Il post di oggi tratta di un film intitolato La guerra di Mario (2005) del regista Antonio Capuano. Il film narra la storia del piccolo Mario, nove anni, bambino che proviene da uno dei quartieri più problematici di Napoli, Ponticelli, che viene portato via alla famiglia nel quale è nato e affidato dai servizi sociali e dal Tribunale dei Minori ad un’altra famiglia. La mamma naturale, Nunzia, ha altri sei figli, convive con un uomo del quale si intuisce che uno dei linguaggi preferiti sia quello violento. Il film è giocato sui contrasti a cominciare dal contesto di origine e quello affidatario del bambino. Tanto la famiglia di origine di Mario sembra popolare e povera di strumenti, quanto quella affidataria appare borghese e ricca di vari stimoli. Il film si concentra essenzialmente sull’inserimento del ragazzo nel nuovo contesto, un inserimento che, data la distanza con il luogo d’origine, non sembra per niente facile. I genitori affidatari sono Giulia e Sandro. Se Giulia sembra completamente assorbita dal ruolo di madre e cerca di andare incontro a Mario in tutti i modi, Sandro invece ha difficoltà a relazionarsi con lui, non riesce a parlarci e anche Mario non sembra desideroso di farlo. L’impressione è che la coppia cerchi in lui un collante per il loro rapporto e che Mario, invece che assolvere a questo compito, si infili nelle crepe della loro storia e che, frapponendosi tra loro, crei una distanza non più colmabile. I ruoli sembrano giocare una funzione fondamentale per tutti loro: Giulia vuole essere la madre perfetta, la madre che con le sue mille attenzioni, può far recuperare tutte le infinite privazioni che il bambino sembra avere subito nella sua giovane vita. Sandro, convinto che Mario sia cresciuto in un contesto che lo ha segnato, prova ad avvicinarsi a lui ma con la convinzione che il piccolo ormai non possa più cambiare. Mario rimane li, solo, come spesso si vede nel film, con il suo unico amico Mimmo un cane che trova per strada. Il destino del piccolo sembra, perciò, passargli sopra attraverso le molte figure che si avvicendano nella sua vita: i genitori naturali, quelli affidatari, la scuola, i servizi sociali e il tribunale. Come spesso avviene in queste storie, soprattutto nel caso di giovani problematici, le origini sembrano essere una colpa difficilmente espiabile. Mario, nel film, vive nel frattempo tutta una sua guerra interna, non dichiarata e non cessata, nella quale non si capisce se racconti cose che ha vissuto o che ha solo sentito raccontare. Questo non fa differenza perché quella guerra e quei ricordi sono dolorosamente reali per lui. Dolorosamente reali per una persona che dice di aver dovuto bere latte e polvere da sparo per essere svezzata.
All’interno di questa guerra, interna ed esterna a Mario, forse solo Giulia si accorge di quanto il bambino non abbia bisogno di essere educato ma di essere accolto. Accolto in una vita nuova, in una nuova famiglia, in un nuovo mondo che sembra volerlo inquadrare senza neanche guardarlo.
La cosa che mi colpisce, e che viene evidenziata tutte le volte che Mario attraversa la strada, è come non riesca a distinguere il rosso dal verde nei semafori. Forse è daltonico, ma nessuno sembra accorgersi di questo. Ed è facile vedere l’alta simbologia di questo aspetto, in una storia in cui nessuno sembra essere in grado di vedere il colore delle persone che gli stanno intorno.
Il film apre una finestra su un mondo doloroso e incerto, in cui non sembrano esistere premesse o conclusioni facili, in cui non sembrano possibili scorciatoie o rapide soluzioni. Un mondo dove sembra vero quello che dice Giulia: l’unica libertà è l’intelligenza solo che è difficile stabilirne i limiti.
Un film molto bello che consiglio a chiunque voglia dare un’occhiata a cosa può voler significare accogliere un bimbo nella propria vita.
Tutti i diritti riservati
C’è un gran parlare e indaffararsi intorno ai bambini in affidamento quando, secondo me,la cosa migliore sarebbe quella di chetarsi un pò evitando i gesti plateali e le parole in più e regalando a questi bambini un pò di anonimato e la possibilità di reinventarsi di fronte al mondo.
La guerra di Mario…come quella di tanti bambini…che tristezza vivere ancora in un mondo dove i bambini devono subire violenze di ogni tipo, che tristezza vedere come gli adulti facciamo fatica ad evitarlo…un film denuncia per far riflettere gli adulti. Basterebbe essere meno presi di sè a volte per non produrre dolore…accogliere chiunque nella propria vita non deve essere dettato dal proprio senso di responsabilità che resta comunque e sempre più o meno discutibile,bisognerebbe accogliere in sincerità di cuore, essere amorevolmente disposti a darsi per quel che si è…bella la riflessione sulla differenzazione dei colori come risposta al disagio del vissuto, si perde sempre il senso del colore quando non si ha amore…l’intelligenza non può avere limiti se è quella del cuore…grazie!