Conosci te stesso (per conoscere gli altri!)

guardare se stessiC’è in realtà un solo modo per ‘capire’ il mondo complesso di impulsi e simboli; si deve guardare in se stessi. Solo quando sappiamo veramente identificare un certo impulso basilare in noi stessi siamo sicuri che esiste. Solo quel punto diventa reale; fino ad allora era soltanto un buon concetto o teoria, di ben poca utilità. Credo che la formula funzioni anche all’inverso: se non riusciamo a trovarlo in noi stessi, esso non esiste a fini pratici. Se non siamo mai stati in grado di identificare e affrontare i nostri impulsi omicidi, non saremo realmente capaci di credere che esistono, comunque non nelle persone ‘normali’. Quindi, per definizione, chiunque ammetta di avere impulsi del genere sarebbe anormale secondo le tue norme interiori nascoste.

Io credo nell’esatto opposto; credo che parte della condizione umana sia l’avere una ricca e spumeggiante vita interiore di impulsi. Tutti abbiamo pulsioni omicide, tutti lottiamo con impulsi suicidi, tutti abbiamo fantasie incestuose, tutti siamo terrificati dal concetto di morte. Non riuscire ad affrontare questi semplici fatti della vita significa tagliar fuori buona parte della nostra umanità.

La consapevolezza del nostro mondo di pulsioni è in effetti il requisito essenziale alla nostra capacità di vedere, e ancora di più di capire, il mondo simbolico degli altri. Nella misura in cui possiamo affrontare le molteplici manifestazioni simboliche dei nostri stessi impulsi saremo liberi di utilizzare questa capacità nei rapporti con gli altri. [1]

La citazione è di uno degli autori più interessanti che ho avuto modo di leggere in questi anni. Carl Whitaker, psicoterapeuta statunitense, pioniere della terapia familiare, sostiene quella che per me, dopo tanto lavoro personale, è diventata una realtà effettiva: solo partendo da noi stessi possiamo arrivare a comprendere gli altri. Il modo unico per arrivare alla realtà simbolica degli altri è quello di partire dalla propria. Solo quando posso fare i conti con la verità dei miei impulsi, solo quando riesco a comprendere e ad accogliere la verità della mia paura della morte, solo quando posso vedere ed accogliere quelle che sono le mie realtà personali più reconditi e spaventose, posso pensare di conoscere, comprendere e accogliere queste verità nell’altro.

Non riconoscerlo in sè stessi significa tagliare fuori la possibilità di contatto e di comprensione dell’altro. Un lavoro di integrazione non parte dall’accoglienza dell’altro, parte dall’accoglienza di noi stessi, delle nostre verità, anche quelle più scabrose e che ci spaventano di più. Il punto di vista sostenuto da Whitaker è sostanzialmente focalizzato sulla realtà della terapia, ma credo sia estendibile alla considerazione di qualsiasi rapporto umano. Se manca il contatto e l’accoglienza di queste emozioni, di questi pensieri in noi, difficilmente potremmo contattare le stesse emozioni e gli stessi pensieri nell’altro.

Arriva da me Angela, una ragazza di 16 anni che ha una fortissima paura del rifiuto degli altri e di essere scartata nel rapporto con i suoi coetanei. Ragazza modello fino all’età di 12 anni inizia con l’adolescenza, come in tante altre storie, a fare cose apparentemente inconciliabili con il suo essere brava ragazza: utilizza droghe di vario tipo, frequenta compagnie poco raccomandabili e questo è il motivo della richiesta di terapia. Qual è il primo passo da compiere per comprendere le ragioni di Angela? Credo che il punto sia partire da se stessi, contattare la propria parte interna nella quale ha dominato la paura dell’esclusione, la paura di non essere accettato, la paura di discostarsi dalle attese degli adulti che mi hanno circondato quando ero adolescente. Non avendo questo passaggio, come avrei potuto capire comprendere ed accogliere quella che è la paura di Angela?

In caso contrario, il pericolo è precipitare nel giudizio aprioristico, arrivare cioè a giudicare quelle che sono le scelte e le difese (ma ovviamente giudicare anche le proprie difese e le proprie resistenze) che l’altro tenta di mettere in campo per affrontare la vita. Una maggiore conoscenza di sé stessi non può che aiutare una facilitazione di contatto con gli altri. 

Questo discorso è focalizzato sulle modalità di incontro in terapia, ma sono convinto possa essere applicato all’accoglienza di qualsiasi rapporto umano. Il giudizio sull’altro può essere sconfitto proprio con un maggiore contatto di se stessi, con una maggiore vicinanza e ascolto di noi stessi e delle nostre emozioni più profonde e spaventose. Questo è il contatto che permette il contatto con le stesse emozioni dell’altro, assottigliando così il peso che il giudizio può avere sull’ascolto e l’accoglienza.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Danzando con la famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 63

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nunzia rita
nunzia rita
9 anni fa

Mi congratulo con lei dottore, perchè mi piacciono tanto gli argomenti che sceglie e come li tratta.
Guardare in sè fa paura se partiamo con aspettative giudicanti, però un mediatore, un amico può farci da specchio e aiutarci.
Anche le sue parole sui nostri impulsi mi hanno fatto bene.Grazie!!

Federico
Federico
9 anni fa

Questa è una grande idea nota già ai Greci, messa fortemente in risalto dalla maieutica socratica, e nota ancor prima ai taoisti e buddhisti e ancor prima agli induisti.

Ma ancora stiamo a parlare di questo argomento, e mi metto in mezzo anche io poiché è una discussione che fa continuamente parte della mia vita.
Perché?

Il problema della negazione del sè e l’idea ontologizzata dell’io Freudiano, che aleggia sullo sfondo che ci viene tramandato, non fanno altro che portare le persone ad una deresponsabilizzazione delle proprie azioni fino a negarne completamente la volontarietà: un po’ come se ci fossimo noi e gli altri “noi” che ogni tanto muovono delle leve e ci fanno fare delle “cose”.

Io non vorrei essere frainteso o fare un processo a questo discorso, che ritengo perfettamente normale, ma ci terrei a precisarne l’illusorietà.
Con le Critiche già Kant espose in maniera molto efficace il nostro agire, e mi riferisco ai tre postulati, dimostrando che non siamo affatto etici, ma morali.
L’aspetto della morte mi ha colpito molto: nel mondo occidentale la morte è un grossa, grossissima grana… il nostro sfondo culturale l’ha mutata in un severissimo giudice, le cui pene, o premi, sono eterni.
Ma cosa succede se da fin da bambino mi viene insegnato che la morte non esiste ed è solo un nuovo inizio?
Mi sembra che qui la credenza della vita dopo la morte salti, almeno per il mondo occidentale.
Mi sembra che noi abbiamo deciso che dobbiamo aver paura della morte. [sia chiaro, io non parlo delle mere azioni dovute all’autoconservazione]

Ora, la morale non è altro che il prodotto di un modo di fare, una serie di norme che un gruppo sociale assume come vere e giuste per raggiungere essenzialmente un utile.
Infatti uccidiamo quando è utile, tratteniamo l’impulso quando la pena è più grande del premio.

Ora non posso che parlare per esperienza personale: in anni di terapia ho visto essenzialmente il modo in cui vari approcci mirano alla stessa cosa, ossia il cambio delle credenze cruciali.
Cambiando quelle le persone miracolosamente guariscono, o almeno si reggono in piedi, perché tornano ad essere allineate moralmente senza sentirsi più escluse.

Direi quindi, in maniera più specifica, che non conosco gli altri conoscendo me stesso, ma conoscendo le regole e gli stimoli a cui tutti rispondiamo alla stessa maniera.

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