Educhiamoci ad educare

educazioneCi siamo occupati altre volte di cosa voglia dire educare: educare, secondo la definizione comune, è dato da quella serie di attività che servono e sono finalizzate a favorire lo sviluppo di una persona. Questa definizione è molto generica, dal momento che mette l’accento sulle attività consapevoli che vengono svolte per educare un individuo, ma non tiene conto della molteplicità di attività che sono educative senza che l’educatore ne sia consapevole. Il modo in cui mi comporto è educativo, perché funge da esempio, da paradigma al quale l’altro può rifarsi prendendolo a modello, ed è un modello educativo espresso spesso senza che, appunto, se ne sia consapevoli.

Nell’immagine comune del termine poi, è sempre l’adulto che educa il minore. Quasi mai viene preso in considerazione come un minore possa educare un adulto e anzi sembra una sorta di controsenso considerare che un minore possa farlo. Diversi altri aspetti dovrebbero essere presi in considerazione in una riflessione su cosa significhi educare: uno dei più rilevanti riguarda il fatto che nella relazione educativa è implicita una condizione di disparità tra chi educa (e sa) e chi deve essere educato (e non sa). L’educatore, soprattutto se il suo ruolo è riconosciuto e accettato a livello sociale, ha più potere di chi viene educato, e spesso si serve di questo potere nell’atto stesso di educare. Interessanti, a mio avviso, i passaggi che vi riporto:

Prima riflessione: chi educa rischia perché nella relazione educativa mette a confronto due soggetti, che non hanno una posizione paritaria: ce n’è uno più forte ed uno più debole e c’è sempre il rischio che il soggetto che ha più esperienza, più competenza, più capacità di parola sia tentato di usare questo potere non per far crescere il soggetto più inesperto e più facile, ma per approfittarne. È un rischio che si ritrova nella relazione educativa, nella relazione parentale, nella stessa relazione terapeutica: in queste situazioni si struttura un piano inclinato, dove il rischio è la distorsione strumentale della relazione a fini di potere da parte del soggetto più forte. Chi educa rischia, perché c’è sempre la tentazione da parte del genitore, dell’educatore, il terapeuta stesso di utilizzare la relazione interpersonale Per sostenere le proprie difese e imporre in qualche modo i propri bisogni.

Credo sia necessario prestare particolare attenzione a questo potere ed esserne consapevoli dal momento che, se non riconosciuto, può portare, nella relazione educativa, verso l’imposizione piuttosto che verso la proposizione di un modello. Anche nella relazione terapeutica questo rischio è particolarmente forte e rischia di far deragliare la relazione stessa nel momento in cui il terapeuta invece di sollecitare l’autonomia e le risorse del paziente, si sostituisce a lui con suggerimenti e consigli, perché ‘sa che cosa sia giusto fare’.

Seconda riflessione: chi educa rischia e chi non rischia non educa. Il rischio inevitabile, necessario che non si può eludere nella relazione educativa è quello di avvicinarsi alle emozioni. Non educa chi non vuole rischiare di mettere in discussione la propria immagine narcisistica di soggetto razionale, sempre è comunque capace di controllare le emozioni e le situazioni. Non educa che non scende dal piedistallo della propria competenza educativa auto rassicurante, raggiunta presunta mente una volta per tutte. Non educa chi evita di avvicinarsi al mondo fluido, sofferto, conflittuale delle emozioni. Non educa chi non è disponibile a sviluppare l’intelligenza emotiva, l’intelligenza del cuore.[1]

Questo secondo punto è facilmente fraintendibile. Se è vero che chi educa rischia e chi non rischia non educa, nel senso che chi educa deve mettere in gioco se stesso, è altrettanto vero che spesso chi educa cerca di non rischiare per niente perché si difende, dall’alto della sua posizione privilegiata di potere, dal mettersi in gioco, dal condividere, dal rendere la relazione più paritaria e non basata sostanzialmente sul gioco di potere nascosto per cui tu fai ciò che dico io perché io so che cosa sia giusto per te. Se questo non avviene è lecito ricorrere a qualunque strumento per ottenere i risultati voluti. L’incognita è che ciò sfoci nell’autoritarismo, rischio al quale ci si può opporre coltivando l’autorevolezza. Diverso è infatti essere autoritari, fare leva sulla forza o sul proprio potere per imporre la propria volontà, tutt’altra cosa è essere autorevoli, avere cioè un’autorità educativa riconosciuta per le proprie capacità e non per la propria forza. Nel primo caso è necessario fare qualcosa (farsi obbedire, sgridare, punire…) nel secondo, ben più difficile, è necessario essere (essere coerenti, credibili, contenitivi…).

La differenza come sempre la costruiamo noi. Sono sempre più convinto che educare sia fornire un esempio, coerente e centrato a partire da quello che siamo. Questo non vuol dire non dover porre delle regole o non farle rispettare. Significa non ritenersi  dei dispensatori di regole ma cercare di partecipare attivamente alla costruzione della relazione con l’altro.

E, soprattutto, iniziare a non ritenere che il processo educativo sia a senso unico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2012, pag. 74.

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Michela
Michela
8 anni fa

Carissimo Dottor Boninu.

Anche stavolta, è con vivo interesse che leggo il suo articolo.
Il titolo del libro cui fa riferimento “La mente abbraccia il cuore” è molto esplicativo. Fa bene leggere di “intelligenza emotiva” e di una direzione educativa non univoca, ma comunque non pensabile al di fuori di un proprio personale percorso comunicativo tra cuore e mente. Credo che, purtroppo, ciò che è tanto appetibile oggi, in ogni settore, anche nelle più importanti agenzie educative, sia quello di far sentire la propria autorità, la propria potenza e forza sull’altro. Un potere che inaridisce l’aspetto umano della relazione, che per poter essere costruttiva e propriamente umana dovrebbe essere concepita come uno scambio (anche e soprattutto emozionale) che gratifichi entrambi. Senza dimenticarsi delle proprie fragilità, possibilità di errore e capacità di mettersi in discussione. Ma ciò richiede un dislocarsi da una visione della relazione in senso verticale, piramidale, e porsi umanamente allo stesso piano dell’altro. Riscontro spesso un complesso di superiorità imbarazzante e precludente una vera relazione, un dialogo. Ci sono espressioni ancora circolanti tra le aule delle scuole, come “Guarda che io sto su un gradino più in alto di te…” , oppure “Guarda che il coltello dalla parte del manico ce l’ho io…”. Ma questo senso di potere sull’altro è purtroppo riscontrabile anche nella vita quotidiana di molte coppie, di colleghi di lavoro, e nei monologhi -più che dialoghi- offensivi, aggressivi e reciprocamente denigratori dei politici negli studi televisivi.
Ovviamente, sulla di questi modelli, si arriva ad esempi che sono tutt’altro che educativi: della violenza di genere, dell’abuso dei mezzi educativi, dell’idolatria del potere e del denaro, dell’indifferenza e del profondo senso di smarrimento dei più giovani in questa melma che si trovano spesso come ingestibile eredità degli adulti. Sulla base delle mie esperienze di vita sono certa che i testi, i libri dei grandi pedagogisti e specialisti in tema educativo siano interessanti e addirittura essenziali, ma se non c’è quella naturale affezione umana verso l’altro, quell’approccio sensibile al prossimo, nulla può la letteratura in merito se non a prova che, con tanto vento contrario, c’è sempre e comunque impellente bisogno che se ne parli. Resta, fortunatamente, il valore rafforzativo della divulgazione di una teoria umanizzante, conglobante il meglio dell’essere verso sé stessi e gli altri: quel valore aggiunto che è il motore della vera evoluzione umana verso la pace, la tolleranza, il rispetto, il valore aggiunto all’essere semplicemente vivente che si lascia vivere e respirare.
Ci vuole il coraggio dell’apertura mentale e del cuore a 360 gradi, per asserire, come fa lei, che perfino voi psicoterapeuti potete incorrere in tali errori di approccio autoritario verso il paziente, quando la terapia si conclude con la pretesa di suggerire cosa fare e come essere. Il paziente può perfino uscire umiliato e impotente dalla vostra stanza, senza la speranza di poter contare sull’aiuto cercato. Si redigono relazioni peritali anche in ambito giudiziario che sono rovinose, pretendendo di stilare dei pronostici basati su teorie standard e test psicologici che nella generalizzazione delle loro applicazioni sono disumanizzanti e spersonalizzanti. Relazioni che vivisezionano le persone, spesso madri vittime di violenza domestica, etichettandole con vere e proprie sentenze di condanna come donne e madri. Disumane diffamazioni spesso originate dal coraggio della denuncia e dal rifiuto di queste donne ad assumere l’aspetto della tabula rasa su cui aspirano lavorare certi consulenti peritali. Ma qui ci sarebbe un altro mare da esplorare…
La distanza infrapposta tra certi “esperti” della mente e del paziente, non permette la riuscita dell’unica modalità attraverso cui il fine possa raggiungersi: quella della comunicazione, della fiducia e dell’autostima: l’unica possibilità, a sua volta, che gli occhi si incontrino per visitare insieme le sofferenze dell’anima di chi cerca aiuto. I migliori di voi sono coloro che visitando questi universi interiori si sentono dei privilegiati e umilmente riconoscono che per migliorare la propria professionalità, formazione e umanità, basta immaginarsi seduti dalla parte opposta. Credo che qui si trovi la schiave di apertura della propria interiorità come dono di sè e di lettura dell’altra che sta di fronte. La maggior parte delle volte ci si perde fra strade diverse, facendole di corsa per scorgere gli altri solo da lontano, talmente lontano da smarrire il senso di un cammino e un destino che è di tutti, pur in momenti e circostanze diverse della vita. Ma da lontano nessuno può educare o aiutare. Chi ha più marce a disposizione non è necessariamente più bravo, ancor più se parliamo di bambini e ragazzi. E’ spesso solo più fortunato degli altri.
Grazie per il particolare, interessante spunto di riflessione. Grazie anche per il dono di sé e del suo tempo, Dott. Boninu, a noi lettori. Un cordiale saluto e un gioioso Natale a tutti.

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