Trattiamo oggi quello che, credo, sia uno degli aspetti potenzialmente più ambivalenti della mia professione: l’idealizzazione. Credo sia un processo automatico e in parte inconscio per cui l’altro si trova ad idealizzare la figura della persona che ha davanti. La premessa necessaria senza la quale, forse, questo discorso risulterebbe incomprensibile, riguarda il fatto che il rapporto tra psicologo e paziente è, per sua stessa natura, decisamente sbilanciato. Solo una delle due persone mette a nudo la sua vita, le sue convinzioni, le sue credenze, le sue forze e le sue debolezze (o così dovrebbe fare!), mentre l’altro in teoria no, rimane più sullo sfondo. Nel momento in cui la conoscenza reale è così carente, la fantasia può sopperire a queste mancanze e, unito a questa sorta di mistero che circonda la figura dello psicologo, può portare, appunto, ad una sua idealizzazione.
Una persona con la quale ho lavorato mi chiese una volta che le sarebbe piaciuto sapere che tipo di colazione preferissi. Abbiamo lavorato naturalmente, sul senso di questo tipo di richiesta, ma mi rimase sempre il dubbio se fosse auspicabile o meno mantenere questa sorta di muro tra la figura dello psicologo in seduta e la persona che si ‘nasconde’ dietro quel ruolo. Ancora adesso non riesco a trovare una risposta univoca, dal momento che sia il ‘mistero’ che il ‘disvelamento’ mi sembrano ugualmente foriere di pregi e difetti. Mantenere in secondo piano la vita dello psicologo ha la funzione essenziale di permettere all’altro di portare la sua esperienza, di metterla in gioco in prima persona. Se questa venisse in qualche modo sovrastata dalla vita dell’altro, che gioca, oltrettutto, in una posizione di ‘forza’, forse non permetterebbe all’altro di appropriarsi della sua ora, del suo spazio, della sua storia. Viceversa, se penso ad un disvelamento, seppur minimo, delle esperienze personali dello psicologo, credo potrebbero avere un’utilità in terapia dal momento che possono fungere come ‘catalizzatore’ per esperienze simili che può portare il paziente.
Insomma, quale sarà il metodo giusto? Come al solito non credo ci sia un metodo giusto. Un equilibrato dosaggio di entrambi gli aspetti credo sia il metodo da preferire. O per lo meno è il mio metodo. Quello che so è che prima pensavo che il terapeuta dovesse rimanere del tutto impassibile in terapia. Ora non ne sono più tanto sicuro!
Così, forse, non scoprirete cosa preferisco a colazione, ma spero di riuscire a mitigare l’idea che io sia distaccato di fronte alla vostra storia.
A presto…
Credo che si possa evitare di far sentire chiunque umiliato e rifiutato, considerandolo come un “essere” e non come un caso clinico e basta. La valutazione dei costi-benefici vale tanto per i farmaci quanto per la psicoterapia. Forse è necessario essere sicuri, convincenti e guardare il proprio interlocutore dritto negli occhi mentre gli si comunica qualcosa…..compresa la paziente di cui sopra.
in medio stat virtus.
Se lo psicologo conosce il paziente sa quanto può concedere e quando è davanti solo ad un’ingenua richiesta di intimità,insomma non dimentichiamo che lo psicologo per il paziente è speciale e che il paziente desidera essere un pò speciale per lui!Aprirsi un pò aiuta il paziente a rassicurarsi sulla normalità del suo funzionamento.
Sono curiosa di sapere come si potrebbe evitare il giochino seduttivo della paziente con personalità isterica…come lasciare frustrato il paziente senza farlo sentire umiliato e rifiutato?
Sorrido al discorso sull’idealizzazione, sorrido tra me e me:))
Celare o svelare? mha! per chi sta dalla tua parte è difficile e credo che ogni caso vada valutato singolarmente e nell’agire (tenendo conto che lo psicologo è anche un essere umano) fare la scelta che gioverebbe terapeuticamente al paziente. Credo che sia la personalità del paziente a dettare spesso il tipo di scelta su questo tipo di “manovra”. Io mi chiedo: che tipo di “disagio” ha questo paziente che vuole sapere di me?” Chi è che chiede? Il problema è poi quello di sapersi gestire o meno le conseguenze relazionali di un non “dire” o di uno “svelare”. Se a chiedere è (faccio un banale esempio usando una terminologia un pò da classificazione manualistica) un paziente donna con struttura di personalità isterica, allora penso sia meglio non cadere nel giochino seduttivo che potrebbe esserci dietro; se a chiederlo è un paziente non troppo compromesso e desideroso di capire come funziona il mondo della psicoterapia (che per molti sembra un mondo magioco quasi alieno rispetto alla relatà quotidiana comune), allora può darsi che sia più facile gestire la questione. Io penso sempre una cosa: quanto siamo coscienti, consapevoli dei meccanismi che mettiamo in atto nella relazione psicologo-paziente? La mia chiave che apre la porta dei dubbi è questa…la consapevolezza. E dopo che c’è la consapevolezza, se c’è, cosa facciamo? Basta essere consapevoli?
Il terapeuta è una persona come tutti noi. Esso ha il suo lavoro, ed una vita con gli stessi problemi quotidiani di tutti. Cosa spinge un paziente a chiedergli di raccontarsi? Forse un bisogno di certezze, sapere che anche il suo terapeuta ha come tutti dei bisogni, delle aspettative, perchè no anche delle incertezze. E’ questo che ci rende umani. Raccontare di sè ad un altro, seppure competente e specializzato, all’inizio ci spaventa. Ci mettiamo a nudo come non l’abbiamo fatto mai neanche con noi stessi. Lo psicologo non ti dice cos’è giusto o sbagliato, perchè non è nel giudicare che si aiuta una persona. Tantomeno può darti delle risposte su come agire o pensare, ciò che molti nei primi approcci con lui si aspettano. Lo psicologo ti dice quali strade hai sempre preso finora, e ti aiuta a scoprirne delle altre, che tu conosci ma per vari motivi non usi. Ti fà vedere attraverso il tuo ragionamento ciò che potresti fare o pensare, mutando ciò che finora ti ha creato tensione o sofferenza. Tutto questo avviene con diverse sedute, tra l’altro il terapeuta deve “leggere tra le righe” ciò che non dici verbalmente ma che urli con il linguaggio non verbale. E’ chiaro che si abbiano dei dubbi se il nostro terapeuta è valido o meno. Ci accorgiamo di ciò dalle domande che ci pone, da come insiste su determinati punti “critici”. Però tutto questo non ci soddisfa appieno e quindi ecco la necessità per il paziente di conoscere il proprio terapeuta. Ora che sia giusto o meno diventare “buoni conoscenti” (escludo l’amicizia, perchè essa implicherebbe uno stato emotivo imparziale e quindi dannoso)questo è da dosare per il minimo e stretto necessario. Solo allo scopo di rassicurare il paziente che anche il terapeuta vive come tutti, e come tutti affronta i suoi problemi giorno per giorno. In effetti spesso un psicologo per il proprio lavoro si reca da un collega per un controllo, una verifica del suo operato. si mette dall’altra parte per poter comprendersi meglio. La figura dello psicologo attualmente è poco considerata, perchè vi radicata l’idea che averne bisogno implica dover essere “matti” o avere problemi psichici da nascondere agli altri. Quando in altri paesi la figura dello psicologo eè considerata alla stessa stregua di andare dal dentista. Ecco quindi che riemergono queste paure ancestrali e immotivate. Non sarebbe male rivalutare la figura dello psicologo come aiuto e sostegno, in una società che è afflitta, per quanti mezzi di comunicazioni ci siano, di mancanza di relazionarsi con altri, e conoscenza di sè stessi.