Il post di oggi vuole essere spunto per una riflessione più approfondita su quelle che sono le regole, sia implicite che esplicite, che sovrintendono al lavoro terapeutico stesso. Il tema apparirà un poco più complicato del solito: spero di riuscire a renderlo chiaro. Uno dei termini in gioco è la parola sintassi. Sintassi è una parola che indica una branca della linguistica che si occupa di come le parole si combinino tra di loro nel formare la frase. Stiamo dunque parlando delle regole tramite le quali si relazionano tra parole. Trasponendo il termine all’interno della terapia possiamo cercare di indicare come la sintassi stia ad indicare le regole che determina l’incontro terapeutico, il modo con cui gli attori coinvolti nella terapia (il paziente (o i pazienti!) e il terapeuta stesso) si relazionino tra di loro e diano vita a qualcosa di nuovo legato alla loro stessa relazione. A questo ‘costrutto relazionale’ viene dato il nome di sintassi terapeutica: quello che il paziente ed il terapeuta costruiscono assieme e che influisce sulle regole di funzionamento della relazione stessa.
Vi riporto il brano di un testo che spiega in altre parole quello di cui stiamo parlando:
Intendiamo per sintassi dell’intervento l’insieme delle regole (esplicite, implicite) che presiedono alla organizzazione presunta (dal terapeuta), in una struttura unitaria, per il materiale proposto da coloro che parlano. Si tratta delle regole utilizzate per definire la situazione vissuta, è il tentativo di dare un ordine complessivo all’immagine nuova che emergere anche il terapeuta attraverso il materiale che gli viene proposto.
Fermiamoci ad analizzare meglio quello che viene fin qui detto. Uno degli aspetti interessanti da sottolineare riguarda il fatto che queste regole possono essere esplicitate oppure implicite alla relazione stessa. Le regole implicite possono essere sia di natura più ampia (sociale, morale, ecc.) oppure esplicitate all’atto della conoscenza tra medico e paziente, la stipula del cosiddetto contratto terapeutico. Per esempio è una regola esplicita il fatto che una seduta duri mediamente un’ora, o che costi un certo tanto e così via. All’interno di questa relazione regolata (la seduta) si cerca di arrivare a dare un ‘ordine’, un’organizzazione al materiale che il paziente stesso porta. Il paziente può portare questo materiale con un suo ordine e, all’interno dell’intervento terapeutico, questo ordine può essere confermato, cambiato, ricompreso, approfondito ecc. In una parola possiamo dire che questa visione venga risignificata, gli venga data, cioè un nuovo significato. Questo movimento avviene qualunque sia l’orientamento teorico del terapeuta stesso. Al massimo l’orientamento avrà un’influenza su quelli che sono i modi (la grammatica) con cui ci si muove in terapia. Il mio orientamento, per esempio, è di tipo sistemico-relazionale: prendo in considerazione il peso che la famiglia ha all’interno delle vicende che mi porta l’individuo, mentre uno psicoanalista freudiano potrebbe non prendere troppo in considerazione l’aspetto familiare. Questa differenza di approccio non cambia, però il valore più ampio dell’esperienza terapeutica che riguarda la risignificazione del vissuto del paziente.
Tutte le costruzioni terapeutiche partono dalla identificazione di un fatto rilevante dal punto di vista interpersonale collegato al manifestarsi del sintomo, presupponendo:
a) Una condizione di equilibrio che precede l’inizio dello star male e che è stata messa in crisi dall’evento; indicando b) La funzione positiva svolta dal sintomo sull’equilibrio personale di colui che lo manifesta e sull’equilibrio del gruppo di cui fa parte; suggerendo c) Una forma speciale di complicità da parte del terapeuta che lo riconosce. [1]
Tutte le costruzioni terapeutiche partono dalla identificazione da parte del paziente di un punto nodale che ha attivato la messa in crisi del suo stesso sistema di vita e che sia collegato all’insorgenza di un sintomo, la ragione per cui il paziente arriva a chiedere una terapia. Può essere l’ansia, la gestione della rabbia, la paura della morte, qualcosa con la quale la persona ha difficoltà a relazionarsi. Cosa sottostà alla comparsa dello stesso sintomo? Le premesse di questo sono che la vita del paziente fosse in equilibrio prima, cioè che ‘funzionasse’, equilibrio che è stata messo in crisi dall’insorgenza del sintomo stesso. Attraverso l’aiuto del terapeuta è possibile comprendere come il sintomo sia segno di reazione alle mutate condizioni dell’equilibrio, e come sia possibile dare un significato diverso al sintomo stesso. Capita talvolta che il sintomo venga ridefinito in maniera positiva rispetto a quella che era la percezione della persona stessa. L’ansia per esempio può essere un segnale di discrepanza tra ciò che dobbiamo fare e ciò che vorremmo fare. Non è negativo sentire ansia nel momento in cui può essere un campanello d’allarme per la piega che sta prendendo la nostra vita. Va sottolineato come il sintomo possa avere una funzione positiva, sebbene spesso difficile da cogliere, anche per le persone che più sono vicine al paziente stesso. In questo movimento si instaura quella che l’autore chiama complicità e che io definisco alleanza terapeutica tra il paziente e il terapeuta stesso che può così entrare in contatto non solo con il sintomo ma con quello che il sintomo stesso rappresenta per la persona e per il sistema relazionale all’interno del quale si muove.
Quanto delineato costituisce la premessa del lavoro terapeutico ed è alla base per la costruzione della relazione coi pazienti.
Che ne pensate?
A presto…
[1] Cancrini, L. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pag. 293
Gentile Dottor Boninu.
La ringrazio tantissimo per la chiarezza dell’esposizione dell’argomento, non facile. Nel suo scritto, fra i tanti spunti di riflessione, uno in particolare merita, a mio parere, un’attenzione speciale: il prendersi cura di spiegare alla sua “utenza”, virtuale e non, l’importanza, la consistenza e le modalità di approcciarsi ai pazienti partendo dal principio di relazione che deve esistere in ogni rapporto. E’ bellissimo, in ogni campo ove sia richiesta una qualsiasi forma di relazione, verificare che fra chi vi opera in prima linea c’è chi sa partire dalle fondamenta essenziali e poi dai pilastri portanti della relazione umana, semplicemente umana, in cui lo specialista vede e desidera che il suo paziente scorga, prima di tutto, due esseri umani che interagiscono per una finalità in cui se uno chiede aiuto, l’altro ha le competenze ma anche il cuore per farlo. Emerge dal suo scritto la sua scelta di parlare al paziente togliendo di mezzo la scrivania per fugare un rapporto di tipo classico e, forse, perfino gerarchico, abolendo prima di tutto una barriera spaziale. Lo psichiatra Vittorino Andreoli lo fa spiegandolo anche con il fascino della creatività della scrittura, raggiungendo così lo spazio dell’anima dei suoi pazienti e di tutti i suoi lettori scavando i significati oltre le sue stesse parole, lungo un filo conduttore non solo empatico ma affettivo vero e proprio.
Proprio perché le parole, per fortuna, non sono portatrici del solo significato intrinseco, linguistico e sintattico, il vostro lavoro è particolarmente delicato e richiede un’intuizione profonda e non comunemente sensibile per comprendere cosa un paziente voglia dire, o cosa possa voler dire (o non voler dire), oltre alla materialità fonetica e udibile delle parole.
Tuttavia, neppure i più bravi specialisti terapeuti, come lei Dott. Boninu, potete fare da soli, senza l’indispensabile collaborazione dei pazienti. Una collaborazione che secondo me non può prescindere dal riconoscere con umiltà la propria umana fragilità. Tutti noi abbiamo la nostra zona d’ombra, ma se questa viene murata in una zona inaccessibile perfino allo psicoterapeuta a cui chiediamo aiuto, allora crediamo erroneamente di recarci da un mago che possa fare da procuratore della nostra esistenza. Pur con la barca malconcia, con le toppe e perfino coi buchi e senza remi, è con la nostra barca che dobbiamo presentarci a voi, non aspettarci che ci diate la barca e dei remi miracolosi o, ancora peggio, che remiate voi per noi. Non ci si può presentare da un terapeuta mentendo perfino sulle motivazioni per cui si chiede aiuto, e nascondere il lato oscuro di sé, i maltrattamenti in famiglia, la propria aggressività, e attribuire il proprio stato destabilizzato (e purtroppo destabilizzante per tutta la famiglia) alle cattive relazioni con il proprio datore di lavoro o superiore.
Colgo l’occasione per esortarla a proseguire su questa sua ineccepibile condotta e direzione, ricordando sempre che tutte le migliori intenzioni, umanissime e di grande competenza, quando non raggiungono il goal prefissato e desiderato può essere dovuto a quel muro invalicabile di una zona d’ombra volutamente (e forse anche pericolosamente) occultata. Può perfino accadere che in realtà l’aiuto più urgente sia al di fuori della persona che vi sta di fronte, il quale in realtà non si attribuirebbe mai l’aggettivo di “paziente”. E che quindi il vero, urgente e immediato aiuto lo necessitino le vittime familiari di una personalità narcisistica ed egocentrica, perfino aggressiva e con multiformi personalità confondenti anche per voi.
Mi scuso, come in precedenza, per il mio inevitabile “fuori tema”, ringraziandola per il tempo dedicato allo spazio più importante e dignitoso della persona.
Cordialità,
Michela
..la prima cosa che ho pensato, iniziando a leggere il testo che parlava di sintassi in relazione ad un percorso terapeutico, è stata che forse il terapeuta in qualche modo tentasse di risalire alla causa che ha portato alla “rottura” dell’equilibrio, partendo proprio dal modo in cui il paziente usasse le parole, dalla loro sequenza, invece poi non ho colto quest’elemento, o forse mi sono un pò perso…
Salve Giovanni, non ha trovato chiaro l’argomento del post? Se dovessi riassumerlo direi che tratta delle regole per la costruzione del rapporto terapeutico, quindi non era focalizzato all’utilizzo delle parole, anche se capisco l’associazione che può aver fatto…