La tanto agognata sanità mentale

folliaNella quotidianità del mio lavoro, capita spesso di parlare con persone che non si definiscono sane, che hanno paura di sentirsi e di essere considerate strane, non comuni, non a posto. ‘Sono sicuro che sono la persona più strana che ha sentito’, ‘Non saranno in tanti messi male come me’, ‘I miei racconti ti hanno spaventato?’ sono solo alcune delle frasi che sento ripetere. Tutto questo ha avuto come conseguenza l’interrogarmi sul perché del bisogno di questa categorizzazione. Cosa significa essere sani? Chi di noi può definirsi tale?  

Prima di affrontare questo tema, ho bisogno di una piccola premessa. Da una parte temiamo profondamente che i nostri comportamenti o le nostre emozioni non siano sane, che siano strane. Di contro, invece, ci troviamo in un contesto sociale che spinge, almeno apparentemente, a considerarci e a percepirci come unici e diversi l’uno dall’altro. Ci troviamo in una sorta di dilemma: da un lato la società incoraggia la nostra originalità, dall’altro noi stessi temiamo questa originalità e cerchiamo di non apparire come troppo diversi dagli altri, di non scostarci troppo dalla norma.

Andando a scavare più a fondo, si scopre che la presunta spinta sociale ad essere diversi, unici, in realtà non è così ben accetta e che, anzi, la società spinga al conformismo e alla stereotipia, ad una omologazione, soprattutto emotiva, sempre più ampia. L’unicità che viene accettata sembra, infatti, poter riguardare solo aspetti marginali della nostra vita, legati più che altro al consumismo. Mi viene in mente un fenomeno tipicamente contemporaneo. Le nostre auto, oggi considerate un’emanazione della persona che le possiede, possono essere personalizzate all’eccesso, di modo che nessun altro abbia una vettura uguale alla nostra. Sarà UNICA. In questo caso l’anticonvenzionalità viene incentivata e sviluppata. Ma di cosa stiamo parlando? Di prodotti. Di cose. Paradossalmente non possiamo godere dello status del quale possono godere le nostre auto.

Stavamo, però, parlando di sanità: perché ora stiamo parlando di unicità? Credo che le due cose siano strettamente legate e che la nostra paura di non essere sani, o che qualcuno possa giudicarci tali, derivi dalla pressione sociale ad essere omologati e ad essere simili. Il punto importante è che finiamo per credere a questa omologazione e che, di conseguenza, facciamo di tutto per non essere diversi, diventando in questo modo i nostri primi censori, giudici inflessibili che non accettano le nostre stesse unicità.

La paura di essere giudicati e di essere esclusi, parte dallo stesso giudizio e dalla stessa esclusione che noi perpetriamo nei confronti di noi stessi. Se ognuno di noi dovesse realmente coltivarsi, a discapito di quello che può essere l’interesse dominante, verrebbe bollato come strano, diverso, difforme, ribadendo come la nostra unicità possa essere applicata solo ai dettagli della nostra vita, non alla sua interezza. E sappiamo come questo marchio di stranezza, diversità, difformità serva ad escludere l’altro. Ma è un marchio che noi stessi ci premuriamo di coltivare, perché primi a non accettare parti di noi che definiamo strane, o ‘non sane’. E questo processo di esclusione, partito da noi, sembra ormai più automatico del processo inverso, quello inclusivo. Siamo noi ad avere difficoltà ad integrare questa parti di noi stessi e, spaventati da quello che sentiamo o proviamo, ne cerchiamo la legittimazione all’esterno, come se il fatto che quelle emozioni le sentano anche gli altri ci rassereni e ci faccia sentire più ‘normali e sani’ di quello che saremmo disposti a concedere a noi stessi

Come possono conciliarsi allora desiderio di unicità e paura di essere diversi? Semplicemente non possono. Non lo fanno. Si vive con il disagio, con la paura di non sapere aderire ai dettami principali. ‘Non pensare a te pensa ad essere socialmente accettato’ sembra essere una di queste leggi non scritte. E nel non pensare a se stessi troviamo tutta la non accettazione della propria vita emotiva, il non occuparsi del proprio sentire. Da questa mancanza di attenzione per  stessi deriva, in seguito, la mancanza di attenzione per quelle che sono le emozioni dell’altro, in un circolo vizioso continuo che si perpetua. 

Questa non accettazione delle proprie emozioni genera, alla lunga, una grande sofferenza e un grande disagio, perché comunichiamo a noi stessi la nostra incapacità ad accogliere e a supportare quella che è la nostra unicità, e il disagio psichico è, in quest’ottica, la conseguenza di un non sentire emotivo molto costoso da raggiungere, frutto di uno scarto tra un sentire giudicato inammissibile e un “non ascoltarsi” socialmente accettato.

Ed è questa distanza, dagli altri ma soprattutto da noi stessi, che può portare a sviluppare un malessere vero e proprio che non ci fa stare bene né con noi stessi né con gli altri. Spezzare questo circolo è possibile e penso dipenda dalla capacità di recuperare il nostro senso di unicità, nel senso più pieno del termine. Non mi riferisco a scelte egoistiche che prescindano dagli interessi degli altri quanto alla riscoperta delle proprie peculiarità, delle proprie passioni, delle proprie ragioni. Ed è necessario, in questo lavoro, partire da se stessi, da ciò che più si sente autenticamente proprio, riportando l’attenzione su quegli aspetti di sé che spesso vengono sacrificati sull’altare dell’accettazione.

L’insensibilità emotiva verso se stessi diventa causa di malessere e di disagio profondo. Solo riprendendo il contatto con la nostra realtà intima, recuperando l’amore per quella nostra parte originale che spesso tendiamo non solo a non mostrare agli altri ma anche e soprattutto a noi stessi, riconoscendola e legittimandola come nostra, riusciremo a smettere di chiedere se siamo sani, non avendo paura di essere bollati dall’esterno come malati o ‘strani’.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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nunzia
nunzia
9 anni fa

Grazie per aver scritto questo articolo. Spesso mi sono sentita dire :tu sei pazza e l’ho imparato cosi bene che lo pensavo anche io di lui quando non ci capivamo.

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