… e ora parliamo di Kevin

... e ora parliamo di KevinIl film del quale voglio parlarvi oggi è un film molto duro sulla famiglia. Si intitola …e ora parliamo di Kevin (2011)è della regista Lynne Ramsay ed magistralmente interpretato da Tilda Swinton e da John C. Reilly nei panni dei genitori del Kevin del titolo, loro primogenito. Il film, come dicevo è un film sulla famiglia ma non per la tutta la famiglia. Racconta della discesa all’inferno dei protagonisti, del lento sfaldamento di una famiglia alle prese con un dramma che diventa, piano piano, più grande di lei. Il film è spiazzante e spiazzante lo è anche nella sequenza temporale dato che non è lineare nello svolgimento, procede per salti con continui rimandi al passato e altrettanti ritorni al presente. Ci viene, in questo modo, presentata la storia della famiglia fin dalla sua origine, la coppia genitoriale. Le scene iniziali del film sono ambientate nella famosa battaglia della Tomatina, la battaglia dei pomodori, che si svolge in estate nella cittadina di Bunol, in Spagna. La luce delle scene è così particolare da far risaltare il colore rosso dei pomodori e renderlo uguale al colore del sangue. Questa caratteristica mi ha colpito molto perché, fateci caso, un oggetto con lo stesso colore, o comunque lo stesso rosso, compare in quasi tutte le scene del film. E’ come se si volesse sottolineare, anche cromaticamente, come il sangue, inteso anche come legame di sangue, sia presente dall’inizio alla fine della storia rappresentata. 
Sostanzialmente il film ruota attorno al rapporto tra il primogenito e il resto della famiglia. Fin dalla nascita sembra essere la madre il membro più spiazzato dall’arrivo del bimbo. Questo si traduce in un rapporto problematico madre/figlio e in una ridefinizione dei ruoli all’interno della coppia dei genitori: da una parte la madre non riesce ad avere, se non con difficoltà, nessun contatto fisico col bimbo e sembra incapace di gestire il rapporto con lui mentre il padre sembra essere molto più vicino e attento a questa esigenza del piccolo. Osservando la madre, si ha l’impressione che abbia più paura che trasporto verso il piccolo. Questa mancanza di contatto e di relazione le fa, in breve perdere il controllo della situazione. Ogni cosa, anche la più piccola e la più quotidiana, è fonte di scontri  e di tensioni e questo, anziché rinsaldare la coppia genitoriale, la divide in ruoli di ‘buono’ e ‘cattivo’ che sembrano essere totalmente parziali. La mancanza di relazione, quindi, non coinvolge solo madre e figlio ma anche i genitori. E’ come se in tutti i membri della famiglia mancasse la capacità di comunicare apertamente, come se tutto dovesse essere sepolto sotto una coltre di finta indifferenza e finta mancanza di problematicità, aspetto che porta a sottovalutare e a non comprendere appieno la situazione nella sua complessità. Una scena emblematica è, per me, quella nella quale, all’ennesimo comportamento del figlio, la madre, innervosita, gli da uno strattone e gli provoca un livido. Il bimbo, al ritorno del padre, non dice nulla, inventa una bugia per spiegare il livido e rafforza una complicità con la madre basata sulla menzogna e non sulla possibilità di parlare.
Nel film viene descritta molto bene questa dimensione, questa incapacità comunicativa che, nello sforzo di cercare di far si che le cose sembrino il più normale possibile, allontana sempre di più tutti i componenti della famiglia. Il fatto di avere un bambino piccolo spinge il padre a proporre il trasferimento dalla città di New York alla campagna, contro il volere della moglie. Anche qua la domanda naturale che potrebbe sorgere è: è possibile che tra loro non abbiano parlato prima, per cercare di capire cosa sarebbe successo alla nascita di un figlio? Questo è il punto nodale, che sta a monte anche rispetto alla nascita di Kevin ed è la modalità di relazione della quale Kevin stesso è vittima. Ancora la nascita della secondogenita provoca una serie di episodi che non attivano una forte funzione genitoriale, ma che, al contrario, spaventano e sembrano rendere ancora più inadeguati i rapporti tra i genitori e i figli. Crescendo il figlio diventa sempre più apertamente problematico, ma questo non porta una generale ridefinizione della famiglia che appare ancora più incapace e ancora meno disposta ad accettare e riconoscere la gravità della situazione.Naturalmente, lo ribadisco, dal mio punto di vista, non c’è un membro malato e altri membri sani: è tutto il sistema familiare ad essere problematico, anche se poi, fisicamente, è solo uno di loro quello che appare ‘disturbato’, ed è il membro che agisce questo disagio che, però accomuna tutti loro. Il disturbo arriva ad un epilogo del quale non vi svelo nulla per non rovinare la trama.
Rimane, a mio avviso, pur essendo duro e disturbante, un film interessante che pone degli interrogativi: quanto siamo responsabili per le cose che avvengono in chi cresciamo? Quanto siamo disposti a non vedere pensando di proteggerci da una sofferenza che è solo rimandata? Nel film, per esempio, viene mostrata la crudeltà di Kevin nei confronti degli animali. Può essere considerato un segnale da prendere in considerazione nel valutare il disagio di un adolescente? Chi si accanisce contro animali può, in seguito, essere pericoloso anche per le persone che lo circondano? Naturalmente il film non fornisce risposte. Crea più dubbi, interrogativi che costringono necessariamente a riflettere sul nostro ruolo, sulle nostre relazioni, sulla nostra capacità di comunicare.
Domande che spesso nascono a posteriori ma che dovremmo imparare a farci prima. Se non avete visto il film, penso che questa frase risulti abbastanza incomprensibile. Spero anche di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a guardarlo.
Nel caso lo vedeste, fatemi sapere che ne pensate.
A presto…
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Le ‘leggi’ del sesso (e dell’amore!)

Le 'leggi' del sesso (e dell'amore!)Qualche giorno fa, tornando a casa in macchina, ascoltavo distrattamente la radio quando, nel tipico chiacchiericcio radiofonico, mi colpisce la notizia che in alcuni stati americani, moltissime pratiche sessuali, ritenute accettabili tra due adulti consenzienti, siano vietate o regolamentate per legge. I divieti hanno per lo più risvolti comici per la loro inapplicabilità sostanziale. Incuriosito, facendo qualche ricerca su internet, ho trovato una vera e propria genesi dell’assurdo riguardo ad alcune delle leggi che regolamenterebbero lo svolgimento di attività sessuali tra adulti. Per esempio, in Oregon, esattamente nella cittadina di Willowdalw, è contro la legge per un marito bestemmiare mentre fa sesso. A Sioux Falls, negli alberghi, ogni stanza deve avere letti gemelli. Ed i letti devono essere sempre separati per un minimo di due piedi quando una coppia affitta una stanza solo per una notte. Ed è illegale fare l’amore sul pavimento tra i letti. Nello Utah nessuna donna può fare sesso con un uomo mentre corre in ambulanza all’interno dei confini della cittadina di Tremont. Se sorpresa, la donna può essere incolpata di ‘infrazione sessuale’ e “il suo nome verrà pubblicato sul giornale locale”. L’uomo non è incolpato e il suo nome non è rivelato. A Washington, D.C la sola posizione sessuale accettabile è la “posizione del missionario”. Qualsiasi altra posizione sessuale è considerata illegale. (fonte www.nemesi.net) Ma si arriva a degli assurdi che sono involontariamente comici nel loro stesso rigore. Per esempio in West Virginia un uomo può fare sesso con un animale solo se questo supera i 18 kg, e non ricordo più in quale stato era permesso, ma solo per donne, possedere un numero massimo di sette vibratori, mentre in un altro stato ancora due amanti durante l’amplesso non potevano sussurrarsi nemmeno all’orecchio parole volgari.

Ora, a parte che vorrei sapere come materialmente possano essere fatte rispettare leggi così assurde, la cosa che mi colpisce è quanto il legislatore abbia avuto bisogno o necessità di regolamentare un chiamiamolo ‘settore’ assolutamente privato dove, stante la consensualità degli adulti che lo praticano, dovrebbe invece vigere la libertà assoluta, la possibilità che le persone possano liberamente esprimersi l’uno con l’altra. La sessualità, scelta esclusiva personale, e più in generale le scelte affettive, dovrebbero essere demandate esclusivamente al singolo. E invece, nel campo più generale dell’amore, ci troviamo di fronte ad estremi come quello dell’iperlegiferazione americana. Mi viene in mente la domanda e la risposta (scusate l’autocitazione!) che diedi nell’intervista fattami dalla collega Carla Sale Musio riguardo appunto la libertà nell’amore. Mi si chiedeva se credevo che l’amore potesse esser normale e la risposta fu: l’amore è la dimensione dell’uomo nel quale l’essere normale ha, forse, meno senso. Data la sua scelta esclusivamente personale, non ha senso, credo parlare di normalità o anormalità,  fatto salvo, ovviamente, il rispetto per l’altro. Invece dobbiamo scontrarci ogni giorno con ‘esperti’ che pretendono di tracciare una demarcazioni tra ciò che in amore è normale e ciò che invece non lo è. L’amore è uno dei contesti più anormali e potenzialmente rivoluzionari nella vita ed è per questo che, e non è un caso, la spinta normalizzatrice è stata più forte durante tutta la storia dell’uomo con giustificazioni religiose, dogmi sociali, riprovazione  e così via. E sono, questi, aspetti che hanno pesato e che tuttora gravano tanto nelle scelte di vita delle persone.

Credo fermamente in quello che risposi in quell’occasione. Gli esempi ai quali vi ho appena accennato mi sembrano si possano ricondurre a questo, nient’altro che una sciocca regolamentazione di quello che è uno degli aspetti più liberi della persona umana. L’intento è quello di  regolamentare e disciplinare un settore nel quale le regole valgono molto poco. Naturalmente, lo ribadisco, la libertà vale ed è massima solo nel rispetto delle persone coinvolte.

Rubo la battuta alla già citata dottoressa Carla Sale Musio: il cuore non è normale. Credo sia assolutamente vero. Su quanto cerchino di essere normalizzatrici le spinte del legislatore, invece, ci sarebbe ancora molto da discutere.

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A presto…

Fabrizio

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Nato in mesi invernali? Rischi la depressione…

Nato in mesi invernali Rischi la depressione...Il post di oggi è legato ad un articolo comparso qualche tempo fa sul Corriere della Sera. Riporta i risultati di uno studio pubblicato su Psychiatry Research dall’Università di Bologna, condotto su 870 ragazzi e 653 ragazze con età compresa fra 10 e 17 anni che porterebbe alla considerazione del fatto che ci sarebbe un maggior rischio di depressione legato alla fotoperiodicità luminosa particolarmente corta della stagione invernale a seconda dei mesi in cui si è venuti alla luce. Lo studio riporta i punteggi della scala GSS (acronimo di Gobal Seasonality Score, scala di stagionalità globale) che segna una correlazione tra i mesi di nascita e la propensione dell’individuo a cader nella depressione. Lo studio sarebbe particolarmente’sfavorevole’ per le ragazze che sembrerebbero più soggette a cadere in questo tipo di problematiche. Chi fosse interessato ai test che sono stati utilizzati all’interno dello studio può leggerne i nomi nell’articolo.

La cosa che colpisce leggendo, o almeno che ha colpito me, è la continua lotta che l’uomo cerca di fare per riuscire a trovare una correlazione tra fattori, esogeni ed endogeni, per cercare di spiegare un aspetto che forse caratterizza l’uomo dalla sua comparsa sul pianeta. D’altronde, se dovessimo dare per scontato, in accordo con la teoria evoluzionistica darwiniana, che noi si stia evolvendo, migliorando, allora dovremmo anche ipotizzare che la depressione abbia un significato in senso evolutivo se, con tutte le migliorie che hanno caratterizzato la nostra storia, questa è rimasta come una compagna fedele nel cammino dell’uomo.

Eppure continuiamo la ricerca di un perché universale, di un fattore generale che possa spiegare i ‘fattori di rischio’ che caratterizzano alcuni rispetto ad altri circa il rischio di essere colpiti da quella che viene considerata a tutti gli effetti una malattia ma che, a diversi livelli, caratterizza parte della vita di noi tutti. Detto da una persona nata in pieno inverno (26 Gennaio): credo sia una semplificazione eccessiva considerare la data di nascita come un fattore pro o contro la comparsa della depressione. Credo giochino un ruolo rilevante fattori che difficilmente possono essere misurati e valutati statisticamente come la propria storia personale, le proprie radici, le proprie relazioni e la propria sensibilità, fattori che, se considerati renderebbero lo studio impossibile da vagliare per la mole di variabili intervenienti che potrebbero influenzare i risultati. Colpisce come nello studio non venga preso minimamente in considerazione il peso che le persone hanno sulle vicende del ‘nascituro invernale’, come se un bambino nascesse da solo e fosse solo la fotoperiodicità ad influenzare la sua propensione alla depressione. Qualcuno ha valutato le conseguenze della fotoperiodicità sulle figure adulte significative per un bambino al momento della nascita? Insomma l’evidente semplificazione non può che far riflettere sull’utilizzabilità di questo tipo di scoperte che, seppur condotte con metodi scientifici, non si capisce che tipo di utilità abbiano nell’affrontare una realtà complessa come quella depressiva. 

Comunque, per chi fosse interessato, eccovi il link: http://www.corriere.it/salute/12_marzo_14/oroscopo-depressione-peccarisi_99191c06-6c54-11e1-bd93-2c78bee53b56.shtml 

L’articolo è firmato da Cesare Peccarisi.

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Fabrizio

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Omogenitorialità (3)

Omogenitorialità (3)Ancora una volta ci troviamo, perciò, a dover sfatare un mito che è basato più su antichi preconcetti, o su altre posizioni, che legato a fatti concreti. Gli studi dimostrano che non esiste differenza tra i bambini cresciuti in diversi tipi di famiglie. In questo senso anzi tali dati evidenziano inoltre come crescere con due genitori dello stesso sesso non sia un fattore di rischio di per sé ma addirittura possa rappresentare un punto di forza. [1] Il possibile punto di forza sarebbe, indubbiamente, l’elasticità mentale. Cresciuti in un contesto ‘nuovo’ o comunque spesso non considerato come tradizionale soprattutto in alcuni paesi del mondo, i bambini cresciuti all’interno di famiglie omogenitoriali si trovano, fin da piccolissimi, a dover fare i conti col ‘diverso’ e per questo si allenano ad elaborare strategie che li renderanno più facilmente adattabili nella loro vita adulta.

Naturalmente, c’è un altro lato della medaglia che deve necessariamente essere considerato. Le famiglie omogenitoriali si trovano spesso a dover vivere in un contesto che non solo non le accetta ma le ostracizza come qualcosa di diverso e di strano. Questo fa si che la famiglia si trovi a dover vivere in un contesto più povero socialmente e, se non ha provveduto a crearsi un contesto sociale di supporto, rende problematica o solitaria la vita di queste famiglie. Tutto questo alla lunga può avere ripercussioni sulla vita della famiglia stessa quando, dal momento che risulta difficile condividere le proprie tematiche familiari con altri, si possono innescare situazioni conflittuali tra i genitori che alla lunga possono sfociare in situazioni di disagio. La necessità di un supporto sociale più ampio è il motivo per cui spesso, dall’esterno, le comunità omosessuali sembrano dei mondi a parte, come se fossero separate da un contesto sociale più ampio. E’ chiaro, invece, che se il contesto sociale fosse accettante e non giudicante si aprirebbero più possibilità di relazione tra diversi tipi di famiglie cosa che non sembra accadere quando il contesto sociale più ampio è, come detto, non accettante o giudicante.

Insomma la differenza, alla lunga, è fatta da tutti noi. Nel momento in cui questa realtà sarà vista semplicemente con una variante possibile della vita familiare, e non come un contesto potenzialmente pericoloso per far crescere un bambino, cambierà la percezione stessa della realtà e non verrà più avvertita come una scelta destabilizzante per la società. Mi rendo conto come questo cambio di prospettiva non sia per niente immediato o facile perché comporta la ristrutturazione di ciò che fino ad adesso è stato definito come famiglia. Ma, a mio avviso, è necessario iniziare a sfatare tutti quei falsi miti e quelle false immagini che rendono il confronto tra realtà diverse apparentemente impossibile. Molti di quelli che consideriamo passi avanti ed evoluzioni del nostro mondo sono stati ridicolizzati e derisi, ed ora sono consideriamo elementi irrinunciabili e fondamentali della nostra società. Pensate semplicemente a quello che si diceva della possibilità di concedere la possibilità di voto alle donne. Concedere loro il voto avrebbe portato alla fine della nostra società. Non mi sembra che niente di tutto questo sia avvenuto e anzi, la possibilità che le donne votino ha contribuito all’avanzamento dell’intera società.

Quando a guidarci è il pregiudizio l’unica strada percorribile è la chiusura. Un senso unico che porta al giudizio e all’esclusione. E’ necessario screditare tutto questo, cercando di passare dal giudizio alla comprensione. E il primo passo verso la comprensione è quello di guardare le cose per ciò che sono non facendosi guidare dal preconcetto o dalla paura che esse suscitano in noi. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pag. 28

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Omogenitorialità (1)

Omogenitorialità (1)Il post di oggi è dedicato ad uno di quei temi che sembra suscitare sempre perplessità e discussione ma che, se si ha la voglia di interrogarsi e di porsi delle domande, rimane un argomento per il quale il confronto sembra alimentato più da pregiudizi che da dati oggettivi. Oggi voglio provare con voi ad esplicitare questi dati oggettivi, far parlare loro piuttosto che il pregiudizio. L’argomento è: può un bambino che cresce con genitori dello stesso sesso crescere ‘bene’? Stiamo parlando di omogenitorialità, un aspetto della società che sta iniziando a prendere piede, stante la totale mancanza di legislazione da parte dello Stato. Nonostante questo vuoto normativo, nelle ragioni del quale non entreremo, si diffondono sempre più famiglie che sono lo specchio dei tempi nei quali volenti o nolenti viviamo, una società nella quale la famiglia è ben lontana dallo stereotipo che continuano ripetutamente a propinarci, padre madre figlio maschio e figlia femmina, quando la realtà parla di famiglie ricostituite, famiglie allargate, famiglie monogenitoriali, famiglie adottive ecc. Eppure, quando si tratta di affrontare il tema della genitorialità, ci si domanda se una coppia di genitori dello stesso sesso sia adatta a crescere un bambino. Mai che questi dubbi sfiorino le migliaia di famiglie eterosessuali nelle quali ai genitori, per il solo fatto di essere genitori biologici del bambino, credo non venga mai domandato se siano o meno adatti a crescere il loro figlio. E sarebbero migliaia gli esempi che testimonierebbero dell’incapacità di genitori eterosessuali di svolgere le funzioni genitoriali.

Qual è allora la paura più grande rispetto alle famiglie omogenitoriali? Diciamo che il dubbio più grande riguarda il fatto che un figlio (o una figlia naturalmente) cresciuti all’interno di una famiglia con genitori dello stesso sesso, non favorisca l’identificazione nel bimbo col genitore dello stesso sesso e possa farlo crescere in maniera non adeguata. Il dubbio tradotto in termini pratici è che da coppie omosessuali possano ‘svilupparsi’ figli omosessuali. Se questa teoria fosse vera, non si capirebbe come possano nascere figli omosessuali in coppie etero. Lo sviluppo dell’identità di genere è qualcosa di ben più complesso di genitori etero=figli etero e viceversa. E’ uno sviluppo che coinvolge la formazione dell’identità dell’individuo, che ha come figure di identificazione non solamente i suoi genitori ma anche altri significativi per il bambino stessoSarebbe riduttivo pensare che il bimbo sia emanazione dei soli genitori vivendo la famiglia stessa in un contesto sociale più ampio.

Un altro punto dolente dell’argomento ha a che fare col rapporto che genitori omosessuali hanno coi loro figli. La posizione più comune è quella di coloro che non vogliono la possibilità per coppie omosessuali di adottare dei bambini. Ma come ci si dovrebbe comportare con i figli naturali? Mi spiego meglio: una donna ha dei figli con un uomo, suo marito. Dopo alcuni anni di matrimonio la coppia ha problemi. Si separano e la donna va a convivere con quella che diventa a tutti gli effetti la sua compagna. Quale sarebbe la posizione di coloro che non possono tollerare l’idea dell’omogenitorialità? Si dovrebbero portare via i figli alla donna? Affidarli al padre? O comunque bisognerebbe garantire il legame col genitore biologico per quanto abbia uno stile di vita ostracizzato a livello legislativo? E’ una questione che non sembra mai interessare coloro che si occupano di questo argomento. Credo che una delle prime cose che dovremmo fare a questo punto è quello di cercare di ridefinire il concetto stesso di genitorialità. Stante tutte le molteplici forme attraverso cui si può organizzare una famiglia, che cosa rende due persone due genitori? Vi riporto il passaggio di un testo per me molto esplicativo sulla questione: in questo senso il concetto stesso di genitorialità viene ridefinito. La funzione genitoriale non può più essere riduttivamente ricondotta ai legami di sangue (cosa che non si riscontra nelle famiglie con figli adottivi), alla presenza di entrambi i genitori (cosa che non pertiene nelle famiglie monogenitoriali) o alla presenza di un unico nucleo accudente (cosa che non avviene, ad esempio, nelle famiglie ricomposte). Una genitorialità funzionale basata sui processi più che sulle strutture, allora, dipende dalla capacità dei genitori di proteggere i figli in modo stimolante, insegnare loro il limite senza soverchiare, favorire l’autonomia nell’interdipendenza e affrontare i conflitti in modo cooperativo (Fruggeri, 2005). [1]

– Continua –

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pag. 110

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La ricetta della felicità sta nell’agire?

La ricetta della felicità sta nell'agireNel post di oggi vorrei segnalarvi un articolo di Repubblica nel quale si riportano i risultati di diversi studi circa la ricetta giusta per la felicità. Ovviamente non si parla di un metodo per trovare la felicità quanto sulla possibilità che muoversi, darsi da fare, possa avere delle implicazioni circa la propria percezione di essere felici. Sarebbe una sorta di capovolgimento rispetto all’idea che basti pensare positivo per essere tali! Nell’articolo si accennano a diversi studi compiuti da diversi psicologi, che cercarono di tracciare quali potevano essere le caratteristiche personali che potevano far si che una persona realizzasse i suoi obiettivi (e fosse, per questo, felice). I diversi studi che vengono riportati andrebbero verso una direzione comune: bisognerebbe agire per raggiungere dei risultati percepiti come positivi. Probabilmente la possibilità di agire ha a che fare con il sentirsi attivi e non in balìa di evenienze sulle quali non possiamo fare nulla e che ci fanno sentire impotenti. Credo che più che una questione di agire, sia una questione di riuscire ad accompagnare testa e azione. Che senso avrebbe sennò agire senza che il pensiero accompagni quello che stiamo facendo? Il fatto di sentirsi in grado di muoversi e di raggiungere gli obietti che ci si è prefissati non può che far stare bene, anche solo per il fatto di non farci percepire l’immobilità rispetto ad un obiettivo che ci sta a cuore. Risulta, forse, precipitosa una distinzione tra pensare ed agire, dal momento che ognuna si riverbera nell’altra. Se agiamo e otteniamo risultati, stiamo meglio e questo rinforza il nostro muoverci. Se, viceversa, agiamo e non otteniamo nulla, stiamo male e forse non  più propensi a muoverci. 

All’interno dell’articolo del quale vi ho postato il link, si trova anche il collegamento con un altro articolo, sempre di Repubblica, che fa il punto su quali caratteristiche debba avere un piano per cercare di conquistare ciò che ci si è prefissi nella vita. Le caratteristiche sarebbero:

  1. concretezza (scegliere obiettivi che si è in grado di raggiungere),
  2. convinzione di farcela (se siamo i primi a non credere di potercela fare come si può sperare di centrare l’obiettivo?),
  3. realizzare un desiderio alla volta (cercando di capire quali sono le priorità o gli obiettivi più facilmente raggiungibili),
  4. non porre obiettivi lontani nel tempo (cercando di prefissare anche un ragionevole limite temporale per l’ottenimento di ciò che si vuole),
  5. trovare la giusta motivazione (naturalmente per cercare di ottenere ciò che vogliamo dovremo essere motivati ad ottenerlo!),
  6. organizzare le giornate ( di modo che l’obiettivo sia in parte strutturato in un tempo che permetta anche la pianificazione stessa del suo raggiungimento),
  7. l’ottimismo (ovvero la capacità di non lasciarsi abbattere dalle difficoltà che necessariamente si incontrano),
  8. non pensare al presente (cercare, cioè, di non fare un raffronto con la propria attuale realtà che può essere demotivante). Credo che questo elenco sia interessante soprattutto per la possibilità di dare una risposta concreta su come affrontare ed organizzare il ‘muoversi’. Non so se sia la ricetta della felicità. Probabilmente è solo la ricetta di una migliore organizzazione, pratica e cognitiva, sul come cercare di affrontare dei problemi.

Eccovi il link dell’articolo:

http://www.repubblica.it/scienze/2012/07/05/news/per_la_felicit_non_basta_pensare_positivo_servono_azioni_e_comportamenti_vincenti-38498506/?ref=HRERO-1

L’articolo è di Valeria Pini.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Quanto siamo emotivamente (inter)/(in) dipendenti?

Quanto siamo emotivamente (inter)(in) dipendentiLa riflessione che condivido oggi è nata da una osservazione che si può fare immediatamente e personalmente: provate a lasciare a casa il telefono e ditemi come vi siete sentiti tutto il giorno senza questo oggetto. Prima di arrivare alle conclusioni permettetemi una breve digressione sociologica. La premessa parte dal fatto che fino a non molto tempo fa, inizio del secolo scorso tanto per dare delle coordinate temporali, il mondo era molto diverso da come lo consideriamo ‘normale’ oggi. Dovremmo anche tenere a mente che le persone vivevano all’interno di comunità che erano in qualche misura autonome rispetto a come le conosciamo adesso. Le persone, con poche eccezioni, nascevano e morivano nello stesso luogo e di solito la comunità era in grado di sostentarsi autonomamente. Anche le persone riflettevano questa autonomia. Molti erano in grado di costruire, fare o procacciarsi ciò che serviva per vivere. Se anche non si era in grado di fare tutto, al’interno della comunità esisteva qualcuno che poteva farlo per te rendendo la comunità di fatto indipendente. Anche le persone sviluppavano un senso di indipendenza potendo contare sulle proprie risorse piuttosto che su un infinità. Col cambiamento che coinvolse tutto il mondo occidentale, le cose cambiarono notevolmente. Si iniziò, con le varie rivoluzioni industriali, a diversificare funzioni e ruoli sopratutto dal punto di vista lavorativo e iniziò quella specializzazione del mondo del lavoro i cui frutti vediamo anche adesso. Abbiamo, infatti molti lavori che sono di assoluta specialità (anche il mio lo è!) e che prevedono delle figure formate ad hoc per svolgere determinate funzioni. Ovviamente, più una persona si specializza in un determinato settore, più diventa difficile che sappia fare delle cose che non ha appreso in quel determinato ambito. Questo fa si, necessariamente che quella persona dipenda da altre persone per soddisfare altri bisogni. Non si saprà costruire una casa (e ne dovrà comprare una da chi la costruisce per lui!), non si saprà procacciare il cibo (e lo dovrà reperire da che si occupa di allevarlo/coltivarlo per lui, glielo porti a casa e così via!) ecc. Quale sono le conseguenze di questo processo? Quella forse più evidente è la totale interdipendenza l’uno dall’altro, l’impossibilità che ognuno di noi possa sentirsi in grado di pensare autonomamente la propria vita.

E veniamo al punto. O meglio torniamo all’inizio. Questa continua interdipendenza ha figliato, e non poteva essere altrimenti, anche nella nostra psiche, andando ad intaccare il senso della nostra capacità di non dipendere dagli altri. Mi spiego meglio. Quando entriamo nel versante emotivo questo sentimento di dipendenza diventa sempre più costoso e pesante da reggere. Se prima si aveva a che fare col semplice nucleo familiare o con la comunità nella quale si viveva, ora, con i mezzi tecnologici a nostra disposizione, questo senso di dipendenza è legato a centinaia (se non migliaia) di persone con le quali interagiamo in maniera virtuale ma le cui conseguenze possono ben essere annoverate come reali. E un’altra conseguenza della quale dovremmo necessariamente tenere conto riguarda il possibile senso di esclusione che una persona può provare nel non sentirsi ricompresa o accettata all’interno di queste comunità virtuali più ampie. Il costo di questo continuo legame virtuale è molto pesante da sopportare. Ormai non prendiamo neanche più in considerazione l’ipotesi di non poter essere rintracciati in qualunque posto o a qualunque ora. Siamo formalmente legati a chi ci cerca con qualunque mezzo lo faccia. Attenzione, non sto demonizzando il mezzo del quale, d’altronde, anche io mi servo in abbondanza. Vorrei soltanto riflettere su quanto la nostra percezione di autonomia emotiva sia sempre più fragile nel momento in cui non sentiamo di poterci connettere con tutti gli altri. Che fine ha fatto la nostra indipendenza emotiva? Che fine ha fatto la capacità di percepirci autonomi? Appena ci succede qualcosa il primo impulso è quello di condividerlo. Non una brutta ragione, sicuramente, ma quanto siamo capaci ormai di godere di una cosa per noi stessi? 

Tornando all’inizio, so che alcuni di voi considerano del tutto improponibile l’esperimento di lasciare il telefono a casa. Se mi succede qualcosa come faccio? Se mi cerca qualcuno quando mi trova? Quali risorse in più avevamo quando questi mezzi non erano così presenti nelle nostre vite? Non sto pensando di tornare indietro quanto di guardare con attenzione ciò che facciamo controllando in continuazione il telefono. Forse non avremo gli ultimi aggiornamenti di Facebook. In compenso magari saremo in grado di gestire una giornata senza telefono, con noi stessi.

Sentendoci emotivamente più liberi?

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A presto…

Fabrizio

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Gli analfabeti delle emozioni

Gli analfabeti delle emozioniIl post è una riflessione che parte dal bellissimo brano che Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista italiano, scrisse all’indomani dell’ennesimo caso di cronaca nera che vedeva, nella parte dell’assassino, giovanissimi. La riflessione parte da questo punto: qual è il mondo interiore di questi giovani? Eccovi il pezzo:

L’hanno trovata morta in un cascinale abbandonato, vicino alla sua abitazione. Ancora non sanno se il ragazzo che ieri notte ha confessato il delitto ha agito da solo o insieme ad altri, che per ora restano in quella cupa ombra dove la sessualità si mescola alla violenza, in quel cocktail micidiale che, a dosi massicce, la televisione quotidianamente distribuisce nell’indifferenza generale.

Quel che è certo è che una brava ragazza di 14 anni, che sabato scorso era uscita con le chiavi di casa e il suo cellulare, come fanno tutti i ragazzi della sua età, a casa non tornerà più. Ma come è fatto il mondo fuori casa?Non dico il mondo in generale, ma il mondo di questi ragazzi di cui ieri, in un lucido intervento su Repubblica, Marco Lodoli ha descritto il loro apparato cognitivo in questi termini: “I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film, sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio. (…)”. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi”.

A questa diagnosi (che posso tranquillamente confermare perché questi stessi ragazzi li ascolto quattro o cinque anni dopo, un po’ più evoluti ma non tanto, all’università) resta solo da aggiungere che carenti non sono solo i nessi “cognitivi”, verbalizzati con un linguaggio che più povero non si può immaginare, ma anche quelli “emotivi”, per cui viene da chiedersi se questi ragazzi dispongono ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenersi dal gesto. Esiste nella nostra attuale cultura e nelle nostre pratiche di vita un’educazione emotiva che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro passioni, la qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure il mondo emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sanno dare neppure un nome? Se così fosse, di fatti simili a questa tragedia avvenuta nel Bresciano aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di poter governare la propria vita senza un’adeguata conoscenza di sé. E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta a cercare l’anima o direttamente in farmacia nel tentativo di sedarla; ma faccio riferimento a quell’educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure, che mette al riparo da quell’indifferenza emotiva, oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono. E chi non sa sillabare l’alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore, si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico.

E tutto ciò perché? Perché manca un’educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby sitter, e poi a scuola, quando ascoltano parole che fanno riferimento a una cultura che, per esser tale, non può che esser distante mille miglia da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale. Oggi l’educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. Se la scuola non è sempre all’altezza dell’educazione emotiva, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale, anche una maturazione psicologica, l’ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il mondo giovanile. Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non è loro arrivata, da adolescenti non hanno incontrato, e nelle prossimità dell’età adulta hanno imparato a controllare, fa la sua comparsa il “gesto”, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che questi ragazzi non hanno scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con se stessi per afasia emotiva.

Si tratta di gesti che mettono in crisi la giustizia e, con la giustizia, la società che per tranquillizzarsi è sempre alla ricerca di un movente. E il movente in effetti non c’è, o se c’è è insufficiente, comunque sproporzionato alla tragedia, persino ignoto agli stessi autori. Cercarlo ci porta lontano, tanto lontano quanto può esserlo l’avvio della nostra vita, dove ci è stato insegnato tutto, ma non come “mettere in contatto” il cuore con la nostra mente, e la nostra mente con il nostro comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore. Queste “connessioni”, che fanno di un uomo un uomo, non si sono costituite, e perciò sono nate biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati, da non percepirli neppure come propri. Questo è il nostro tempo, il tempo che registra il fallimento della comunicazione emotiva e quindi la formazione del cuore come organo che prima di ragionare, ci fa “sentire” che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo.

UMBERTO GALIMBERTI, Gli analfabeti delle emozioni, La Repubblica, 5 ottobre 2002.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Succede…

Succede...Succede. Ogni tanto succede. Ogni tanto succede che un Paese faccia passi avanti verso una ‘normalità’ da molti agognata e percepita come non più rinviabile. Talvolta succede anche in Italia. Peccato che, come spesso avviene, questo passo avanti venga fatto dalle sentenze, perché la classe politica, così spesso indegna rappresentante di questo Paese, non sia ancora riuscita a dare un benché minimo indirizzo sociale a cambiamenti che ormai avvengono da tempo. Di cosa sto parlando? Della ormai famosa, per molti famigerata, sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce come, in una causa per l’affidamento di un figlio, il fatto che la mamma conviva con una donna, sua compagna, non costituisca motivo per negarle la custodia e anzi, riconosce che sia fondamentalmente un pregiudizio” il fatto che “sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”. Vi rinvio a questo link per una lettura dell’articolo apparso sul sito di Repubblica. La corte riconosce così che non ci sono gli strumenti per affermare che un bimbo con una coppia di genitori dello stesso sesso stia ‘peggio’ che in una coppia eterosessuale. E aggiungo che non ci sono gli strumenti neanche per affermare che, altro pregiudizio da sfatare, i figli di una coppia omosessuale crescano inevitabilmente con problemi di identificazione, avendo entrambi i genitori dello stesso sesso, che diventino cioè da grandi omosessuali a loro volta. Anche perché, se la stessa logica ferrea fosse applicata su coppie eterosessuali, non si capirebbe come da coppie eterosessuali nascano figli omosessuali. Naturalmente è partito l’apriti cielo da tutte quelle associazioni che si battono per il riconoscimento di un unico assetto familiare e che non riescono neanche a contemplare le diverse sfaccettature che i rapporti tra le persone possono avere. Anche questa volta capofila della battaglia contro, è stato il Vaticano che, con la consueta attenzione, delicatezza, rispetto e riguardo per la vita delle persone coinvolte in vicende simili, per bocca di un suo alto rappresentante arriva a dire che ‘l’adozione dei bambini da parte degli omosessuali porta il bambino a essere una sorta di merce’ ( Vincenzo Paglia, presidente del dicastero vaticano per la famiglia, arcivescovo, Corriere della Sera, 13.01.13). A parte che non si capisce per quale motivo i bambini diventino merce in caso di affidamento a famiglie omosessuali, specificamente nel caso in questione, ci si è concentrati  sul fatto che il padre del bambino fosse così inaffidabile che la Corte abbia scelto il ‘male minore’. E’ una bugia.

La Cassazione non ha optato per il male minore ma ha compiuto una scelta strategica basata sulla prospettiva migliore per il ragazzo, decretando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno come  non ci sono certezze scientifiche a questi preconcettiAnzi a dire il vero esiste ormai una mole molto ampia di studi [1] che dimostra esattamente il contrario, e cioè che non esistono differenze nello sviluppo di bambini in coppie eterosessuali od omosessuali a nessun livello. Eppure non succede così spesso che questo sia un tema che la nostra classe politica abbia il coraggio di affrontare. E anche adesso, che ci ritroviamo sotto elezioni, e dovremmo prendere una decisione su chi guiderà questo paese, non sentiamo mai come intendono affrontare e risolvere alcuni temi di natura sociale che, accantonati o ignorati da troppo tempo, non possono essere più rinviati ne prorogati. Sappiamo tutto di spread, tasse, tassi, riforme fiscali ma un Paese non è solo economia. Certi temi devono semplicemente essere affrontati, devono essere prese delle decisioni che, mettendo da parte inutili e screditati pregiudizi e affrontando il tema da un punto di vista civile e maturo come questo Paese si vanta, spesso a torto, di essere, possa portare al riconoscimento dei diritti non solo dei minori, ma di migliaia di persone per le quali questa non è una battaglia di buone intenzioni ma riguarda la stessa vita, la sua organizzazione e il suo significato. Deve essere sanata una situazione che non può più essere tollerata. E sarebbe necessario che venisse affrontata dalla nostra classe dirigente, i nostri rappresentanti e non tramite sentenze e ricorsi. A volte succede che un Paese faccia passi verso la civiltà. A volte succede che un Paese faccia delle cose per TUTTI i suoi cittadini. A volte succede che i pregiudizi vengano abbattuti. A volte succede. Vorrei che succedesse decisamente più spesso.

 A presto…

Fabrizio

[1] Per chi volesse approfondire il tema, consiglio la lettura dell’esaustivo libro di Cristina Chiari e Laura Borghi (2009), Psicologia dell’Omosessualità, Carocci.

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Simpsonterapia…

Simpsonterapia...Il post di oggi è tanto una provocazione quanto una chiave di lettura. Vorrei riflettere con voi sulle infinite possibilità di lettura che abbiamo della realtà che ci circonda. Quella che vi propongo oggi riguarda una di queste realtà ed è sotto gli occhi di tutti. Mi riferisco alla sigla di apertura del famoso cartone animato I Simpson in onda regolarmente da anni in Italia. Per chi non lo conoscesse il cartone (ma è un termine assolutamente riduttivo!) narra le strampalate vicende di una famiglia media americana e di tutti i possibili intrecci che la vita di queste persone può avere quotidianamente. Il programma si apre, appunto, con una sigla che apparentemente non dice molto su quello che state per vedere dato che fornisce una rapida carrellata dei personaggi della serie: vediamo Homer, il capofamiglia, che lavora in una centrale nucleare, la madre Marge impegnata a fare la spesa con la figlia piccola Maggie, il primogenito Bart che esce da scuola e va sul suo amato skateboard e Lisa impegnata nelle prove della lezione di musica. Ora, apparentemente, nulla di che. In realtà vorrei cercare di dimostrarvi quanto siamo circondati da livelli di complessità che si tratta solo di cogliere. La sigla, spesso non trasmessa o trasmessa tagliata è un capolavoro di complessità crescente e di simbolismo e contiene temi notevoli. Si apre con una visione dall’alto di Springfield, la media cittadina americana dove vivono i Simpson. Questa cittadina è sovrastata dalla onnipresente centrale nucleare. Sembra possibile una prima lettura simbolica: tutto è sovrastato dal potere economico e dalla possibiltà di poterci fare affari. La sigla procede con una inquadratura sulla scuola elementare dove, immancabilmente Bart, noto per non essere troppo tranquillo, sta scontando la sua punizione scrivendo centinaia di volte la stessa frase sulla lavagna. La frase che scrive è sempre al negativo. Non appena suona la campana di fine delle lezioni Bart farà immancabilmente l’esatto contrario di quanto ha appena scritto. Seconda lettura: quanto è utile un sistema scolastico impeganto solamente nel reprimere piuttosto che nel comprendere? Andiamo avanti: Homer sta armeggiando con una barra di plutonio nella centrale nucleare. Appena suona la fine del turno, si volta e se ne va come se quello che stava facendo non lo riguardasse più. Terza lettura: che sistema di lavoro può essere quello nel quale la responsabilità del singolo sembra non esistere? Accade, però, che la barra gli si attacchi addosso, ma torneremo su questo aspetto più avanti. La sigla prosegue facendoci vedere Marge e la piccola Maggie alla cassa del supermercato intente a pagare la spesa. Marge è chiaramente distratta dal fatto di leggere una rivista in cui si parla di come essere madri e, mentre sta leggendo non sta più badando a cosa succede a Maggie che, nel frattempo, viene presa e passata sul lettore ottico della cassa che, paradossalmente, le attribuisce un prezzo. La scena è emblematica per diverse ragioni: rappresenta quanto spesso siamo impegnati più a pensare alle cose piuttosto che a farle e quanto nella nostra società abbiamo ormai mercificato tutto. La sigla va avanti seguendo un altro personaggio: Lisa. La vediamo nella sua classe di musica, intenta a suonare il suo amato sax, ma nel non seguire alla lettera gli altri, il gruppo, suscita la riprovazione del suo insegnante. Anche questa scena è fortemente simbolica: vi troviamo una forte critica ad un sistema scolastico omologante e per niente capace di far risaltare le diversità individuali. Nello stacco successivo ritroviamo Homer: sta tornando a casa in macchina ma c’è qualcosa che lo infastidisce: la barra di plutonio nella schiena! Senza pensarci la prende e la butta all’esterno della macchina dove finisce per essere presa da Bart che sta tornando a casa sul suo skateboard. Da una parte scorgiamo l’irresponsabilità di un padre che ricade sul figlio (che potrebbe essere estesa, generazionalmente, nell’irresponsabilità dei comportamenti di una generazione che ricadono su quella successiva), dall’altro sempre la deresponsabilizzazione del singolo che sembra interessato solo al suo benessere e non a quello della collettività Anche se alla fine la collettività verrà rappresentata dal suo stesso figlio. Tanto per ricordarci che anche noi siamo ‘gli altri’ per qualcuno! Nella scena successiva abbiamo Marge e Maggie in macchina, stanno rientrando a casa: Marge suona il clacson e lo fa di rimando anche la figlia con il suo volante giocattolo. Il messaggio qua è chiarissimo: i figli crescono per imitazione, ci guardano e imparano come comportarsi e, volendo estendere il discorso, bisognerebbe stare attenti ai modelli imitativi che gli si offrono. Alla fine di una carrellata velocissima in cui compaiono moltissimi personaggi della serie (messaggio: viviamo in società!) i cinque si incontrano nella scena cult del divano che termina con una gag ogni volta diversa dalla precedente.

Insomma si tratta, a mio avviso, di un piccolo trattato di sociologia in appena un minuto di apparente cartone animato. Possiamo smettere di semplificare le cose: la complessità è intorno a noi. Dovremmo solo impegnarci a leggerla.

A presto…

Fabrizio

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