono situazioni dolorosissime che mettono l’uomo in condizioni pietose in cui ci si chiede che senso ha vivere una non vita, dall’altra, è pur vero che decidere per gli altri cosa è vita è ugualmente ingiusto. Forse dovremmo scegliere personalmente tutto questo, ma ci sono situazioni che spesso non lo consentono se non a priori e farlo a priori ha una sua validità? Mah! Io da tanti anni lavoro con sofferenti e ho dei pazienti nella mia struttura che vivono uno stato peggiore forse del coma vegetativo,anziani che da anni sono imprigionati fisicamente da un Parkinson o altre patologie invalidanti e devastanti che li rende per anni oggetti in balìa di una siringa per alimentarsi, un pannolone per il ricambio intimo e qualche commento di parenti amici e noi assistenti che non sembra essere recepito…mi chiedo spesso ma che senso ha tutto questo? Bè,devo dire che molto spesso ci ritroviamo nella vita a chiederci il senso di altri mali che ci annientano…Non c’è una misura del dolore, della sofferenza e non sempre possiamo essere in grado di definire quale sia il modo migliore di soffrire. Il rischio gravissimo è quello di iniziare a formare una cultura che dà per scontato la soppressione della vita a condizioni predeterminate che in realtà non saranno mai di massa, perchè ogni uomo ha la sua storia, la sua idea di vita, il suo sentire, il proprio essere, non possiamo mai generalizzare certe cose così personali.Giusta l’espressione citata nell’articolo:la mia vita è respirare o io sono qualcosa di più del mio battito cardiaco?…e mi chiedo chi può definire con certezza che quel qualcosa in più è solo l’autonomia fisica e mentale? Come comportarsi innanzi agli spastici gravi, agli autistici,ai sordo muti ciechi e tanti altri invalidi gravi che non vivono secondo la nostra idea di vita? Azzardo un pensiero molto personale, tanto fantasioso che vuole trovare possibili spiragli ritrovando un senso forse a qualcosa che non lo troverà mai: ” …e se imparassimo ad accogliere il non senso invece di guardarlo con pietà? e se cercassimo di ascoltare e sviluppare altre forme possibili di vita che anche se sconosciuta può divenire un nuovo linguaggio con persone che vivono questa dimensione totalmente diversa? e se utilizzassimo ogni mezzo moderno per applicare forme di comunicazioni o di interazione con differenti formalità mirate ad un approccio con lo sconosciuto che non sia l’esclusione dello stesso per nostra deficienza? Certo abbiamo assistito a grandi progressi in proposito, la lega fili d’oro molti anni fa sarebbe apparsa un utopia, eppure attraverso studi specifici, grande impegno e volontà è riuscita a trovare il modo di interagire con bambini la cui invalidità sembrava irrecuperabile e predispoosta ad una non vita, tanto per fare un esempio. E’ giusto decidere della propria morte in totale autonomia, ma non credo sia giusto creare legislazioni a riguardo che generalizzerebbero qualcosa di così personale che non può essere argomento legale. Forse dovremmo accettare i nostri limiti ed imparare a sviluppare linguaggi diversi, a noi sconosciuti, che sembrano esistere, perchè il cuore non è un organo preposto al suo battere…emozioni e sentimenti sono la sua vera vita…e quella credo profondamente sia sempre presente anche quando i nostri occhi o le apparecchiature mediche non la rivelano…Grazie Fabrizio, è importante trattare questo argomento che ci riguarda tutti e che ci invita a trovare una strada migliore che dia un senso alla vita non come evento meccanico coi suoi criteri prefissi, ma qualcosa di più profondo, più vero, più consono al nostro essere umani.